Uno dei capitoli dell’Apocalisse che sin dall’antichità divide gli esegeti è sicuramente il capitolo 12. Noi adesso lo prenderemo in esame seguendo la falsariga del grande commento di Kenneth Gentry. L’opera di questo autore è sicuramente il commento più aggiornato (è uscito nel 2024) oggi disponibile in lingua inglese. Uno degli indubbi meriti di Gentry è quello di aver preso in esame e riportato sistematicamente, nel corso della sua esposizione, anche i pareri degli studiosi che non sono d’accordo con lui. Gentry è protestante (calvinista) e non sempre ciò che afferma può essere accettabile per un cattolico. Tuttavia è uno studioso di grande erudizione, e le sue argomentazioni non possono essere ignorate da coloro che si interessano all’ultimo libro del canone biblico. Esaminando l’esegesi che egli propone del capitolo 12, integrerò le sue osservazioni con quelle di autori di provata serietà e di riconosciuto valore quali mons. Salvatore Garofalo, padre Réginald Garrigou-Lagrange, mons. Pier Carlo Landucci, il prof. Edmondo Lupieri, don Giuseppe Ricciotti e il prof. Claude Tresmontant. Prima però di prendere in esame la lettura di Gentry riporto a seguire i primi sei versetti del capitolo 12 del libro di Giovanni nella mirabile traduzione del prof. Lupieri[1].
E un segno grande fu visto nel cielo, una donna avvolta nel sole, e la luna sotto i suoi piedi e sulla sua testa una corona di dodici stelle, ed è incinta e urla, soffrendo le doglie e tormentata per partorire. E fu visto un altro segno nel cielo, ed ecco un drago, grande, rosso fuoco, con sette teste e dieci corna e sulle sue teste sette diademi, e la sua coda trascina la terza parte delle stelle del cielo e le gettò sulla terra. E il drago sta dritto di fronte alla donna, che sta per partorire, così da inghiottire, quando partorisca, il figlio suo. E partorì un figlio, un maschio, il quale sta per pascere tutte le genti con bastone di ferro. E fu strappato suo figlio verso Dio e verso il suo trono. E la donna fuggì nel deserto, dove ha là un luogo preparato da Dio, perché là la nutrano per mille duecento sessanta giorni.
Prima di seguire Gentry nel suo excursus, una prima osservazione preliminare: il versetto che parla del “figlio maschio, il quale sta per pascere tutte le genti con bastone di ferro” è caratterizzato da un duplice riferimento messianico. I testi qui echeggiati sono il Salmo 2 e il versetto 2, 27 dell’Apocalisse stessa (lettera alla chiesa di Tiatira).
Leggiamo il Salmo 2:
“Il re messia
Perché le genti congiurano,
perché invano cospirano i popoli?
Insorgono i re della terra
e i principi congiurano insieme
contro il Signore e contro il suo Messia:
«Spezziamo le loro catene,
gettiamo via i loro legami».
Se ne ride chi abita i cieli,
li schernisce dall’alto il Signore.
Egli parla loro con ira,
li spaventa nel suo sdegno:
«Io l’ho costituito mio sovrano
sul Sion mio santo monte».
Annunzierò il decreto del Signore.
Egli mi ha detto: «Tu sei mio figlio,
io oggi ti ho generato.
Chiedi a me, ti darò in possesso le genti
e in dominio i confini della terra.
Le spezzerai con scettro di ferro,
come vasi di argilla le frantumerai».
E ora, sovrani, siate saggi
istruitevi, giudici della terra;
servite Dio con timore
e con tremore esultate;
che non si sdegni e voi perdiate la via.
Improvvisa divampa la sua ira.
Beato chi in lui si rifugia“.
E adesso rileggiamo la conclusione della lettera a Tiatira tratta dall’Apocalisse:
“E il vincitore, e colui che conserva sino alla fine le mie opere, darò a lui potere sulle genti. E li pascerà con bastone di ferro, come frantuma i vasi di coccio. Come anch’io l’ho preso da mio padre, e gli darò la stella del mattino. Chi ha orecchio ascolti che cosa lo Spirito dice alle chiese”.
Ora veniamo al celebre inizio del capitolo 12. Chi è, o cosa rappresenta la donna “vestita di sole” descritta da Giovanni? Così risponde Gentry a tale interrogativo:
“Ma chi è questa donna gloriosa qui in Apocalisse? La questione è stata a lungo e vigorosamente dibattuta. Un punto di vista diffuso nell’esegesi cattolica romana (e suggerito per la prima volta da Ecumenio) sostiene che questa raffiguri Maria, la madre di Gesù (ad esempio Feuillet 257-258). Possiamo rapidamente scartare questa interpretazione, perché (1) il testo parla del “resto dei suoi figli” in 12, 17, riferendosi lì ai santi perseguitati. La donna è ovviamente un’immagine collettiva che produce molti figli. (2) Il passaggio più ampio (incluso 12, 4-5) riflette chiaramente Isaia 66, 6-9, che si riferisce a Sion (vedi argomentazione sotto). Ciò suggerisce che è in vista l’Israele collettivo piuttosto che un individuo (Maria). (3) Maria ha un ruolo troppo modesto nella Scrittura per un’immagine così drammatica. È appena menzionata dopo il resoconto del Vangelo: in Atti appare una volta (At 1, 14); nessuno la menziona altrove nel Nuovo Testamento. […] Molti commentatori sostengono che questa donna vestita di sole rappresenti l’intera chiesa, “la comunità di fede sia dell’Antico che del Nuovo Testamento”. Tuttavia, è preferibile un’altra visione, più ristretta: lei è “Israele, il popolo eletto di Dio”. Più specificamente, questa donna raffigura Israele nella sua forma ideale, Israele come Dio intende che sia. […] In primo luogo, le fonti di Giovanni suggeriscono che Israele stesso sia in vista. Come notato sopra, nel suo riferimento alle “dodici stelle”, Giovanni allude a Genesi 37, 9, che raffigura gli undici figli di Giacobbe che si inchinano davanti al dodicesimo figlio (Giuseppe). Questo sogno riguarda chiaramente l’Israele storico (Ge 37, 10-11)”[2].
Gentry fa dunque tre affermazioni: l’immagine in questione (1) rappresenta l’”Israele ideale”; (2) echeggia Genesi 37, 9 e soprattutto (3) non riguarda la Vergine Maria.
Sulle prime due affermazioni di Gentry, Lupieri sembra concordare:
“La simbologia dovrebbe dunque rappresentare l’intero Israele, nei lombi di Giacobbe, di Rachele e dei dodici patriarchi. Se la «corona» è segno di vittoria, essa dovrebbe significare anche il dominio, la superiorità rispetto alle «stelle». Pare logico concludere che si tratti di una rappresentazione celeste di Israele (femminile in ebraico e sempre rappresentato da una donna nelle tradizioni profetiche veterotestamentarie), di quell’Israele fedele che è anche il vero cristianesimo, come mostra il finale del capitolo, in cui «i rimanenti del suo seme…conservano le norme di Dio [la Legge] e…hanno la testimonianza di Gesù»”[3].
Da parte mia, rimango perplesso quando si parla di “Israele ideale”: tale nozione comprende infatti i giusti dell’Antico Testamento, ma questi giusti non possono essere chiamati in causa qui nel capitolo 12 dell’Apocalisse, essendo quello della donna “vestita di sole” un parto chiaramente messianico. Ricordo a tal proposito quanto afferma la Lettera agli Ebrei:
Lettera agli Ebrei 11, 39-40: “E tutti costoro, benché abbiano ottenuta buona testimonianza a motivo della fede, non riportarono l’oggetto della promessa, avendo Iddio predisposto qualcosa di meglio a nostro riguardo, affinché non raggiungessero senza di noi il perfezionamento”.
Così commenta i predetti versetti Mons. Salvatore Garofalo nella Bibbia da lui curata:
“I giusti dell’A. T. non videro la salvezza messianica; Dio aveva disposto che non ne raggiungessero la perfezione prima che anche noi fossimo nella Chiesa, 12, 23; 1 Piet 3, 19”[4].
Passiamo adesso all’affermazione di Gentry secondo cui Maria ha “un ruolo troppo modesto” nella Scrittura per simboleggiare la donna “vestita di sole”.
Su questo punto il mio dissenso non potrebbe essere più netto. Ricordiamo a questo proposito che la teologia cattolica definisce Maria quale corredentrice e mediatrice di tutte le grazie, anche in base ad una esaustiva esegesi di Giovanni 19, 25-27. Leggiamo ad esempio cosa scrive Mons. Pier Carlo Landucci nel suo Maria Santissima nel Vangelo[5]:
“È certo, prima di tutto – per tornare un po’ su concetti che già esponemmo in generale (p. 315 ss.) a riguardo di questi ultimi giorni di Gesù, ma che acquistano una attualità e una forza tutta speciale in questo ultimo giorno – che la Madonna SS. presenziò e partecipò interiormente il più strettamente possibile alle varie fasi della passione di Gesù. Ciò ha il suo fondamento positivo immediato nella narrazione di S. Giovanni (19, 25), secondo la quale la Madonna si trovava vicina a Gesù nel momento culminante e più difficile della passione, cioè ai piedi della Croce. Tale episodio svela infatti i disegni di Dio – ai quali conformavasi certo perfettamente la volontà di Maria – di renderla compartecipe interiormente alla divina cruenta immolazione e farla essere, accanto a Gesù Redentore, Corredentrice: in armonia alla stretta collaborazione della Madonna con Gesù, dalla nascita, all’offerta, e a tutto lo svolgersi della vita di Lui. Ma ammesso questo piano resterebbe incomprensibile perché tale presenza e compartecipazione sarebbe dovuta avvenire solo in quell’ultimo momento e non anche in tutto il sanguinoso percorso che, attraverso indicibile strazio, condusse Gesù dal Getsemani al Calvario e che costituisce propriamente la sua passione. A tale presenza e compartecipazione alle varie fasi della passione, Maria SS. era poi evidentemente sospinta, in armonia al divino volere, da tutta la forza del suo cuore materno, poiché dove il figlio soffre la madre amorosa vuole essere presente, per sollevarlo dalle pene o per sostenerle con lui: tale è la legge dell’amore. Ma c’è di più, poiché nella Vergine SS. oltre la tenerissima maternità per Gesù, v’era la spirituale maternità per noi, che la sospingeva all’amorosa riparazione delle nostre colpe e quindi a cercare la più intima compartecipazione alla sofferenza di Gesù, che Ella sapeva tutta rivolta alla nostra santificazione”.
Sul privilegio di Maria quale corredentrice del genere umano, è padre Garrigou-Lagrange a ricordare le significative parole di Benedetto XV:
“Infine, Benedetto XV insegna: “Unendosi alla passione e alla morte di suo Figlio, Essa ha sofferto fin quasi a morirne […] per placare la divina giustizia; per quanto poteva, ha immolato il Figlio suo, in modo che si può dire che con lui ha riscattato il genere umano”. Questo è l’equivalente del titolo di corredentrice”[6].
Stupisce poi, che uno studioso come Gentry, sempre pronto ad evidenziare tutti i possibili echi veterotestamentari del testo dell’Apocalisse, si sia lasciato sfuggire un passo cruciale per la comprensione del capitolo dodicesimo qual è quello costituito da Genesi 3, 15, nel quale così Dio si rivolge al serpente biblico:
“Una ostilità io porrò tra te e la donna e tra il tuo seme e il seme di lei: esso ti schiaccerà la testa e tu lo assalirai al tallone”.
Nella donna menzionata da tale versetto la teologia cattolica ha ravvisato la Donna per antonomasia: Maria Santissima Madre di Dio. Così commenta il predetto versetto mons. Salvatore Garofalo:
“È la prima promessa di salvezza: verrà il trionfatore di Satana, il Messia, col quale è intimamente associata la Madre”.
A me sembra di cogliere un’allusione al predetto versetto proprio verso la fine del capitolo 12 dell’Apocalisse, quando Giovanni, menzionando l’ostilità del dragone verso la donna, scrive che “andò a far guerra contro i rimanenti del suo seme, coloro che osservano le norme di Dio e che hanno la testimonianza di Gesù”.
Sempre a proposito di Genesi 3, 15 padre Garrigou-Lagrange opportunamente rimarca:
“Di per sé queste parole non sono certo sufficienti a provare che il privilegio dell’Immacolata Concezione vi sia rivelato, ma i Padri, nel loro paragone tra Eva e Maria, vi hanno visto un’allusione a questa grazia, e Pio IX cita a questo titolo tale promessa. Un’esegesi naturalistica vede in queste parole solo l’espressione della repulsione istintiva che l’uomo prova per il serpente. Ma le tradizioni ebraica e cristiana vi vedono molto di più. La tradizione cristiana ha visto in questa promessa, che è stata chiamata il Proto-vangelo, il primo accenno al Messia e alla sua vittoria sullo spirito del male. Gesù, infatti, rappresenta in modo eminente la stirpe della donna, in lotta con la stirpe del serpente. Ma se Gesù è chiamato così, non è per il legame lontano che lo unisce a Eva, perché quest’ultima poteva solo trasmettere ai suoi discendenti una natura decaduta, ferita, priva di vita divina, piuttosto per il legame che lo unisce a Maria, nel cui grembo ha assunto un’umanità senza macchia. Come dice padre Xavier-Marie Le Bachelet: “Non troviamo nella maternità di Eva il principio di questa inimicizia che Dio metterà tra la stirpe della donna e la stirpe del serpente; poiché Eva stessa cadde come Adamo, vittima del serpente. Questo principio di inimicizia si trova solo in Maria, madre del Redentore. Quindi in questo protovangelo, la personalità di Maria, sebbene velata, è presente, e la lezione della Vulgata, ipsa, esprime una conseguenza, che emerge realmente dal testo sacro, perché la vittoria del Redentore è moralmente, ma realmente la vittoria della Madre sua”[7].
A questo punto possiamo stabilire un secondo punto fermo nella lettura del capitolo 12 dell’Apocalisse (dopo la messianicità del parto della donna “vestita di sole”): al “seme della donna” di Genesi 3, 15 corrisponde il “seme della donna” del predetto capitolo 12. E il seme della donna, nel Nuovo Testamento, è la Chiesa perché Maria, oltre a essere Madre di Cristo, è anche Madre della Chiesa.
Riguardo all’identità della donna “vestita di sole” mi sembra interessante menzionare anche una considerazione del famoso biblista Giuseppe Ricciotti:
“Questa persona simbolica è considerata da moltissimi Padri antichi come allegoria della Chiesa, dell’Israele spirituale, ed è coronata da dodici stelle quante sono le tribù d’Israele. Più recentemente è stata interpretata come figura della Vergine Madre di Gesù Cristo”[8].
Riprendiamo adesso ad esaminare l’esegesi di Gentry. Nel commentare il versetto 2 del capitolo 12, lo studioso americano esprime un’interessante osservazione:
“… la “nascita” menzionata qui nel versetto 12, 2 (e in 12, 5) parla in realtà della risurrezione di Gesù dalla tomba, piuttosto che la sua uscita dal grembo. Possiamo capire questo da quanto segue. Primo, il verbo tradotto come “tormentata per partorire” è basanizomenē, che esprime un dolore molto intenso e che non viene mai utilizzato per il dolore del vero parto nella Scrittura o altrove. Nell’Apocalisse, viene normalmente tradotto come “tormentare” (9, 5; 14, 10; 20, 10), come è la sua forma nominativa, basanismos, da basanos (9, 5; 14, 11; 18, 7, 10, 15). Questo induce Prigent a chiedere: “Perché le sofferenze della donna vengono indicate da un verbo che comunemente non ha questo significato” (vale a dire, quello di far nascere)? […] questa sofferenza di lunga data giunge a un’espressione eminente nell’esperienza dei discepoli di Gesù. Sono l’incarnazione attuale del resto di Israele, la donna che grida di dolore. Così il versetto 2 parla della loro intensa paura e profonda angoscia mentre sopportavano la persecuzione da parte dell’ebraismo apostata che mise a morte Cristo”[9].
Quindi, secondo lo studioso americano, il parto in questione non riguarda la nascita verginale di Gesù bensì è un’allusione alla sua resurrezione. Un punto di vista che Gentry ribadisce poco dopo:
“In primo luogo, l’affermazione che egli ‘governerà tutte le nazioni con una verga di ferro’ (12, 5b) riecheggia chiaramente il Salmo 2, 7. Lì l’affermazione del Signore ‘oggi ti ho generato’ parla della sua risurrezione dai morti. Il punto del Salmo 2 è la regalità di Cristo che scaturisce dalla sua morte e risurrezione. Infatti, secondo Atti 13, 32-33, ‘Perciò noi vi annunziamo che la promessa fatta da Dio ai nostri padri Dio l’ha adempiuta in pro dei loro figli, di noi, col risuscitare Gesù, secondo quanto è scritto nel secondo Salmo: Tu sei il Figlio mio, io oggi ti ho generato’. In secondo luogo, il ‘tormento’ (basanizomenē) del parto (12, 2) che la donna sopporta allude a Isaia 26, 17 e 66, 7, che non si riferiscono alla nascita effettiva ma alla sofferenza metaforica del popolo di Dio. Infatti, come notato in 12, 2, la parola non è mai usata per il parto effettivo, e nell’Apocalisse si parla di “tormento”. Qui la parola sembra parlare della sofferenza del resto [di Israele] (specialmente dei discepoli) per la perdita di Cristo e per la loro conseguente persecuzione da parte degli ebrei”[10].
Il punto di vista di Gentry, secondo cui il parto descritto da Giovanni allude alla sequenza morte-resurrezione-ascensione del Messia è condiviso, tra gli altri, anche dal famoso esegeta cattolico André Feuillet.
Quindi, secondo Gentry, il figlio maschio partorito dalla donna vestita di sole è Gesù. Un’opinione condivisa da Mons. Garofalo:
“Il maschio è Gesù, capo del popolo nuovo; cfr. Sal 2, 9; Is 66, 7”.
Introduciamo adesso un nuovo personaggio, il cui contributo è da considerarsi davvero significativo nell’interpretazione dell’Apocalisse: intendo riferirmi a Cesario di Arles. Cesario (Chalon-sur-Saône, 470 circa – Arles, 27 agosto 542) è stato un monaco cristiano e vescovo francese di origine romana, divenuto arcivescovo di Arles. È venerato come santo dalla Chiesa cattolica. Le sue 19 omelie del Commento all’Apocalisse sono state tradotte e pubblicate nel 2016 dalle Edizioni Paoline, a cura di don Francesco Tedeschi. Leggiamo cosa scrive Cesario proprio in relazione al capitolo 12 dell’Apocalisse:
“E un segno grandioso apparve nel cielo – afferma – una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi: dice che la Chiesa ha sotto i suoi piedi una parte di sé stessa, cioè gli uomini ipocriti e i cattivi cristiani. E sul capo una corona di dodici stelle: queste dodici stelle possono significare i dodici Apostoli; ma che sia rivestita di sole significa la speranza della risurrezione, a causa di ciò che sta scritto: Allora i giusti brilleranno come il sole nel regno del padre loro. L’enorme drago rosso è il diavolo che cerca di divorare il figlio della Chiesa. […] Era in travaglio, e sentì dolori come di colei che partorisce: ogni giorno e in ogni tempo la Chiesa partorisce, nella prosperità e nelle avversità. E il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire, per divorare il suo figlio appena lo avesse partorito. Infatti è sempre nel dolore che la Chiesa partorisce Cristo nelle sue membra, e sempre il drago cerca di divorare il bambino che sta per nascere. E la donna partorì un figlio maschio, cioè il Cristo; poiché il suo corpo, cioè la Chiesa, genera sempre le membra del Cristo. Lo si chiama maschio perché egli è vittorioso contro il diavolo”[11].
Dall’esegesi di Cesario emerge un aspetto oltremodo significativo, a quanto pare, secondo costui, l’espressione “figlio maschio” utilizzata da Giovanni riveste una duplice valenza: essa designa sia la persona di Gesù che il suo corpo mistico (le “membra del Cristo”).
Sempre a proposito del “figlio maschio”, risulta particolarmente acuta la seguente considerazione del prof. Lupieri:
“Questo maschio può essere la pienezza della promessa, quindi il messia cristiano, ovvero anche il popolo santo ed eletto, quindi il cristianesimo come vero Israele. Anche qui l’interpretazione oscilla tra l’individuo e la personalità corporativa”[12].
E in effetti, sembra proprio che tanto la donna “vestita di sole” che il figlio “maschio” da lei generato siano due “personalità corporative”. Sempre a proposito della donna “vestita di sole”, così si esprime il più volte citato mons. Garofalo:
“La donna è per molti la Chiesa personificata, per altri la Madre di Gesù; forse le due figure confluiscono”.
Questo è anche il mio modestissimo parere: le due figure confluiscono. E come la donna rappresenta la Chiesa sotto l’immagine di Maria immacolata e assunta in cielo, così il figlio maschio rappresenta il nuovo popolo di Dio sotto l’immagine di Gesù risorto e asceso al cielo.
Che poi la medesima donna non rappresenti esclusivamente Maria ma implichi la realtà collettiva della Chiesa lo si desume anche dal fatto che, nella visione di Giovanni, la “vestita di sole”, dopo aver partorito, fugge nel deserto (versetto 6). Su questo punto vale la pena di leggere quanto scrisse a suo tempo Mons. Landucci:
“Supposta pertanto l’interpretazione mariana, il riferimento all’Assunzione appare facilissimo. Essa risulta già implicitamente additata, insieme a tutte le altre sue grandezze nel suddetto fatto della sua completa intangibilità, di fronte al dragone (vv. 15-16). Intangibilità quanto all’anima: Immacolata Concezione; intangibilità quanto al corpo: Assunzione. Sempre ricordando che il disfacimento di morte, pur non essendo una diretta contaminazione di satana è però una conseguenza della sua diretta contaminazione originale. Così pure essa può dedursi dal parallelismo tra il rapimento del Divin Figlio al Cielo (versetto 5) e il meraviglioso volo della Donna in luogo sicuro (vv. 6-14). Come quello indica il fatto dell’Ascensione così questo richiama il fatto dell’Assunzione: e le due ali esprimono molto bene la dote di «agilità» del corpo in stato glorioso, per cui esso effettivamente – appena elevato da Dio a tale stato – da sé potè salire al Cielo”[13].
Queste considerazioni di Mons. Landucci sono di grande interesse ma mi trovano parzialmente in disaccordo. La fuga nel deserto non rappresenta l’assunzione in cielo di Maria, come vorrebbe Landucci, perché il deserto rappresenta il tempo provvisorio della prova (espresso da Giovanni con la cifra dei fatidici 1.260 giorni), mentre il cielo costituisce lo spazio definitivo dell’eternità. La fuga nel deserto richiama invece, e in questo sono perfettamente d’accordo con gli esegeti preteristi come Gentry, l’esperienza storica della fuga da Gerusalemme della comunità cristiana prima dello scoppio della guerra giudaica. Leggiamo cosa scrive a tal proposito Eusebio di Cesarea nella sua Storia ecclesiastica:
“Il popolo della Chiesa di Gerusalemme, invece, grazie ad una profezia rivelata ai notabili del luogo, ricevette l’ordine di emigrare di là, prima che scoppiasse la guerra, e di stabilirsi in una città della Perea chiamata Pella, dove i fedeli di Cristo emigrarono da Gerusalemme, così che gli uomini santi abbandonarono completamente la metropoli reale dei Giudei e l’intera Giudea. Allora la giustizia di Dio punì i Giudei per tutti i crimini commessi contro Cristo e i suoi apostoli, come se volesse eliminare completamente dall’umanità una simile stirpe di empi”[14].
Su questo punto ha espresso delle interessanti considerazioni il prof. Claude Tresmontant nell’edizione dell’Apocalisse da lui curata e pubblicata nel 1984:
“La questione è di sapere se la nostra Apocalisse è stata composta e indirizzata ai fratelli e alle sorelle prima di questa emigrazione della piccola comunità cristiana di Gerusalemme, o dopo. La questione è parimenti di sapere se la nostra Apocalisse non sia la rivelazione che ha indotto la piccola comunità cristiana di Gerusalemme a lasciare la città santa quando era ancora possibile farlo, dunque probabilmente prima dell’anno 66. La questione è di sapere se Apocalisse 12, 6 faccia allusione a questa fuga della comunità di Gerusalemme, o se essa è anteriore a questa fuga e se essa l’ha, almeno in parte, provocata. La questione è anche di sapere se una parte della comunità cristiana di Gerusalemme si stabilì in un deserto. Non dimentichiamo che, secondo Epifanio di Salamina, Haer. 51, XII, PG 41, 909, Giovanni è stato nell’isola di Patmos quando Claudio era imperatore. Dalla stessa Haer. 51, XXXIII, PG 41, 949: Giovanni ha profetizzato al tempo di Claudio. Epifanio di Salamina nacque intorno al 320. Morì nel 402 o nel 403. Divenne vescovo nel 366. Nacque in Palestina presso Eleuteropoli. Epifanio, Liber de Mensuris et Ponderibus, 15, PG 43, 261: «Quando la città (= Gerusalemme) stava per essere presa dai Romani, tutti i discepoli furono avvertiti in anticipo da un messaggero di lasciare la città, perché sarebbe stata distrutta da cima a fondo. Quando emigrarono (da Gerusalemme) abitarono a Pella, la città di cui abbiamo già parlato in precedenza, che si trova al di là del Giordano… Dopo la devastazione di Gerusalemme, ritornarono…». È anche possibile, forse addirittura più probabile, che la fuga a cui allude qui Giovanni sia quella menzionata in Atti 8:1, dopo l’uccisione di Stefano: In quel giorno ci fu una grande persecuzione contro la comunità ecclesiastica che era a Gerusalemme. Tutti furono dispersi nelle regioni della Giudea e della Samaria, eccetto gli apostoli, plèn tôn apostolôn“[15].
Il prof. Tresmontant ha citato Epifanio di Salamina. Su questo autore, e sulla sua importanza per la datazione dell’Apocalisse, ci fornisce una precisazione importante don Francesco Tedeschi:
“Un’altra originalità dell’Esposizione di Apringio, che dà ragione della sua fama di erudito, è il fatto di collocare la redazione dell’Apocalisse non durante la persecuzione di Domiziano, ma sotto il regno di Claudio, durante la carestia profetizzata da Agabo nel libro degli Atti degli Apostoli. L’unico altro autore cristiano ad attestare questa datazione è Epifanio di Salamina, scrittore greco del IV secolo (315-403), di cui il vescovo di Beja doveva avere conoscenza”.
Nella relativa nota a piè di pagina, Tedeschi aggiunge:
“Cfr. Epifanio di Salamina, Panarion 51,12, 2; si noti per altro che anche il Canone muratoriano colloca l’Apocalisse e le Lettere di Giovanni prima dell’epistolario paolino, a dar conto di una cronologia analoga a quella proposta da Apringio e da Epifanio”[16].
Non so quanto l’informazione fornitaci sulla datazione dell’Apocalisse da Apringio e da Epifanio di Salamina (e dal Canone muratoriano) sia attendibile ma mi sembra oltremodo significativo (data l’antichità delle predette fonti) che essa collimi con la tesi dei moderni esegeti preteristi secondo cui il libro di Giovanni costituisce una profezia sulla venuta del Cristo giudice contro la nazione giudaica deicida (Gerusalemme/Babilonia) e contro il più anticristiano degli imperatori romani (Nerone, la “Bestia che sale dal mare”).
In ogni caso, possiamo rispondere positivamente all’interrogativo del prof. Tresmontant riguardo alla fuga da Gerusalemme della primitiva comunità cristiana: sì, la Chiesa madre gerosolimitana si rifugiò effettivamente in un deserto. Il fatto è attestato dal celeberrimo storico ebreo Flavio Giuseppe:
Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, III, 3, 3 §44-45: “Insomma, seppure è meno estesa della Perea, la Galilea la supera per rendimento; essa infatti è tutta coltivata e produce continuamente frutti, mentre la Perea è bensì molto più grande, ma per la maggior parte deserta e dirupata e troppo selvaggia per produrre frutti domestici (tuttavia le parti meno aspre di essa portano frutti di ogni specie, e le pianure sono ricche di alberi svariati, tra cui vengono coltivati principalmente l’ulivo, la vite e le palme), bagnata dai torrenti che scendono dai monti e anche, abbastanza, da fonti perenni quando quelli si essiccano per la calura”.
La menzione delle ali dell’aquila, grazie alle quali la donna “vestita di sole” può rifugiarsi nel deserto, nel versetto 14, è un chiaro riferimento al Libro dell’Esodo (19, 4): come l’antico Israele era fuggito dall’Egitto rifugiandosi nel deserto, così il nuovo Israele rappresentato dalla Chiesa primitiva fugge da Gerusalemme prima della sua distruzione da parte delle truppe romane.
San Cesario ci insegna che la Chiesa partorisce il corpo mistico di Cristo in ogni tempo ma io penso che nell’immagine del dragone che non riesce a divorare il figlio maschio San Giovanni si riferisca proprio a quella fase cruciale nella storia della Chiesa rappresentata dalla predicazione apostolica (in primis, l’apostolato di Pietro, Paolo e Giovanni).
Quindi, è vero che la donna del capitolo 12 dell’Apocalisse rappresenta la Chiesa in generale, ma sono d’accordo con i preteristi quando affermano che essa rappresenta innanzitutto la Chiesa primitiva.
A questo punto, vorrei esprimere, se mi è consentito, una mia considerazione personale. Secondo me, il capitolo 12 deve essere letto alla luce di quanto afferma San Paolo nelle sue lettere. In particolare, nella lettera agli Efesini (2, 6) e nella lettera ai Galati (4, 19).
Lettera agli Efesini (2, 4-6):
“Ma Dio, ricco in misericordia, per la grande carità con cui egli ci ha amati, morti com’eravamo per le nostre colpe, ci ridonò la vita con Cristo – per la grazia siete stati salvati – e con lui ci risuscitò e ci fece sedere nelle regioni celesti, in Cristo Gesù”.
Lettera ai Galati (4, 19):
“Figlioli miei, di nuovo io soffro per voi i dolori del parto, finché Cristo non sia formato in voi”.
Come la donna dell’Apocalisse che viene vista in cielo da Giovanni mentre sta per partorire, così San Paolo (e con lui la Chiesa), quando era ancora in vita, abitava nelle regioni celesti e soffriva “i dolori del parto”.
Ma se questo era vero per Paolo, era vero a maggior ragione per Maria, che della Chiesa primitiva rappresentava il cuore. Leggiamo cosa scrive a questo proposito padre Garrigou-Lagrange:
“Nello stesso capitolo, un poco più sopra, il Santo [di Monfort] dice anche: “Le possiamo applicare con più verità di quanto San Paolo non applichi a sé stesso queste parole: “Quos iterum parturio, donec formetur Christus in vobis” (Gal 4, 19): Io partorisco ogni giorno i figli di Dio, fino a tanto che sia formato Gesù Cristo in essi nella pienezza della sua età””[17].
Quindi, in conclusione, contrariamente a quanto affermano i protestanti, la presenza di Maria santissima nell’Apocalisse è velata ma c’è: chi più di lei abitava già “nelle regioni celesti” quando viveva (e pativa) sulla terra?
[1] L’Apocalisse di Giovanni, a cura di Edmondo Lupieri, Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori 1999.
[2] Kenneth Gentry, The Divorce of Israel, vol. 2, p. 1000.
[3] Edmondo Lupieri, op. cit., p. 191.
[4] La Sacra Bibbia, tradotta dai testi originali e commentata a cura e sotto la direzione di Mons. Salvatore Garofalo, Marietti 1966.
[5] Pier Carlo Landucci, Maria Santissima nel Vangelo, Edizioni Paoline, 1954, pp. 363-364.
[6] Réginald Garrigou-Lagrange, La Madre del Salvatore e la nostra vita interiore, Fede & Cultura 2023, pp. 245-246.
[7] Ivi, p. 82.
[8] Giuseppe Ricciotti, La Sacra Bibbia, Vol. II, Salani Editore, 1991.
[9] Kenneth Gentry, op. cit., p. 1003.
[10] Ivi, p. 1011.
[11] Cesario di Arles, Commento all’Apocalisse, a cura di Francesco Tedeschi, Paoline 2016, pp. 251-253.
[12] Edmondo Lupieri, op. cit., p. 194.
[13] Pier Carlo Landucci, op. cit., p. 488.
[14] Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, III, 5, 3; la traduzione da me utilizzata è quella dell’edizione Rusconi del 1979 curata da Maristella Ceva.
[15] Apocalisse di Giovanni, Traduzione e Note di Claude Tresmontant, Paris 1984, p. 312.
[16] Cesario di Arles, op. cit., p. 68.
[17] Réginald Garrigou-Lagrange, op. cit., p. 336.
Leave a comment