Adesso vorrei tornare sui primi due versetti del capitolo 11 dell’Apocalisse: rileggiamoli nella traduzione di Edmondo Lupieri[1]:
“E mi fu data una canna simile a un bastone, dicendo: Alzati e misura il tempio di Dio e l’altare dei sacrifici e coloro che si prostrano in esso. E il cortile, quello fuori del tempio, gettalo fuori e non misurarlo, perché fu dato alle genti, e calpesteranno la città santa per quaranta [e] due mesi”.
Lo studioso australiano Alan J. Beagley ci ricorda che il capitolo 11 dell’Apocalisse è stato descritto “come una delle sezioni più misteriose” del libro di Giovanni[2]. Per provare a capire ciò che intende dire il veggente di Patmos direi di cominciare proprio dal primo versetto. Cosa vuol dire misurare il tempio di Dio? Dal mio punto di vista, “misurare il tempio” vuol dire separare il sacro dal profano. Sacro è, innanzitutto, Dio stesso e la sua divina maestà. Sacro è il suo tempio celeste, che compare più volte nell’Apocalisse. Sacri sono poi tutti coloro che adorano Dio “in spirito e verità”. Quest’ultima considerazione ci fa venire in mente le parole rivolte da Gesù alla samaritana riportate dal Vangelo di Giovanni (4, 21-23):
“Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questa montagna né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quel che non conoscete, noialtri adoriamo quel che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora, ed è adesso, in cui i genuini adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; il Padre, infatti, tali vuole i suoi adoratori”.
“Né su questa montagna né a Gerusalemme adorerete il Padre”. Sacro è quindi Stefano, il protomartire, che, negli Atti degli Apostoli (7, 48), ricorda precisamente al Sinedrio che “L’Altissimo non abita in templi fatti da man d’uomo”. Profani sono invece i sinedriti, che a causa di queste parole, lo lapidano. A questo proposito, l’esegeta Gregory K. Beale rimarca opportunamente che “L’establishment religioso [ebraico] considerava superstiziosamente il tempio come una garanzia che Dio avrebbe protetto e fatto prosperare la nazione nonostante la loro disobbedienza alla sua volontà”[3].
Ma questo era un errore antico da parte degli ebrei: già nell’Antico Testamento, infatti, le autorità religiose di Israele tendevano a confidare più nei rituali che in Dio, come più volte era stato denunciato dai profeti (Isa 1, 10-17; Ger 7, 1-15, 21-22; Osea 6, 5-6; Michea 6, 1-8; Malachia 1, 10).
Profano è quindi, nel momento in cui Giovanni scrive l’Apocalisse, lo stesso tempio di Gerusalemme, di cui tanto si gloriano le autorità ebraiche persecutrici dei cristiani. Profano perché, ribadiamolo, la maggioranza degli ebrei aveva respinto nel modo più cruento il messaggio di pace e di penitenza proposto dal Messia inviato dal Padre. Profano e quindi destinato alla distruzione, come era stato profetizzato da Gesù nel discorso cosiddetto “escatologico” (Matteo 24, Marco 13, Luca 21).
Sul fatto che con l’espressione “il cortile, quello fuori del tempio”, Giovanni si riferisca proprio al tempio materiale di Gerusalemme, quello che verrà distrutto dalle truppe romane nel 70 dopo Cristo, registro una significativa convergenza di vedute tra tre importanti studiosi: il già citato Alan Beagley, Edmondo Lupieri e Kenneth Gentry. Diamo loro la parola.
Alan Beagley (p. 63): “… in questi primi due versetti del capitolo 11, il Veggente sta descrivendo in linguaggio simbolico la preservazione dei cristiani, i veri adoratori di Dio, e l’espulsione del giudaismo miscredente, come dimostrato dalla presa della città e dalla distruzione del Tempio. La misurazione dell’altare e degli adoratori in questa scena corrisponde così al suggellamento dei 144,000 nel capitolo 7. Di nuovo sembra chiaro che il conflitto tra la Chiesa e la Sinagoga sottolinei questo passaggio”.
Edmondo Lupieri (p. 175): “I vv. 1 e 2 aiutano a comprendere la geografia mistica della «città santa» (che non può non essere Gerusalemme, anche sulla scorta di Ez. 40, a cui si ispira la nuova scena e da cui deriva l’idea stessa di una misurazione del tempio). In primo luogo, il «cortile» esterno viene teologicamente «gettato fuori» per essere abbandonato in balìa delle genti: questo coincide con l’occupazione pagana di Gerusalemme per quarantadue mesi (che sono i tre anni e mezzo della persecuzione secondo Dan. 7, 25 ecc.). Allora il «cortile» esterno è la parte perduta di Israele, contaminata dal contatto con i gentili. Tutto il mondo religioso giudaico (e cristiano), compendiato in Gerusalemme, è diviso in tre parti: il tempio, l’altare (con quanti si prostrano «in esso») e il «cortile». Il «tempio» indicherebbe la presenza di Dio; l’«altare», con quanti «si prostrano in esso», rappresenterebbe la comunità dei veri fedeli, i seguaci di Gesù Cristo; il «cortile», il resto ormai condannato di Israele, la Giudea e la Gerusalemme storiche. La «città santa», allora, significa la dimensione mistica o teologica della realtà terrena, quell’Israele di cui la comunità cristiana è la parte veramente santa e salvata”.
Kenneth Gentry (p. 892): “Quindi, per scopi retorici, Giovanni presenta in particolare il Cortile dei Gentili come ciò che rappresenta l’amato tempio di Israele – in un modo molto simile a quando definisce Gerusalemme come “Sodoma ed Egitto” (11, 8) e ritiene la sinagoga ebraica “una sinagoga di Satana” (2, 9; 3, 9). Quindi, sembra impiegare “il cortile, quello fuori del tempio”/il “Cortile dei Gentili” per rappresentare l’intero complesso fisico del tempio che è visibile agli occhi di tutti. Con questa manovra retorica, Giovanni indica che la struttura fisica del tempio non è più “santa” e protetta da Dio”.
C’è anche un altro dato importante da tener presente: il fatto che per descrivere l’espulsione del «cortile» esterno, Giovanni utilizzi il verbo ἔκβαλε (da ἐκβάλλω). I due significati principali di ἐκβάλλω sono (secondo il vocabolario greco italiano etimologico e ragionato Zanichelli): getto via o fuori o giù, abbatto, e scaccio, mando in esilio, bandisco. È significativo il fatto che è proprio questo il verbo che il Nuovo Testamento utilizza per descrivere l’azione di Gesù che scaccia i demoni dagli indemoniati. Come è significativo il fatto che successivamente, nella stessa Apocalisse, Babilonia venga descritta come “abitazione di demoni” (18, 2), un dato coerente con la tesi preterista secondo cui la Babilonia del capitolo 18 e la “città santa” calpestata dalle genti del capitolo 11 sono la stessa entità: la Gerusalemme terrena che verrà sostituita dalla Gerusalemme celeste. Ma c’è di più: sempre Gentry (p. 916) fa notare che ἐκβάλλω viene impiegato nella Bibbia dei Settanta come termine tecnico per designare il divorzio dalla propria moglie mandandola fuori di casa: il verbo in questione appare anche nella citazione di Genesi 21, 10 in Galati 4, 30, dove Paolo si riferisce all’espulsione di Agar dalla casa di Abramo. Paolo ci dice che Agar “corrisponde alla Gerusalemme attuale”, la Gerusalemme storica destinata, nell’economia della salvezza, ad essere soppiantata dalla “Gerusalemme di lassù”, che è appunto la Gerusalemme celeste dell’Apocalisse. Questo confermerebbe la tesi – espressa a suo tempo dalla prof.ssa Josephine Ford e ripresa da Gentry nel suo recente commento all’Apocalisse – secondo cui il tema di fondo dell’Apocalisse è costituito dall’atto di divorzio da parte di Dio nei confronti della propria sposa infedele (la Gerusalemme storica), un atto che costituisce la premessa necessaria alla sua sostituzione con la Gerusalemme celeste (la sposa dell’Agnello).
A questo punto si impone un’ulteriore considerazione. Se l’interpretazione dei primi due versetti del capitolo 11 da parte di Beagley, Lupieri e Gentry è corretta (e io penso che lo sia) allora veniamo a scoprire che il concetto di tempio (spirituale) espresso nel primo versetto collima perfettamente con il concetto di tempio espresso da San Paolo nella lettera agli Efesini. Rileggiamo il testo in questione:
“Così dunque non siete più stranieri e pellegrini, ma siete concittadini dei santi e membri della casa di Dio, sopraedificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti, con lo stesso Cristo Gesù quale pietra angolare. In lui tutta la costruzione, ben compaginata, cresce come tempio santo nel Signore; in lui anche voi siete inseriti nella costruzione, per divenire abitazione di Dio nello Spirito (Ef. 2, 19-20).
Evidentemente, il tempio di cui parlano l’Apocalisse e San Paolo è la Chiesa, che nella sua dimensione metafisica è indistruttibile, avendo Cristo quale pietra angolare.
Ricapitolando, nei primi due versetti del capitolo 11 dell’Apocalisse il tempio materiale di Gerusalemme viene “gettato fuori”, “abbattuto”, “scacciato” insieme alla “città santa” che lo contiene, destinati entrambi ad essere calpestati (per 42 mesi) e distrutti. La Chiesa di Cristo invece sopravvivrà e sarà destinata ad un futuro glorioso. Tutto ciò non può che riguardare, come abbiamo visto (e come abbiamo più volte sostenuto) la presa della città di Gerusalemme e del suo tempio nell’anno 70. Tuttavia, come aveva osservato a suo tempo proprio Beagley, questa tesi viene spesso respinta. Il motivo ricorrente di questo rifiuto è la convinzione, da parte della maggioranza degli esegeti, che l’Apocalisse sia stata scritta all’epoca di Domiziano: secondo costoro, rievocare la distruzione del tempio più di 20 anni dopo la fine di Gerusalemme sarebbe stato storicamente irrilevante. Ma, come giustamente osserva Beagley (p. 59), ammesso (e non concesso) che il libro sia stato scritto in epoca domizianea, non sarebbe stato comunque irrilevante mostrare il significato teologico di tale distruzione. In ogni caso, rimane il fatto che i 42 mesi menzionati da Giovanni corrispondono precisamente alla durata effettiva della Guerra giudaica: dal febbraio dell’anno 67 (quando Nerone incarica Vespasiano di dare corso alla guerra) al settembre dell’anno 70 (quando Gerusalemme viene conquistata) passano per l’appunto tre anni e mezzo. Un’ulteriore conferma della fondatezza dell’approccio preterista all’Apocalisse.
[1] L’Apocalisse di Giovanni, a cura di Edmondo Lupieri, Fondazione Lorenzo Valla/Arnoldo Mondadori Editore 1999.
[2] Beagley 1987, p. 59.
[3] Citato in: Kenneth Gentry, The Divorce of Israel, Volume II, p. 1118.
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