Apocalisse di Giovanni: Il settenario delle trombe

Apprestiamoci ora ad esaminare il settenario delle trombe. Prima però di entrare nel vivo della disamina, ricordiamo due punti fermi che sono emersi dalla nostra lettura. Il primo punto è che il primo bersaglio dei flagelli dell’Apocalisse è costituito dai membri delle dodici tribù di Israele che non vengono segnati col sigillo. È la parte maggioritaria della nazione ebraica del primo secolo, che non ha voluto credere al messaggio di salvezza di Cristo: è la “generazione perversa” menzionata da Pietro negli Atti degli Apostoli (Atti 2, 40). Nel capitolo 7, a salvarsi dalla punizione decisa da Dio contro la nazione infedele sono i 144.000 segnati: sono il “resto di Israele”. Il capitolo 7 dell’Apocalisse ci fa pensare ai corsi e ai ricorsi della storia sacra: come nel capitolo 9 del libro del profeta Ezechiele c’è una minoranza virtuosa di gerosolimitani che viene preservata dal castigo voluto da Dio contro la città, così nel libro di Giovanni gli ebrei che hanno creduto in Cristo vengono salvati mentre gli altri sono sommersi dai flagelli.

Storicamente parlando, la comunità cristiana di Gerusalemme del primo secolo si salvò dall’assedio e dalla distruzione della città ad opera dei Romani rifugiandosi a Pella. Gli ebrei cristiani trovarono quindi scampo dagli orrori della guerra in cui perirono, secondo Flavio Giuseppe, centinaia di migliaia di vite.

Il secondo punto fermo da rammentare è che l’Apocalisse di Giovanni costituisce una ripresa e, nello stesso tempo, un capovolgimento, del libro dell’Esodo: se nell’Antico Testamento viene descritta la nascita della nazione ebraica, nel nuovo esodo narrato dall’Apocalisse assistiamo alla sua fine. La Gerusalemme del primo secolo è infatti diventata il nuovo Egitto (Ap. 11, 8), da cui i cristiani devono fuggire (Ap. 18, 4) per evitare i castighi ad essa destinati.

Vedremo che i giudizi delle trombe riflettono chiaramente alcune delle piaghe descritte nel libro dell’Esodo (sebbene non seguendo il loro ordine originario). Il preterista Kenneth Gentry, nel suo recente commento all’Apocalisse, ha pubblicato una tabella che riassume il concetto in questione:

Giudizi Trombe Piaghe
Grandine e fuoco 1a tromba (8, 7) 7a piaga (Esodo 9, 22-25)
Acqua insanguinata/imbevibile 2a e 3a tromba (8, 8-11) 1a piaga (Esodo 7, 20-25)
Oscurità 4a tromba (8, 12) 9a piaga (Esodo 10, 21-23)
Locuste 5a tromba (9, 1-11) 8a piaga (Esodo 10, 12-15)

 

Leggiamo adesso i versetti che si riferiscono alla prima tromba[1]:

E i sette angeli, quelli che hanno le sette trombe, si prepararono a suonare. E il primo suonò: e fu grandine e fuoco mescolati con sangue e furono gettati sulla terra, e la terza parte della terra bruciò e la terza parte degli alberi bruciò e ogni erba verde bruciò”.

La prima osservazione da fare a questo proposito è di carattere generale: Giovanni nelle sue visioni utilizza un linguaggio metaforico e simbolico ma le sue metafore e i suoi simboli trovano spesso un riscontro storico negli eventi della Guerra giudaica, così come sono stati registrati da Flavio Giuseppe. Condivido perciò il punto di vista preterista secondo cui l’Apocalisse di Giovanni rappresenta la profezia mentre Flavio Giuseppe descrive sostanzialmente la realizzazione storica di tale profezia. Seguendo questa chiave di lettura mi sembra lecito prendere in seria considerazione la possibilità che nel settenario delle trombe Giovanni adombri effettivamente la caduta del regno di Israele (Ap 8, 8), del sommo sacerdozio ebraico (Ap 8, 10-11) e del tempio (Ap 8, 20). E quindi, della nazione stessa.

Per quanto riguarda il sangue e il fuoco menzionati nella prima tromba, se dal punto di vista simbolico l’Agnello, nel giorno della sua ira, fa piovere sangue e fuoco sull’Israele apostata, dal punto di vista storico troviamo nel libro di Flavio Giuseppe delle descrizioni impressionanti precisamente di questi due elementi: il sangue e il fuoco.

Una seconda osservazione che si può fare è che la “terza parte” degli elementi menzionata nella descrizione della prima tromba costituisce una progressione e un’intensificazione dei castighi, rispetto alla “quarta parte” menzionata nel settenario dei sigilli, progressione e intensificazione che troveranno il loro compimento nella totalità del castigo che si consuma nel settenario delle coppe.  

La visione del rogo della “terza parte degli alberi” trova un riscontro fattuale precisamente nel resoconto di Flavio Giuseppe.  Giuseppe afferma che Tito “ordinò alle legioni di devastare l’intero territorio antistante alla città e di raccoglierne tutto il legname per innalzare terrapieni” (V, 6, 2 §262)[2].  

In Israele, i romani distrussero gli alberi per ricavarne combustibile e per costruire le loro armi:

Tutti gli alberi intorno alla città erano stati abbattuti per i lavori precedenti, e i soldati dovettero trasportare il nuovo materiale da novanta stadi di distanza” (V, 12, 4 §523).  

Giuseppe riferisce della distruzione, operata dai Romani, dell’ambiente di Gerusalemme, ridotto ad una landa desolata:

Frattanto i romani, pur avendo molto penato nel procurarsi il legname necessario, in ventun giorni avevano costruito i terrapieni dopo aver tagliato tutti gli alberi intorno alla città, come ho detto, entro un raggio di novanta stadi. Così era diventato penoso anche lo spettacolo offerto dalla campagna; infatti quelle contrade, un tempo rese amene da alberi e giardini, erano allora ridotte a una landa deserta e senza verde, e nessun straniero che avesse visto la Giudea di una volta e gli incantevoli dintorni della città allo spettacolo di quella desolazione avrebbe potuto fare a meno di rattristarsi e di gemere di fronte a un tale cambiamento. La guerra aveva infatti cancellato ogni traccia dell’antico splendore, e chi per caso fosse all’improvviso ritornato in quei luoghi non li avrebbe riconosciuti, ma si sarebbe messo in cerca della città pur trovandosi nei suoi paraggi” (VI, 1, 1 §5-8).

Esaminiamo adesso la seconda tromba (Ap 8, 8-9): “E il secondo angelo suonò: e come un monte grande, ardente di fuoco, fu gettato nel mare, e la terza parte del mare fu sangue e morì la terza parte delle creature, quelle nel mare, che hanno anime, e la terza parte delle navi furono distrutte”.

È significativo come, nella Scrittura, talvolta i monti rappresentino regni (Isa 2, 2-3; Ge. 51, 25; Amos 6, 1). Per verificarlo, leggiamo i passi biblici appena menzionati: 

Isaia 2, 2-3: “E sarà negli estremi giorni il monte della casa del Signore preparato in cima ai monti, innalzato sopra i colli, e vi affluiranno tutte le genti. E popoli numerosi accorreranno dicendo: «Venite, saliamo al monte del Signore e alla casa del Dio di Giacobbe, e ci insegnerà le sue vie e cammineremo pei suoi sentieri; perché da Sion la legge uscirà e la parola del Signore, da Gerusalemme…»”. 

Geremia 51, 25: “Eccomi a te, o monte di distruzione, che distruggi tutta la terra. Io stenderò la mano su di te, ti rotolerò giù dalle rocce e farò di te una montagna bruciata”.  

Amos 6, 1: “Sciagurati voi, opulenti di Sion, che ponete la vostra fiducia nel monte di Samaria, nobili, primati dei popoli, che incedete facendo pomposa comparsa nella casa di Israele!”.

L’immagine del monte “ardente di fuoco” che viene gettato nel mare mi sembra riecheggi proprio l’oracolo contro Babilonia riferito dal predetto passo del profeta Geremia, ma qui viene applicata da Giovanni al regno di Israele. Se il patto del Sinai (Esodo 19) segna l’atto di nascita della nazione ebraica, il capitolo ottavo dell’Apocalisse ne ribadisce la fine. E come nel profeta Geremia (51, 42) Babilonia viene “sommersa dai flutti” (metafora della sua distruzione da parte dell’esercito invasore), così nell’Apocalisse il monte “ardente di fuoco” viene “gettato nel mare” per annunciare che l’Israele apostata verrà travolto dall’esercito romano.

Ma quella di Geremia forse non è l’unica profezia riecheggiata da Giovanni nel passo in questione; probabilmente, egli ha in mente anche la risposta data da Gesù ai suoi discepoli riguardo al monte del tempio:

“Gesù rispose loro: «In verità vi dico: se avete fede e non esitate, non solo farete ciò che ho fatto al fico, ma se dite a questa montagna: “Levati e gettati in mare” così avverrà; e tutto ciò che chiederete con fede nella preghiera l’otterrete»” (Matteo 21, 21-22).

Con questa frase, Gesù sembra anticipare la profezia sulla distruzione del tempio espressa nel discorso cosiddetto escatologico (Matteo 24, 2; Marco 13, 2; Luca 21, 6). Il monte del tempio terreno distrutto dai Romani, quello che Flavio Giuseppe descrive come situato su “un’imprendibile collina (V, 5, 1 §184), è destinato ad essere soppiantato, nell’Apocalisse, dal vero Monte Sion, dove si radunano in trionfo i 144.000 seguaci dell’Agnello (Ap 14, 1).

Ed eccoci alla terza tromba: “E il terzo angelo suonò: e cadde dal cielo una stella grande, ardente, come una torcia, e cadde sulla terza parte dei fiumi e sulle sorgenti delle acque, e il nome della stella è detto l’Assenzio, e si mutò la terza parte delle acque in assenzio e molti degli uomini perirono per le acque, poiché si erano fatte amare” (Ap 8, 10-11).

Secondo Kenneth Gentry, la stella in questione rappresenta la più alta autorità d’Israele: il sommo sacerdote. E questo in base alla seguente motivazione: nell’Antico Testamento, le stelle cadenti e i cieli che si oscurano spesso rappresentano la caduta dei governi in guerra. In Isaia la caduta del re di Babilonia (Is 14, 4) è descritta poeticamente con l’immagine di una stella cadente:

“Come mai cadesti dal cielo, Lucifero, figlio dell’aurora? Come mai fosti abbattuto a terra, o dominatore di popoli?”[3].

 Inoltre, lo stesso Isaia descrive la caduta del governo dell’Idumea (Isa 34, 5) in questo modo:

“I cieli si arrotolano come un libro, tutte le loro schiere cadono come cade il pampino della vite e come il fogliame avvizzito del fico”.

Nel libro dell’Ecclesiastico (50, 5-7) il sommo sacerdote degli ebrei viene appunto paragonato ad una stella: “Come splendido si affacciava alla tenda e usciva da dietro il velo! Come stella che brilla tra le nubi e come plenilunio nei giorni festivi, come sole che rifulge sul tempio dell’Altissimo e arcobaleno che appare nelle nuvole…”.

Scrive inoltre Gentry (p. 764) che l’abbigliamento cultuale del sommo sacerdote suggerisce la sua relazione con le stelle. Filone (Sulla vita di Mosè 2, 24 §122) sottolinea che “alcuni che hanno studiato l’argomento” vedono le pietre sulle spalle del sommo sacerdote come “emblemi di quelle stelle che sono i governatori della notte e del giorno, vale a dire, il sole e la luna”. E le dodici pietre sul pettorale sono emblemi del “cerchio dello zodiaco” (Filone, Sulla vita di Mosè 2, 24 §124). Così, sulla veste del sommo sacerdote e sul velo del tempio, dietro il quale solo il sommo sacerdote poteva entrare, era raffigurata “una specie di immagine dell’universo” (Guerra giudaica, V, 5, 4 §212-213). Con la fine del tempio nell’Anno Domini 70, l’istituzione del sommo sacerdozio scomparì nel giro di pochi anni. La lettera agli Ebrei anticipa tale fine: “Col dire nuova alleanza, ha reso antiquata la prima: ora ciò che è antiquato e invecchia è vicino alla scomparsa” (8, 13).

Per quanto riguarda il nome che Giovanni dà alla stella, l’”Assenzio”, tale nome sembra riecheggiare le profezie di Geremia che riguardano proprio (i corsi e i ricorsi) l’Israele veterotestamentario:

Ecco, io darò loro in cibo assenzio, farò loro bere acque avvelenate” (Geremia 9, 14).

E ancora:

Perciò così dice Jahve degli eserciti contro i profeti: «Ecco, farò loro inghiottire assenzio e farò loro bere acque avvelenate; perché dai profeti di Gerusalemme l’empietà si è sparsa su tutto il paese»” (Geremia 23, 15).

Infatti, mentre in seguito Geremia guarda la città distrutta di Gerusalemme (Lamentazioni 1, 1-4), così descrive la sua angoscia:

Mi saziò con erbe amare, mi dissetò con assenzio” (Lamentazioni 3, 15).

E si lamenta:

Il ricordo della mia miseria e della mia instabilità è assenzio e tossico” (Lamentazioni 3, 19).

Di conseguenza, come osserva lo studioso australiano Alan J. Beagley, “l’uso di immagini tratte da condanne profetiche di Gerusalemme e dei suoi abitanti da parte di Giovanni suggerisce che egli ha in mente il destino di quella città”[4].

Ma in che modo questa stella di assenzio indica il sommo sacerdote ebreo? Osserva Gentry (p. 766):

“Se nell’Antico Testamento, la giustizia (Amos 5, 7) e la rettitudine (Amos 6, 12) possono essere trasformate in assenzio, quanto più l’istituzione del sommo sacerdote sarebbe colpevole di tale alchimia malvagia? Dopo tutto, il sommo sacerdote dichiara che il Messia di Israele, Cristo il Signore, il Figlio del Dio vivente, è un bestemmiatore e poi chiede la sua morte (Mt 26, 63-66)”.

Il giudizio della terza tromba rappresenta quindi un ulteriore capovolgimento del destino di Israele rispetto al libro dell’Esodo: se lì l’acqua di Mara (acqua amara) era diventata dolce per l’azione di Dio (Esodo 15, 25) qui la tromba angelica tramuta le acque dolci in amare.  

Quarta tromba: “E il quarto angelo suonò: e fu colpita la terza parte del sole e la terza parte della luna e la terza parte delle stelle, perché si oscurasse la terza parte di loro e il giorno non splendesse per la sua terza parte e la notte lo stesso” (Ap 8, 12).

Per quanto riguarda la quarta tromba, vale quanto è stato detto in precedenza: gli astri che si oscurano rappresentano la caduta dei governi durante una guerra (in questo caso, la caduta del governo ebraico provocata dalla guerra contro i Romani).

Quinta tromba: “E il quinto angelo suonò: e vidi una stella caduta dal cielo sulla terra, e le fu data la chiave del pozzo dell’abisso e aprì il pozzo dell’abisso, e salì fumo dal pozzo come fumo di fornace grande, e si oscurò il sole e l’aria per il fumo del pozzo. E dal fumo uscirono cavallette verso la terra, e fu dato loro un potere come hanno potere gli scorpioni della terra. E fu detto loro che non facciano male all’erba della terra né ad alcuna cosa verde né ad alcun albero, ma soltanto agli uomini, quelli che non hanno il sigillo di Dio sulle fronti. E fu dato loro che non li uccidessero, ma che siano tormentati per cinque mesi, e il loro tormento come tormento di scorpione quando morda un uomo. E in quei giorni cercheranno gli uomini la morte e non la troveranno, e desidereranno di morire, e fugge la morte da loro. E le similitudini delle cavallette erano simili a cavalli preparati alla guerra, e sulle loro teste come corone, simili a oro, e i loro visi come visi di uomini, e avevano capelli come capelli di donne, e i loro denti erano come di leoni, e avevano corazze come corazze di ferro, e la voce delle loro ali come voce di molti carri di cavalli che corrono alla guerra, e hanno code simili agli scorpioni e pungiglioni, e nelle loro code il loro potere di far male agli uomini per cinque mesi. Hanno su loro come re l’angelo dell’abisso; a lui è nome in ebraico Abaddon, e in greco ha nome Apollyon” (Ap 9, 1-11).

Le cavallette ovviamente sono demoni e il loro capo, l’”angelo dell’abisso”, è Satana. Gli uomini “che non hanno il sigillo di Dio sulle fronti” sono i membri delle dodici tribù di Israele già menzionati nel capitolo 7. Significativo è inoltre il tormento che deve durare “per cinque mesi”: l’assedio dei Romani contro Gerusalemme durò infatti grosso modo per 5 mesi: dall’aprile al settembre dell’anno 70. Il fatto che nel testo di Giovanni gli uomini cerchino la morte senza ottenerla trova un puntuale riscontro nella narrazione di Flavio Giuseppe, secondo il quale gli abitanti di Gerusalemme erano talmente provati dagli orrori della guerra civile che desideravano ardentemente l’irruzione dei Romani, come se fosse una liberazione, nonostante il fatto che, è sempre Giuseppe a narrarcelo, questi ultimi nel loro furore massacrassero non solo i combattenti ma anche moltissime vittime civili. Ecco come Giuseppe descrive questo periodo finale di cinque mesi:

Mentre la città era sottoposta da ogni parte ai colpi dei suoi carnefici e delle loro marmaglie, il popolo era come un gran corpo che stava in mezzo e ne rimaneva dilaniato. I vecchi e le donne, giunti alla disperazione per le loro sofferenze pregavano perché venissero i romani e aspettavano ansiosamente la guerra esterna per liberarsi dai mali interni. Le persone per bene erano in preda a un grande smarrimento e al terrore, perché non v’era né possibilità di provocare un mutamento della situazione, né speranza di un accordo, o di una fuga per chi volesse; tutti i luoghi erano sottoposti a sorveglianza, e i capibanda – che per il resto erano in contrasto – ammazzavano come nemici comuni chi propugnava la pace con i romani o chi era sospettato di voler disertare, e si trovavano d’accordo soltanto nel far strage di quelli che invece meritavano di vivere. Incessanti erano di giorno e di notte i clamori dei combattenti, ma ancor più raccapriccianti erano i lamenti di quelli che gemevano per lo spavento. Le stragi moltiplicavano i motivi di lutto, il terrore strozzava il loro pianto ed essi, soffocando i loro affanni per la paura, erano tormentati dai gemiti repressi. Non v’era più rispetto per i parenti quand’erano vivi né cura di seppellirli dopo morti, e di entrambe queste cose era causa il fatto che ormai ognuno disperava di salvarsi; in realtà, chi non partecipava alla lotta delle fazioni aveva perduto qualsiasi interesse aspettandosi di morire da un momento all’altro. Intanto i rivoluzionari si affrontavano calpestando i cadaveri ammonticchiati, e la frenesia che saliva da tutto quel sangue ai loro piedi li rendeva più bestiali. Escogitando sempre qualche cosa di nuovo per distruggersi vicendevolmente ed attuando ogni piano fino in fondo senza pietà, non tralasciavano alcuna forma di violenza o di efferatezza” (V, 1, 5 §27-35).

Leggiamo ora la Sesta tromba: “E il sesto angelo suonò: e udii una voce dai [quattro] angoli dell’altare dei sacrifici, quello d’oro, quello di fronte a Dio, e l’altare diceva al sesto angelo, quello con la tromba: Sciogli i quattro angeli, quelli legati sul gran fiume, l’Eufrate. E furono sciolti i quattro angeli, quelli preparati per l’ora e giorno e mese e anno, per uccidere la terza parte degli uomini. E il numero delle truppe della cavalleria era due miriadi di miriadi; udii il loro numero. E così vidi i cavalli nella visione e coloro che sedevano su essi, con corazze di fuoco e di giacinto e di zolfo, e le teste dei cavalli come teste di leoni, e dalle loro bocche fuoriesce fuoco e fumo e zolfo. Da queste tre piaghe furono uccisi la terza parte degli uomini, dal fuoco e dal fumo e dallo zolfo, che fuoriusciva dalle loro bocche. Infatti il potere dei cavalli è nella loro bocca e nelle loro code, infatti le loro code simili a serpenti, con delle teste, e mediante esse fanno male. E i restanti degli uomini, quelli che non furono uccisi con queste piaghe, nemmeno si pentirono delle opere delle loro mani, così da non prostrarsi ai demoni e agli idoli, quelli d’oro e quelli d’argento e quelli di bronzo e quelli di pietra e quelli di legno, che né possono vedere né udire né camminare, e non si pentirono dai loro omicidi né dai loro veleni né dalla loro prostituzione né dai loro furti” (Ap 9, 13-21).

Così commenta la Bibbia Garofalo il riferimento ai quattro angeli:

“I quattro angeli, diversi da quelli di 7, 1-3, sono angeli castigatori; vengono dall’Eufrate, cioè dalla frontiera da cui vennero sempre gli invasori, fino ai Parti del I sec.”.

Da parte mia, osservo che la frontiera di cui parla il predetto commento è evidentemente quella di Israele, e quindi anche in questo caso gli invasori si dirigono contro Israele. Sempre a tal proposito, Gentry (p. 809) osserva che “l’Eufrate è significativo nella Scrittura come marcatore di confine per la Terra Promessa. Ciò è importante in quanto Israele è il punto focale del giudizio dell’Apocalisse (1, 7; 7, 1ss.). Infatti, la terminologia di Giovanni è strettamente parallela al linguaggio utilizzato in tre importanti dichiarazioni sui confini della Terra Promessa nell’Antico Testamento: ad Abramo nella promessa originale (Genesi 15, 18), a Israele mentre Mosè preparava Israele a entrare nella Terra (Deuteronomio 11, 24) e a Giosuè mentre preparava il popolo per la battaglia mentre entravano effettivamente nella Terra (Giosuè 1, 4)”.

Apocalisse 9, 14 tō potamō tō megalō Euphratē    
Apocalisse 16, 12 ton potamon ton megan ton Euphratēn 
Genesi 15, 18 tou potamou tou megalou Euphratou  
Deuteronomio 11, 24 tou potamou tou megalou, potamou Euphratou
Giosuè 1, 4 tou potamou tou megalou, potamou Euphratou

 

Inoltre, l’Eufrate non è solo il confine settentrionale ideale di Israele, ma rappresenta anche l’estensione del potere dei due re più potenti di Israele, Davide (2Sa 8, 3; 1Cr 18, 3) e Salomone (“Cr 9, 26”). L’Eufrate è un’immagine apocalittica del giudizio (definitivo) di Dio contro il popolo che ha infranto la sua alleanza, così come nel profeta Isaia l’Eufrate rappresenta l’invasione dell’esercito assiro contro Gerusalemme (Isaia 8, 7-8).

Il numero dei cavalieri (infernali) descritti da Giovanni è di “due miriadi di miriadi”: duecento milioni. Si tratta di un numero iperbolico che non deve essere preso alla lettera. Come scrisse a suo tempo Milton S. Terry, “l’immenso esercito di cavalieri raffigurato in questo simbolo della sesta tromba non è altro che la schiacciante forza militare dell’impero romano, che marciò contro Gerusalemme e spinse il terribile assedio fino alla completa distruzione della città e del tempio”[5]. Come riferisce Flavio Giuseppe,

In tal modo il complesso delle forze romane fra fanti e cavalieri, comprendendovi le milizie fornite dai re, arrivava a sessantamila uomini senza contare gli schiavi, che erano numerosissimi e che per l’addestramento guerresco non si potrebbero escludere dalle forze combattenti, poiché in tempo di pace partecipavano sempre alle manovre dei loro padroni e in tempo di guerra ne condividevano i pericoli, sì che per esperienza e bravura non erano inferiori ad alcuno eccetto che ai padroni” (III, 4, 2 §69).

I versetti 20 e 21 del capitolo 9 dell’Apocalisse menzionano l’impenitenza degli uomini che non rimasero uccisi dalle piaghe inflitte dagli angeli e dai cavalieri infernali. Anche questo particolare della visione trova un riscontro nel resoconto di Flavio Giuseppe:

Andando in giro a ispezionare le legioni e a spronarle al lavoro, Cesare mostrava ai ribelli che ormai erano nelle sue mani. Ma costoro erano gli unici in cui fosse svanito ogni rimorso per il mal fatto: avevano come separato l’anima dal corpo trattandole come due cose estranee; infatti né la sofferenza placava la loro ferocia, né il dolore agiva sul corpo. Come cani dilaniavano i resti del popolo, e riempivano le prigioni di disgraziati senza più forza” (V, 12, 4, §524-526).

Ma Giovanni, nominando tali uomini, menziona anche la loro idolatria, riferendo il loro prostrarsi ai “demoni” e agli “idoli”: idoli d’oro, d’argento di bronzo, di pietra e di legno. Quest’ultimo, secondo Gentry, è uno dei passaggi più difficili per chi sostiene essere l’Apocalisse focalizzata contro Israele e contro Gerusalemme, in quanto non risulta dalle fonti storiche che gli ebrei del primo secolo praticassero l’idolatria. Gentry sostiene che però il riferimento di Giovanni agli idoli è “caratteristicamente simbolico”[6] e non si riferisce all’idolatria letterale e formale più di quanto i cavalli mostruosi della sesta tromba si riferiscano a mostri letterali e storici. Di conseguenza, la sua condanna è analoga al rimprovero rivolto da Isaia ai capi e ai loro subordinati di Gerusalemme quando li definisce “principi di Sodoma” e “popolo di Gomorra” (Isaia 1, 10). In quel passo, Isaia non accusava di sodomia i gerosolimitani: piuttosto Isaia usa Sodoma come “simbolo del peccato ostentato, peccato come stile di vita accettabile” (Motyer)[7].  Allo stesso modo, gli idoli menzionati nell’Apocalisse rappresentano qualcos’altro: una condizione pubblica radicalmente iniqua che agli occhi di Dio equivale appunto all’idolatria. È la resistenza e la ribellione a Dio e al suo Messia che troviamo descritta in tutto il Nuovo Testamento ma di cui riscontriamo significative anticipazioni anche nell’Antico. Ad esempio, leggiamo in 1 Samuele 15, 23:

“chè il ribellarsi è paragonabile al peccato della divinazione e il non voler assoggettarsi è quasi come il delitto dell’idolatria”.  

 E veniamo adesso ai materiali degli idoli menzionati da Giovanni: oro, argento, bronzo, pietra e legno. Sono esattamente i materiali da cui era costituito il tempio di Gerusalemme, il tempio più grandioso e sontuoso del mondo antico!

Anche qui, troviamo un riscontro significativo nelle descrizioni del tempio che ci ha lasciato Flavio Giuseppe.

L’oro: “All’esterno del tempio non mancava nulla per impressionare né la mente né la vista; infatti, essendo ricoperto dappertutto di massicce piastre di oro, fin dal primo sorgere del sole era tutto un riflesso di bagliori, e a chi si sforzava di fissarlo faceva abbassare lo sguardo come per i raggi solari” (V, 5, 6 §222).

L’argento: “Delle porte, nove erano tutte ricoperte d’oro e d’argento, al pari degli stipiti e degli architravi, mentre una, quella fuori del santuario, era di bronzo di Corinto e superava di molto in valore quelle rivestite d’argento e d’oro” (V, 5, 3 §201).

Il bronzo: “…inoltre, la porta orientale del tempio, quella che era di bronzo e assai massiccia, sì che la sera a fatica venti uomini riuscivano a chiuderla, e veniva sprangata con sbarre legate in ferro e aveva dei paletti che si conficcavano assai profondamente nella soglia costituita da un blocco tutto d’un pezzo, all’ora sesta della notte fu vista aprirsi da sola” (VI, 5, 3 §293).

La pietra: “Agli stranieri in viaggio verso Gerusalemme esso appariva da lontano simile a un monte coperto di neve, perché dove non era ricoperto d’oro era bianchissimo. Sulla sommità spuntavano spiedi d’oro assai aguzzi per impedire agli uccelli di posarvisi sopra e di imbrattare. Alcuni dei blocchi di pietra con cui era costruito avevano la lunghezza di quarantacinque cubiti, l’altezza di cinque e la larghezza di sei” (V, 5, 6 §223-224).

Il legno: “I soffitti (del portico) fatti di legno massiccio, erano ornati con fregi intagliati con varie figure. Il soffitto della navata centrale si elevava ad un’altezza maggiore e il muro tagliato da ambo le parti a ridosso degli architravi con le colonne incastrate dentro; tutto era brillante e queste strutture parevano incredibili a quanti non le avevano viste e destavano altrettanto stupore in quanti le vedevano” (Antichità giudaiche, XV, 11, 5 §416)[8].

Tutta questa magnificenza però, perse la sua ragion d’essere di fronte alla ribellione nei confronti di Dio e al rifiuto del suo Messia da parte del popolo (una volta) eletto. Ricordiamo cosa disse Gesù a questo riguardo:

“Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono inviati: quante volte ho voluto radunare i tuoi figli come la gallina raccoglie i pulcini sotto le sue ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa vi sarà lasciata deserta!” (Matteo 23, 37-38).

La vostra casa vi sarà lasciata deserta: anche queste parole di Gesù trovano un riscontro nella narrazione di Flavio Giuseppe. Parlando dei segni premonitori della sciagura che si sarebbe abbattuta di lì a poco su Gerusalemme, lo storico ebreo menziona anche il tempio:

“Non molti giorni dopo la festa, il ventuno del mese di Artemisio [poco più di un mese dopo la Pasqua], apparve una visione miracolosa cui si stenterebbe a prestar fede; e in realtà, io credo che ciò che sto per raccontare potrebbe apparire una favola, se non avesse da una parte il sostegno dei testimoni oculari, dall’altra la conferma delle sventure che seguirono. Prima che il sole tramontasse, si videro in cielo su tutta la regione carri da guerra e schiere di armati che sbucavano dalle nuvole e circondavano le città. Inoltre, alla festa che si chiama la Pentecoste, i sacerdoti che erano entrati di notte nel tempio interno per celebrarvi i soliti riti riferirono di aver prima sentito una scossa e un colpo, e poi un insieme di voci che dicevano: «Da questo luogo noi ce ne andiamo»” (Guerra giudaica, VI, 5, 3 §296-299).

Passiamo ora alla settima tromba: “E il settimo angelo suonò; e furono voci grandi nel cielo, che dicevano: Si è realizzato il regno del cosmo del nostro Signore e del suo Unto, e regnerà per i secoli dei secoli. E i ventiquattro anziani, [quelli] di fronte a Dio seduti sui loro troni, caddero sui loro volti e si prostrarono a Dio, dicendo: Ti rendiamo grazie, Signore Dio onnipotente, che è e che era, poiché hai preso la tua potenza, quella grande, e regnasti” (Ap 11, 15-17).

A mio avviso, queste parole di Giovanni costituiscono l’adempimento di quanto aveva detto Gesù nel Vangelo di Marco:

E diceva loro: «In verità vi dico: vi sono alcuni tra i qui presenti che non gusteranno la morte prima d’aver visto il regno di Dio venuto con potenza” (Marco 9, 1).

Così commenta il predetto versetto la Bibbia Garofalo: “Allusione ai tragici avvenimenti della fine di Gerusalemme; Mt 16, 28; Lc 9, 27”.

È quando Gerusalemme è stata sommersa dal sangue e dal fuoco che il regno di Dio è “venuto con potenza”. Leggiamo ancora una volta quello che Flavio Giuseppe ha narrato a questo riguardo:

Mentre il tempio bruciava, gli assalitori [i romani] saccheggiarono qualunque cosa capitava e fecero un’immensa strage di tutti quelli che presero, senza alcun rispetto per l’età né riguardo per l’importanza delle persone: bambini e vecchi, laici e sacerdoti, tutti indistintamente vennero massacrati, e la guerra ghermì e stritolò ogni sorta di persone, sia che chiedessero mercè sia che tentassero di resistere. Il fragore dell’incendio, che si estendeva in lungo e in largo, faceva eco ai lamenti dei caduti; l’altezza del colle e la grandezza dell’edificio in fiamme davano l’impressione che bruciasse l’intera città, e il frastuono era tale da non potersi immaginare nulla di più grande e di più terrificante. Da una parte il grido di guerra delle legioni romane che attaccavano in massa, dall’altro l’urlo dei ribelli presi in mezzo tra ferro e fuoco, mentre i popolani rimasti bloccati lassù in alto fuggendo sbigottiti incappavano nei nemici e perivano fra alte grida. Ai clamori provenienti dall’alto si mescolavano quelli della massa degli abitanti della città, perché ora, alla vista del tempio in fiamme, molti che per lo sfinimento della fame avevano perduto la forza di parlare ripresero a gemere e a urlare. Facevano eco la Perea e le montagne all’intorno ingrossando i clamori. Ma più terribile del panico erano le sofferenze; pareva che la collina del tempio ribollisse dalle radici gonfia di fuoco in ogni parte, e che tuttavia il sangue fosse più copioso del fuoco e gli uccisi più numerosi dei loro uccisori. La terra era tutta ricoperta di cadaveri, e i soldati per inseguire i fuggiaschi dovevano calpestare mucchi di corpi” (VI, V, 1 §271-276).   

 

[1] La traduzione dei versetti dell’Apocalisse da me utilizzata è quella di Edmondo Lupieri, Fondazione Lorenzo Valla 1999.

[2] La traduzione di questo come degli altri brani tratti dalla “Guerra giudaica” di Flavio Giuseppe è quella a cura di Giovanni Vitucci, Fondazione Lorenzo Valla 1974.

[3] La traduzione dei brani dell’Antico Testamento e del Nuovo Testamento da me utilizzati è quella della Bibbia curata da mons. Salvatore Garofalo, Marietti 1966.

[4] Alan J. Beagley, The ‘Sitz im Leben’ of the Apocalypse with Particolar Reference to the Role of the Church’s Enemies, Berlin-New York 1987, p. 51.  

[5] Citato in: Kenneth Gentry, The Divorce of Israel, primo volume, p. 812.

[6] Ivi, p. 830.

[7] Ibidem.

[8] La traduzione del brano tratto dalle Antichità giudaiche, è quella di Luigi Moraldi, UTET 1998.

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