Una delle questioni più dibattute, nella storia dell’esegesi biblica, è quella che riguarda la paternità dei cinque libri attribuiti comunemente all’apostolo Giovanni. Secondo l’esegesi cattolica che chiameremo “tradizionale”, i libri in questione vennero effettivamente scritti da Giovanni, il figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo, fratelli che erano entrambi discepoli e apostoli di Gesù. Questa è la tradizione che in ambito cattolico ha finito per prevalere. Ma l’attribuzione all’apostolo Giovanni dei libri che portano il suo nome non è stata subito pacificamente accettata dai cattolici. Nel corso dei secoli, diverse voci si sono levate a sostenere che l’autore del quarto Vangelo non poteva essere lo stesso autore che aveva scritto l’Apocalisse. Una di queste voci, una delle più antiche, è quella di Dionigi, vescovo di Alessandria, vissuto tra la fine del secondo e il terzo secolo dopo Cristo, la cui opinione ci è stata tramandata da Eusebio di Cesarea nella sua Storia ecclesiastica. Ancora oggi gli argomenti di Dionigi “non hanno perduto la loro pertinenza”, secondo alcuni studiosi[1]. Per questo motivo, li riporto a seguire. La citazione è un po’ lunga ma merita di essere riportata integralmente. Da parte mia, osservo che oggigiorno l’attribuzione tradizionale degli scritti “giovannei” all’apostolo Giovanni non è sostenuta solo dai cattolici tradizionalisti, ma anche da alcuni studiosi protestanti di orientamento conservatore, come il preterista Kenneth Gentry. Nel suo recente (e monumentale) commento all’Apocalisse di Giovanni, Gentry elenca quelli che a suo giudizio sono gli elementi che accomunano l’Apocalisse agli altri scritti giovannei, e che permettono di sostenere la tesi che tali scritti abbiano avuto un unico autore. Riporterò a seguire anche le argomentazioni di Gentry. Ma intanto, per cominciare, ecco le considerazioni di Dionigi sull’autore dell’Apocalisse, come ci sono state tramandate da Eusebio di Cesarea nel Libro settimo, capitolo 25 della sua Storia ecclesiastica[2] (le sottolineature nel testo sono mie):
“E poco dopo, continuando, così [Dionigi] dice dell’Apocalisse di Giovanni:
«Alcuni di coloro che ci hanno preceduto rifiutarono e confutarono totalmente il libro, esaminandolo capitolo per capitolo e dichiarandolo incomprensibile e sconsiderato, e falso il suo titolo. Dicono infatti che non è di Giovanni, e che non è neppure una rivelazione, poiché è completamente e fittamente velata dalla cortina dell’incomprensibilità, e che l’autore di quest’opera non fu affatto uno degli apostoli e neppure uno dei santi o dei membri della Chiesa, ma fu Cerinto, fondatore della setta che da lui si chiamò Cerintiana, il quale volle dare alla sua eresia la garanzia di un nome degno di fede. Questo fu il dogma del suo insegnamento: il regno di Cristo sarà di questa terra. E poiché si interessava solo del corpo ed era profondamente sensuale, fantasticava che esso sarebbe consistito nelle cose che egli stesso bramava: nelle soddisfazioni del ventre e di ciò che sta sotto il ventre, cioè il mangiare, il bere, l’unione sessuale, ed anche in feste, sacrifici ed immolazioni di vittime, ma queste ultime cose le diceva per rendere più rispettabile il suo insegnamento. Quanto a me, io non oserei respingere questo libro, giacché molti fratelli lo tengono in considerazione, ma ritenendolo superiore alla mia intelligenza, penso che ogni singolo passo nasconda un significato mirabile. Perché anche se non lo comprendo, suppongo tuttavia che nelle parole si trovi un senso più profondo, e non misuro né giudico queste cose con il mio ragionamento, ma attribuendo maggior valore alla fede, le considero troppo alte per essere comprese da me, e così non disapprovo ciò che non vi ho scorto, ma piuttosto l’ammiro proprio per il fatto che non sono stato in grado di vederlo». Inoltre, dopo aver esaminato l’intero libro dell’Apocalisse ed aver dimostrato che è impossibile comprenderla in base al senso evidente, Dionigi continua dicendo:
«Dopo aver compiuto, per così dire, l’intera profezia, il profeta dice beati coloro che l’osservano e giudica tale anche sé stesso: “Beato chi serba le parole della profezia di questo libro”, dice infatti “e io Giovanni, che vedo e ascolto queste cose”. Che egli si chiami Giovanni, quindi, e che quest’opera sia di Giovanni, non lo negherò, e convengo anche che è di persona santa ed ispirata da Dio; ma non concorderei facilmente sul fatto che egli sia l’apostolo, figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo, di cui sono il Vangelo intitolato Secondo Giovanni e la lettera detta cattolica. Dal carattere di entrambi gli scritti, dalla forma dei discorsi, dalla cosiddetta esecuzione del libro, traggo infatti le conclusioni che non si tratti della stessa persona, perché l’evangelista non inserisce il proprio nome né si dichiara in nessun luogo, tanto nel Vangelo quanto nella lettera».
E soggiunge poi ancora:
«… Giovanni non parla in nessun luogo in prima o in terza persona. Invece l’autore dell’Apocalisse si mette subito avanti fin dall’inizio: “Rivelazione di Gesù Cristo, che gli diede da mostrare subito ai suoi servitori, ed egli la fece conoscere inviandola per mezzo del suo angelo al suo servitore Giovanni, che ha attestato la parola di Dio e la sua testimonianza per tutto ciò che vide”. Scrive poi anche una lettera: “Giovanni alle sette Chiese che sono nell’Asia, grazia a voi e pace”. Mentre l’evangelista non scrisse il nome neppure all’inizio della lettera cattolica, ma ha cominciato semplicemente col mistero stesso della rivelazione divina: “Ciò che era al principio, ciò che abbiamo udito, ciò che abbiamo visto con i nostri occhi”. Fu infatti a proposito di questa rivelazione che il Signore chiamò Pietro beato, dicendo: “Tu sei beato, Simone figlio di Giona, perché non carne e sangue ti hanno rivelato questo, ma il Padre mio celeste”. E neppure nella seconda lettera, né nella terza attribuite a Giovanni, per quanto siano brevi, è premesso il nome di Giovanni, ma bensì quello anonimo di “presbitero”. Costui, invece, non ritenne sufficiente, dopo aver fatto il proprio nome una volta, proseguire il racconto; ma riprende di nuovo: “Io, Giovanni, fratello vostro e partecipe con voi della tribolazione, del regno e della pazienza di Gesù, fui nell’isola chiamata Patmo a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù”. E verso la fine dice ancora: “Beato chi serba le parole della profezia di questo libro, e io Giovanni, che vedo e ascolto queste cose”. Che quindi sia Giovanni a scrivere così, bisogna crederlo, poiché è lui che lo dice. Ma chi egli sia, non è chiaro. Non ha detto infatti, come più volte nel Vangelo, di essere il discepolo amato dal Signore, né colui che si chinò sul suo petto, né il fratello di Giacomo, né colui che vide e udì di persona il Signore. Avrebbe infatti detto qualcosa di quanto sopra indicato, se avesse voluto manifestarsi chiaramente; invece non ha precisato niente di tutto questo, ma si dice nostro fratello e compagno, testimone di Gesù, beato per aver visto e udito le rivelazioni. Io ritengo vi siano stati molti con lo stesso nome dell’apostolo Giovanni, i quali, per amore, ammirazione ed emulazione nei suoi confronti, e poiché volevano essere amati dal Signore come lui, assunsero il suo stesso nome, come tra i figli dei fedeli si riscontra spesso il nome di Paolo e anche di Pietro. V’è poi anche un altro Giovanni negli Atti degli Apostoli, quello soprannominato Marco, che Barnaba e Paolo presero con sé, del quale è detto ancora: “E avevano anche Giovanni come aiuto”. Ma non saprei dire se sia lui l’autore. Perché non è scritto che giunse in Asia con loro, ma si dice: “Imbarcatisi a Pafo, Paolo e i suoi compagni arrivarono a Perge di Pamfilia, ma Giovanni, separatosi da loro, ritornò a Gerusalemme”. Io penso che ve ne fu un altro nell’Asia, poiché si dice che ad Efeso vi furono due tombe, entrambe col nome di Giovanni. Dai concetti, dai termini e dalla loro forma, quest’autore è verisimilmente diverso da quell’altro. Il Vangelo e la lettera concordano, infatti, l’uno con l’altra, ed iniziano in modo simile. Uno dice: “Nel principio era il Verbo”; l’altra: “Ciò che era al principio”. Uno dice: “E il Verbo si fece carne e abitò in noi, e noi contemplammo la sua gloria, gloria come di unigenito procedente dal Padre”; l’altra ripete le stesse cose lievemente modificate: “Ciò che abbiamo udito, ciò che abbiamo visto con i nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato, in relazione al Verbo della vita, e la vita si è manifestata”. Così esordisce, infatti, mirando, come mostra in ciò che segue, a quanti dicono che il Signore non è venuto nella carne. Perciò ebbe cura di aggiungere anche: “E ciò che abbiamo visto, noi lo testimoniamo, e vi annunciamo la vita eterna che era presso il Padre e che ci fu manifestata; ciò che abbiamo veduto e udito, noi l’annunciamo anche a voi”. È coerente e non si allontana dai suoi propositi, ma procede sempre mediante gli stessi temi e gli stessi termini, di cui citeremo brevemente alcuni. Il lettore attento troverà spesso in entrambi la vita, la luce che scaccia le tenebre; continuamente la verità, la grazia, la letizia, la carne e il sangue del Signore, il giudizio, la remissione dei peccati, l’amore di Dio per noi, il comandamento di amarci l’un l’altro, l’obbligo di osservare tutti i comandamenti; il biasimo del mondo, del diavolo, dell’Anticristo; la promessa dello Spirito Santo, l’adozione divina, la fede che ci è sempre richiesta; il Padre e il Figlio, ovunque. E in genere, chi ne osservi il carattere vedrà che la struttura del Vangelo e della lettera è unica e identica. L’Apocalisse, invece, è totalmente diversa ed estranea a questi testi, poiché non si connette né si avvicina ad alcuno di essi, non avendo, per così dire, quasi neppure una sillaba in comune. La lettera non contiene alcuna citazione o pensiero dell’Apocalisse (per non parlare del Vangelo), né l’Apocalisse della lettera, mentre Paolo, nelle Lettere, ricorda qualcosa delle sue rivelazioni, che non redasse separatamente. E si può ancora riconoscere dallo stile la differenza del Vangelo e della lettera dall’Apocalisse. I primi sono stati infatti scritti non solo in perfetto greco, ma anche nel modo più colto per le espressioni, i ragionamenti, la struttura dell’esposizione, né vi si trova alcuna voce barbara, solecismo o idiotismo: il loro autore aveva infatti, a quanto sembra, l’una e l’altra parola, donategli entrambe dal Signore: quella della conoscenza e quella dello stile. Quanto all’altro, io non nego che abbia avuto delle rivelazioni e che abbia ricevuto conoscenza e profezia, però osservo che il suo modo di esprimersi e la sua lingua non sono precisamente greci, ma che usa particolarità barbare e in alcuni punti commette persino dei solecismi, che non è necessario elencare ora: non ho detto, infatti, queste cose per prenderlo in giro, ma soltanto per stabilire la diversità degli scritti suddetti»”.
Fin qui, le osservazioni di Dionigi, vescovo di Alessandria, vissuto, lo ripetiamo, tra la fine del secondo e la metà del terzo secolo dopo Cristo. Secondo lui, quindi, altro è l’autore del quarto Vangelo e delle lettere attribuite all’apostolo Giovanni, e altro è l’autore dell’Apocalisse. Come abbiamo appena visto, uno dei motivi che hanno indotto Dionigi a questa valutazione è la diversità stilistica dell’Apocalisse, rispetto agli altri scritti giovannei. Secondo Dionigi, l’autore dell’Apocalisse si distingueva per le sue “particolarità barbare”, e aveva commesso addirittura dei solecismi. A questo punto, riguardo proprio allo stile dell’Apocalisse, mi sembra utile riportare il parere di un moderno, in quanto differisce significativamente dall’opinione di Dionigi, un parere che dimostra come, a distanza di tanti secoli, il dibattito sullo stile degli scritti giovannei non abbia cessato di suscitare valutazioni contrastanti. Il parere in questione è dell’esegeta anglicano John Arthur Thomas Robinson, che così si espresse, negli anni Settanta del Novecento, nel suo ormai classico studio Redating the New Testament:
“Se una cosa è diventata chiara nel corso di questo secolo dai tempi di Lightfoot, Westcott e Hort, è che la comune paternità dell’Apocalisse e del Vangelo non può credibilmente essere sostenuta in base all’intervallo di tempo necessario a Giovanni per padroneggiare la lingua greca. Il greco dell’Apocalisse non è quello di un principiante la cui grammatica ed il cui vocabolario possono migliorare e maturare in quelli dell’evangelista. È il greco pidgin di qualcuno che sembra sapere esattamente di cosa parla con il suo strano strumento e il cui modo di pensare e il cui vocabolario è notevolmente differente, e più colorito, di quello dallo stile corretto, semplice ma piuttosto piatto del vangelo e delle epistole”[3].
Quindi, secondo Robinson, i “barbarismi” che avevano suscitato le perplessità del vescovo Dionigi, non erano dovuti ad imperizia, ma ad una consapevole scelta stilistica dell’autore dell’Apocalisse. Da parte mia, osservo che tale scelta (e tale diversità, rispetto agli altri scritti giovannei) potrebbe essere dovuta all’esperienza visionaria e mistica eccezionale che aveva segnato il veggente di Patmos, un’esperienza che abbisognava di un vocabolario adeguato e necessariamente diverso rispetto agli altri scritti apostolici: forse, tale diversità era anche dovuta al fatto che l’autore dell’Apocalisse riecheggia intenzionalmente, come è stato più volte rilevato, gli scritti profetici dell’Antico Testamento, a cominciare dal libro del profeta Ezechiele, e che quindi i barbarismi segnalati da Dionigi sono il frutto di una ripresa consapevole di stilemi ebraici.
Quanto alla diversità dei contenuti, tra l’Apocalisse e gli altri scritti giovannei, che secondo taluni (a cominciare proprio da Dionigi) indicherebbe una paternità decisamente diversa, tale questione è stata vivamente dibattuta nel corso dei secoli ma, come dicevo, vi sono oggi degli autori, anche fra i protestanti, che sottolineano invece, a dispetto delle innegabili differenze, le sorprendenti somiglianze di tutti gli scritti attribuiti tradizionalmente a Giovanni. Secondo Kenneth Gentry, vi sono almeno sette motivazioni che inducono a ricondurre gli scritti giovannei ad un’unica paternità[4]. Esaminiamo gli argomenti esposti da Gentry:
In primo luogo, espressioni e pensieri distintivi e simili appaiono nel Vangelo, nelle Epistole e nell’Apocalisse: Cristo come “il Verbo” (logos; solo in Gv 1, 1; 1Gv 1, 1; Ap 19, 13), come agnello (Gv 1, 29, 36; Ap 5, 6, 8, 12, ecc.), e come pastore (Gv 10, 11; Ap 7, 17). L’Apocalisse e il Vangelo si riferiscono a Dio o a Cristo come “verace” (Giovanni 3, 33; 7, 18; Ap 3, 14; 19, 11), “santo” (Gv 6, 69; 17, 11; Ap 3, 7; 16, 5), e “giusto” (Gv 17, 25; Ap 16, 5). L’Apocalisse e gli altri scritti giovannei condividono concetti simili, come “l’osservanza dei comandamenti” (Gv 14, 15; 15, 10; 1 Gv 2, 3; 3, 22; Ap 12, 17; 14, 12). Il verbo greco “sēmaino” (“io significo”) ricorre solo sei volte nel Nuovo Testamento, quattro delle quali negli scritti di Giovanni (Gv 12, 33; 18, 32; 21, 19; Ap 1, 1).
In secondo luogo, il quarto Vangelo e l’Apocalisse usano entrambi il greco marturéō (di solito tradotto “testimoniare” o “testimone”) in modo prominente. Come nota Haupt, “L’idea di marturia… è tale da avere una notevole importanza in tutti gli scritti giovannei. Questa idea appare all’inizio e ricorre alla fine di tutti e tre i documenti più grandi che abbiamo ricevuto da San Giovanni. L’Apocalisse inizia, cap. 1.2, con la rivendicazione della sua affidabilità”. Gesù appare come un “testimone” solo nel Vangelo (5, 31, 36; 18, 37) e nell’Apocalisse (1, 5; 3, 14).
Terzo, il Vangelo di Giovanni e l’Apocalisse riflettono entrambi un’atmosfera forense. Gentry riporta il parere dell’esegeta Stephen Smalley, secondo cui “dall’inizio alla fine, l’attitudine dominante dell’Apocalisse è giudicante. In effetti, l’ambientazione complessiva del libro è forense; e sembra quasi che, come nel Vangelo di Giovanni, il dramma si svolga in un’aula di tribunale”. Rileviamo l’atmosfera forense nel vivo interesse di entrambi i libri per vocaboli quali “testimone” e “testimoniare”.
Quarto, sia l’Apocalisse che il Vangelo mostrano una forte avversione verso Israele per la sua resistenza a Cristo e ai suoi seguaci. In entrambi, e solo in questi, Gesù associa Israele a Satana. In Giovanni 8, 44 li accusa: “Voi siete del padre vostro il diavolo”. In due delle sette lettere (meglio: “oracoli”) che detta a Giovanni nell’Apocalisse (1, 11; 2, 8; 3, 7), Gesù ritiene che le sinagoghe di Israele siano “[sinagoghe] di Satana” (2, 9; 3, 9).
Quinto, la letteratura giovannea usa certe parole in modo simile. Giovanni e l’Apocalisse usano entrambi il vocabolo “vincere” in modo simile. Il verbo nikaō (“vinco”) appare ventidue volte negli scritti di Giovanni ma solo in altri quattro luoghi nel resto del Nuovo Testamento (Lc 11, 22; Ro 3, 4; 12, 21 [2x]). “Vero” (alēthinos) ricorre undici volte nel Vangelo (Gv 1, 9; 4, 23, 37; 6, 23; 7, 28; 8, 16; 15, 1; 17, 3; 19, 35), due volte in 1 Giovanni (2, 8; 5, 20) e dieci volte nell’Apocalisse (3, 7, 14; 6, 10; 15, 3; 16, 7; 19, 2, 9, 11; 21, 5, 6). Ricorre solo cinque volte nel resto del Nuovo Testamento (Lc 16, 11; 1Ts 1, 9; Eb 8, 2; 9, 24; 10, 22).
Sesto, Giovanni presenta una peculiare versione del passo di Zaccaria 12, 10 sia in Gv 19, 37 che in Ap 1, 7. Mentre la Settanta utilizza la parola katōrchēsanto per “trafitto”, Giovanni e l’Apocalisse utilizzano exekentēsan.
Settimo, analoghe antitesi giovannee sono riscontrabili in entrambe le opere (quarto Vangelo e Apocalisse): luce e tenebra, verità e falsità, il potere di Dio di contro al potere del mondo (Gv 1, 4-5, 7-9; 3, 19-21; 5, 35; 6, 17; 8, 12; 9, 5; 11, 9-10; 12, 35-36, 46; Ap 8, 12; 9, 2; 16, 10; 18, 23; 21, 24; 22, 5).
Gentry riporta poi (p. 200) il parere dell’esegeta Alan Bandy, secondo cui “il più grande peso distributivo della [parola] marturia [“testimonianza”] si trova negli scritti giovannei (quattordici volte nel Vangelo, sette volte nelle Epistole e nove volte nell’Apocalisse). Ciò suggerisce che la testimonianza è un aspetto importante nella teologia giovannea”.
Fin qui, il percorso argomentativo di Kenneth Gentry sugli aspetti che accomunano l’Apocalisse agli altri scritti giovannei. Da parte mia, ho notato che negli scritti attribuiti tradizionalmente a Giovanni è significativamente presente il concetto di acqua spirituale. Rileggiamoli:
Giovanni 3, 5: “Rispose Gesù: «In verità, in verità ti dico: nessuno, se non nasce da acqua e Spirito, può entrare nel regno di Dio»”.
Giovanni 4, 13-14 (il colloquio con la Samaritana): “Rispose Gesù: «Chiunque beve quest’acqua avrà sete ancora ma chi beve l’acqua che io gli darò non avrà sete in eterno: l’acqua che io gli darò diverrà in lui fonte d’acqua zampillante per la vita eterna»”.
Giovanni 7, 37-39: “Nell’ultimo giorno della festa, il più solenne, Gesù, in piedi, disse ad alta voce: «Se qualcuno ha sete venga a me e beva. Chi crede in me, come ha detto la Scrittura: Fiumi d’acqua viva scorreranno dal suo seno». Questo disse dello Spirito che dovevano ricevere i credenti in lui; lo Spirito, infatti, non era stato ancora dato perché Gesù non era stato glorificato”.
1 Giovanni 5, 6-8: “Questi è colui che venne con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e col sangue. È pure lo Spirito che ne rende testimonianza, poiché lo Spirito è la verità. Poiché tre sono i testimoni: lo Spirito, l’acqua e il sangue, e i tre sono in unità”.
Apocalisse 21, 5-6: “E disse colui che siede sul trono: Ecco, faccio nuove tutte le cose. E dice: Scrivi: Queste sono le parole fedeli e veritiere [ἀληθινοί]”. E mi disse: Furono. Io [sono] l’alfa e l’omega, il principio e la fine. Io a chi ha sete darò della fonte dell’acqua della vita, gratuitamente”.
Apocalisse 22, 1: “E mi mostrò un fiume d’acqua di vita, splendente come cristallo, che fuoriusciva dal trono di Dio e dell’agnello”.
Apocalisse 22, 17: “E lo Spirito e la sposa dicono: Vieni! E chi ascolta dica: Vieni! E chi ha sete venga; chi vuole prenda acqua di vita gratuitamente”.
Quindi, l’acqua di Gesù, l’”acqua zampillante per la vita eterna”, è un dato comune tanto al quarto Vangelo che all’Apocalisse: ecco un tema che mi sembra sia sfuggito a Dionigi, vescovo di Alessandria (e a Eusebio di Cesarea).
In conclusione, la posizione cattolica tradizionale che afferma la comune paternità degli scritti giovannei viene confermata anche dai protestanti più avveduti.
[1] Ad esempio, dal prof. Enrico Norelli nella sua curatela dei frammenti di Papia, Esposizione degli oracoli del Signore, PAOLINE Editoriale Libri, 2005, p. 359.
[2] L’edizione da cui ho tratto il brano in questione è quella curata da Maristella Ceva per Rusconi Editore, 1979.
[3] John A. T. Robinson, Redating the New Testament, London 1977, p. 255.
[4] Kenneth L. Gentry, Jr., The Divorce of Israel, TOLLE LEGE PRESS and CHALCEDON FOUNDATION, 2024 by Gentry Family Trust, pp. 15-17.
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