Davvero l’Apocalisse è stata scritta da un novantenne?

Domanda: le visioni e le estasi dei mistici possono essere fisicamente debilitanti? E, in caso affermativo, quanto possono esserlo? Mi riferisco in particolare all’esperienza di Giovanni quando, “rapito in spirito” nell’isola di Patmos, ricevette le visioni dell’Apocalisse. Mi sono posto questi interrogativi nei giorni scorsi, leggendo il grande commento all’Apocalisse di Kenneth Gentry. Il brano che qui ci riguarda è il seguente:

“Giovanni sembra descrivere un’esperienza fenomenologica che coinvolge una trance estatica-profetica caratterizzata da uno stato psicosomatico elevato, il tutto precipitato da una rivelazione visionaria da Dio. Quindi, l’esperienza di Giovanni era più simile alla visione di Pietro sul tetto di Joppe e all’estasi di Paolo nel tempio di Gerusalemme, quando entrambi “caddero in trance” (Atti 10, 10; 11, 5; 22, 17). Come Paolo esprime in Atti 22, 17 (confronta Atti 10, 10), genesthai me en ekstasei, “fui rapito in estasi” (da existimi, “stare fuori”). Stuart nota che tali esperienze visionarie travolgenti potrebbero essere spiritualmente impegnative, persino fisicamente estenuanti (Daniele 7, 28; 8, 27; 10, 8, 16-17; Abacuc 3, 16). Ciò potrebbe fornire una sottile indicazione del fatto che l’Apocalisse non fu scritta più avanti nella vita di Giovanni, quando aveva 90 anni, bensì prima, quando ne aveva 60”[1].

Rileggiamo allora i versetti biblici citati da Gentry che ci interessano particolarmente da questo punto di vista, a cominciare da quelli danielici (ricordiamo che il capitolo 7 del libro di Daniele è quello della visione riguardante i regni delle quattro bestie, a cui subentra il regno, definitivo, del “figlio dell’uomo”):

Daniele 7, 27-28: “«Il regno, la potenza e la grandezza del regno sotto tutto il cielo sarà trasmesso al popolo dei Santi dell’Altissimo: regno eterno il suo regno e tutte le potenze lo serviranno». Fin qui. Fine dell’esposizione. Io Daniele fui spaventato dai miei pensieri: mi si cambiò il colore della faccia e custodii la cosa nel mio cuore”.

Passiamo ora alla visione successiva, sempre di Daniele: la visione dell’ariete e del capro del capitolo 8 (versetti 1-27). Leggiamo in particolare, prima i versetti 15-18, e poi il versetto 27.

Daniele 8, 15-18: “Mentre io Daniele osservavo la visione e cercavo di comprendere, ecco in piedi accanto a me uno dall’aspetto umano. Udii una voce umana tra le rive dell’Ulai, che gridò: «Gabriele, fa’ capire a costui l’apparizione». Quegli venne dove mi trovavo: al suo arrivo fui colto di sorpresa e caddi sulla mia faccia. Egli mi disse: «Comprendi, o uomo, che la visione riguarda il tempo della fine». Durante il suo discorso con me rimasi stordito sulla mia faccia, a terra; egli mi toccò e mi fece alzare in piedi”.

L’angelo Gabriele spiega quindi a Daniele il significato della visione. Al termine, ecco come il profeta descrive il suo stato psico-fisico (versetto 27):

Io Daniele rimasi sfinito e ammalato per molti giorni; in seguito mi alzai, sbrigai gli affari del re e rimasi stupito per l’apparizione che non comprendevo”.

Passiamo adesso alla “visione dell’uomo vestito di lino” del capitolo 10: l’uomo descritto da Daniele ricorda in modo impressionante la visione di Gesù descritta da Giovanni nel prologo dell’Apocalisse.

Daniele 10, 4-9: “Ora, il ventiquattro del primo mese, mentre stavo sulla sponda del grande fiume, cioè il Tigri, alzai gli occhi e guardai: ed ecco un uomo vestito di lino, con le reni cinte di oro dell’Ufaz. Il corpo era come topazio, il volto come l’apparire del fulmine, gli occhi come torce infiammate, i piedi come lo scintillio del bronzo forbito e il suono delle parole come il clamore di una moltitudine. Soltanto io, Daniele, vidi l’apparizione: gli uomini che erano con me non videro la visione, ma un grande terrore si impadronì di essi ed essi fuggirono a nascondersi. Rimasi solo e vidi quella grande apparizione, ma non ebbi più forza; il colore del mio viso si mutò in me, così da sfigurarmi, e non conservai forza. Udii il suono delle sue parole, ma, come ebbi udito il suono delle parole, rimasi stordito sulla mia faccia e la mia faccia era al suolo”.

Non è finita. Nei versetti che seguono, Daniele prosegue a descrivere gli effetti sul suo fisico dell’apparizione in questione.

Daniele 10, 15-17: “Mentre si esprimeva con me in questi termini, chinai il volto a terra e ammutolii. Ed ecco, la figura come di un uomo toccò le mie labbra: io aprii la bocca e parlai. Dissi a lui, che stava in piedi innanzi a me: «Mio signore, nell’apparizione i miei dolori mi hanno colto di sorpresa e non ho conservato forza; come potrebbe questo servo del mio signore parlare con il mio signore, dal momento che non è rimasta forza in me e non ho conservato in me respiro?»”.   

Passiamo adesso al profeta Abacuc. Il brano che ci interessa è il versetto 16 del capitolo 3. Ecco come la Bibbia Garofalo descrive il capitolo in questione: “Inno alla onnipotenza e giustizia di Dio, che avanza come un uragano dal sud della Palestina, come quando avanzava alla testa del popolo liberato dall’Egitto”. Ed ecco come Abacuc descrive, nel versetto 16, l’effetto sul suo fisico della predetta visione:

L’ho udito e ne rabbrividì il mio ventre, a quella nuova fremettero le mie labbra: un tarlo mi è venuto nelle ossa, sotto di me tremarono i miei passi”.

Ho detto in precedenza che la visione dell’”uomo vestito di lino” del capitolo 10 di Daniele richiama alla mente la visione del “figlio dell’uomo” nel prologo dell’Apocalisse. Anche l’impatto sul fisico del veggente è analogo. Leggiamo i versetti in questione.

Apocalisse 1, 12-18: “Mi voltai per vedere la voce che parlava con me; e, voltatomi, vidi sette lampade d’oro, e in mezzo alle lampade vidi uno simile a figlio d’uomo, vestito di un abito talare e cinto all’altezza del petto con una cintura d’oro. La sua testa e i capelli, bianchi come lana bianca, come neve; e i suoi occhi come fiamma di fuoco, e le sue gambe somiglianti a bronzo prezioso fuso, come se ardessero in una fornace, e la sua voce come fragore di molte acque; e nella sua mano destra aveva sette stelle, e dalla sua bocca usciva una spada appuntita a doppio taglio; e il suo aspetto era come il sole quando risplende appieno. Quando lo vidi, caddi come morto ai suoi piedi. Pose allora la sua destra su di me dicendo: «Non temere. Sono io il primo e l’ultimo, e il vivente, e fui morto, ed eccomi vivente per i secoli dei secoli; ed ho le chiavi della morte e dell’Ade»”.

Riesaminando questi brani (e le predette considerazioni di Gentry) mi sono ricordato di un’osservazione fatta a suo tempo dall’esegeta inglese John Arthur Thomas Robinson, proprio a proposito dell’Apocalisse di Giovanni, un’osservazione alla quale inizialmente non avevo dato molto peso ma che ora mi sembra decisamente fondata. Eccola:

“è difficile credere che un’opera così vigorosa come l’Apocalisse potesse realmente essere il prodotto di un nonagenario, come Giovanni il figlio di Zebedeo doveva allora essere, anche se egli era di dieci anni più giovane di Gesù”[2] 

Tutto ciò ci riporta alla questione della datazione dell’Apocalisse: quello della vigoria anche fisica necessaria alla genesi di un’opera del genere è uno di quegli gli argomenti che ci inducono a ritenere che l’Apocalisse sia stata scritta negli anni Sessanta del primo secolo (sotto Nerone), e non negli anni Novanta (sotto Domiziano), come invece oggi è ritenuto dalla maggioranza degli esegeti. 

 

[1] Kenneth Gentry, The Divorce of Israel, volume I, Tolle Lege Press and Chalcedon Foundation, 2024, p. 330.

[2] John Arthur Thomas Robinson, Redating the New Testament, London 1976, p. 222.

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