È venuto il momento di parlare di un’insigne studiosa: intendo riferirmi all’archeologa, specializzata in epigrafia, Margherita Guarducci, deceduta nel 1999. La professoressa Guarducci ha fornito quello che è sicuramente il più grande contributo all’archeologia cristiana del 20° secolo: la decifrazione, negli anni Cinquanta, dei graffiti sotto la Confessione di San Pietro in Vaticano e, poi, negli anni Sessanta, l’identificazione delle autentiche ossa di San Pietro. L’opera della Guarducci ha avuto significativi riconoscimenti ma avuto anche alcuni (tenaci) detrattori, come era prevedibile attendersi, avendo avuto le sue scoperte un impatto determinante su quella che è una fondamentale questione per la fede del cattolico: il Primato della Chiesa di Roma che è fondato, anche materialmente, sulla presenza di Pietro a Roma, sulle sue autentiche reliquie. Grazie alla professoressa Guarducci è stato definitivamente accertato che non solo san Pietro è stato a Roma, ma che la sua tomba, inserita nel monumento costantiniano del quarto secolo, conteneva e contiene davvero le sue ossa.
Naturalmente, il contributo della Guarducci non è pacificamente accettato da coloro (e sono tanti, anche all’interno della gerarchia cattolica) che non vedono di buon occhio il Primato petrino. Tra costoro, va evidentemente annoverato il noto archeologo Andrea Carandini, il quale nel suo libro Su questa Pietra[1] ha auspicato il ritorno ad “un vescovo di Roma che non sia il vicario di Cristo, ma semplicemente un vescovo locale che rimanda a quella collegialità di vescovi, attestata prima della metà del II secolo d.C., la quale ha governato una chiesa nel cui ambito Pietro e Paolo hanno predicato, sono morti martiri e sono stati sepolti e venerati”[2].
Il libro di Carandini menziona Margherita Guarducci nell’appendice 2 (“Pietro a Roma”), appendice curata da Francesco De Stefano. Leggiamo il relativo passo:
“In età costantiniana il trofeo di Gaio subì nuove modifiche e l’inserimento nella basilica dedicata a Pietro. Una sorta di loculo fu ricavato nel muro g e rivestito da lastre di marmo. Al suo interno gli scavatori rinvennero «resti di materia organica e di ossa, frammisti a terra, una fascetta di piombo, due matassine di fili d’argento ed una moneta dei visconti di Limoges, databile tra il X ed il XII secolo». Nel 1965, la studiosa Margherita Guarducci annunciò di aver identificato, in un magazzino delle grotte vaticane, una cassetta contenente ossa che sarebbero state asportate dal loculo all’insaputa degli archeologi. La studiosa, inoltre, adduceva a riprova della possibilità che quei resti potessero appartenere alle reliquie di Pietro un graffito inscritto su un frammento di intonaco del «muro rosso». Questo recava due parole in greco, Petr / evi, integrate dalla Guarducci come Petr[os] / eni, «Pietro è qui». Questo graffito rappresenterebbe l’unica attestazione del nome di Pietro, nella grande quantità di graffiti tracciati sulla superficie del monumento”[3].
Partiamo dall’ultima affermazione di De Stefano, quella secondo cui il predetto frammento di intonaco rappresenterebbe l’unica attestazione del nome di Pietro “nella grande quantità di graffiti”. Questa affermazione a me sembra una (grave) inesattezza. Non tiene infatti conto del fatto che i graffiti in questione vennero integralmente decifrati dalla Guarducci negli anni Cinquanta (dando luogo ad una memorabile pubblicazione[4]) e che dalla loro decifrazione risultò che il nome di Pietro era più volte presente nei graffiti medesimi. Certo, il nome “Pietro” non era scritto per esteso: c’erano però, ricorrenti, le sigle “PE” e “PET”, che si riferiscono proprio all’Apostolo. Evidentemente, ancora oggi si tende a non accettare la grande scoperta della Guarducci, e cioè che i predetti graffiti sono graffiti crittografici. Ma chiariamo subito cosa significa il termine “crittografia”. Dal Vocabolario della Lingua Italiana Treccani, leggiamo la seguente definizione:
“Scrittura segreta, cioè tale da non poter essere letta se non da chi conosce l’artificio usato nel comporla; può essere realizzata col sistema della scrittura invisibile (mediante inchiostri simpatici), della scrittura convenzionale (ove però il testo ha un significato apparente diverso da quello effettivo), e della scrittura cifrata (ove il testo non ha significato logico se non per chi sa interpretarlo)”.
Uno dei meriti ragguardevoli della Guarducci è stato quello di aver capito che dietro la proliferazione dei segni apparentemente caotici ed affastellati del «muro g» si nascondeva un ordine rigoroso, che esprimeva le più alte verità della fede cattolica: la Santissima Trinità, l’unione inscindibile – e vittoriosa! – di Gesù, Maria e Pietro, la natura salutare della Croce, Cristo quale luce, verità, salute e vita eterna.
Leggiamo adesso come la stessa Guarducci descrive la genesi della sua scoperta:
“Mi ero accorta che certi gruppi di lettere si ripetevano identici, quasi avessero valore di formule: per esempio AAA o VVV, oppure “In A” o “IA”. Avevo anche notato certi segni di congiunzione volutamente tracciati fra una lettera e l’altra. Inoltre avevo visto certe lettere «bivalenti» o, per essere più esatti, trasfigurate in simboli cristiani… Che cosa erano tutte quelle anomalie? Accumulavo ipotesi su ipotesi, nel tentativo di trovare una via di uscita, ma inutilmente. Per due mesi annaspai nel buio. Poi, finalmente, mi si fece un po’ di luce. Il primo spiraglio mi fu aperto da un graffito in cui avevo notato l’inversione delle mistiche lettere alpha e omega. Come tutti sanno, le lettere alpha e omega (ΑΩ), cioè la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco, erano usate dai cristiani già sulla fine del I secolo per indicare Dio (o Cristo) principio e fine di tutte le cose create. Passando dall’Oriente in Occidente, la formula ΑΩ era divenuta AO. Ora, nel mio graffito si leggeva non ΑΩ ma ΩΑ. Estendendo le ricerche, mi accorsi che anche in altri documenti cristiani fuori del Vaticano si notava il medesimo fenomeno. Qualche studioso aveva richiamato su di esso l’attenzione, ma non aveva tentato di trovare una spiegazione soddisfacente”[5].
La spiegazione in realtà era semplice: per il cristiano, la fine della vita terrena, simboleggiata dalla omega (ω) costituisce l’inizio della vita vera, che è quella eterna, la vita con Cristo, simboleggiata dalla alfa (α).
Prosegue la Guarducci:
“In breve, mi accorsi che le anomalie davanti alle quali mi ero impuntata non erano se non elementi di una crittografia mistica usata da quegli antichi cristiani, e di lì a poco mi riuscì di conquistarne le chiavi. Le chiavi sono molto semplici, e questa loro semplicità le dimostra autentiche. Esse sono tre. La prima chiave consiste nel valore simbolico che i cristiani attribuivano a certe lettere dell’alfabeto. Già si sapeva che le lettere AO (cioè ΑΩ) esprimevano, come ho detto, il concetto di Dio (o Cristo) principio e fine dell’universo. Si sapeva anche che la lettera T aveva, presso gli antichi cristiani, il senso mistico di ‘Croce’; che X, lettera iniziale del nome greco di Cristo, significava appunto il Redentore. Si sospettava anche che la Y, iniziale della parola greca ὑγίεια (= «salute»), simboleggiasse appunto questo concetto. Ora, studiando il muro g, mi accorsi che la A poteva assumere talvolta il valore di ‘vita’ e di ‘Cristo-vita’ e che anche altre lettere avevano in certi casi un significato mistico. Così F valeva Filius (cioè ‘Cristo, figlio di Dio’); N, iniziale del verbo greco νικᾶν (= «vincere»), valeva ‘vittoria’; R, iniziale di resurrectio, assumeva il significato di ‘resurrezione’; S (salus) di ‘salute’; V (vita) di ‘vita’. I gruppi di tre A e di tre V indicavano il concetto di ‘Trinità’. C’era poi, come ho detto, l’inversione ΩΑ (o OA) per esprimere l’augurio del passaggio dalla morte alla vita. La seconda chiave consiste nei segni di congiunzione coi quali si legavano fra loro due o più lettere o sigle cristiane per accrescere l’intensità dell’espressione religiosa. La terza chiave è quella che chiamai «trasfigurazione alfabetica», cioè la trasformazione di certe lettere in certe altre lettere o in sigle per dar luogo a nuovi concetti. Sulla parete del muro g questa crittografia era applicata ai testi delle invocazioni con cui si auspicava, presso la tomba dell’Apostolo, il riposo eterno alle anime dei fedeli defunti. In altri termini, quei testi venivano scritti e poi «elaborati» con lo scopo d’introdurvi, a protezione dei defunti e per consolazione dei superstiti, i concetti più alti della Fede”[6].
C’è da notare poi che la lettura delle tre A (“AAA”) e delle tre V (“VVV”) da parte della Guarducci come simboli trinitari non è arbitraria: lo dimostra l’unione alla seconda delle tre A del monogramma di Cristo o di una “F” (Filius), che costituiscono altrettante allusioni a Cristo quale seconda persona della Trinità.
E poi c’è il nome di Pietro (“PE”) – con i tre denti della “E” a simboleggiare la chiave petrina – associato e talvolta fuso al monogramma di Cristo, per simboleggiare l’unione indissolubile di Gesù col suo Vicario. Chiosa la Guarducci: “Per far ciò si attribuì al segno P del monogramma il duplice e non insolito contemporaneo valore di rho e di pi”[7].
Dai predetti graffiti risulta poi una stretta associazione di tre nomi ricorrenti: oltre a quelli di Cristo e di Pietro, compare anche il nome di Maria, madre di Gesù: a questi tre nomi s’accompagnava di regola l’acclamazione di vittoria NIKA O NICA.
Inoltre, ribadiamolo, la Guarducci capì che i nomi dei cristiani incisi sul «muro g» non erano quelli lasciati dagli antichi visitatori della tomba di Pietro (come era stato erroneamente inteso da padre Antonio Ferrua[8]) bensì quelli di fedeli ormai defunti, ai quali tramite i graffiti si augurava la vita eterna (in Cristo Gesù, Maria e Pietro).
Naturalmente, il fenomeno della crittografia mistica non nasce con i predetti graffiti vaticani (che nondimeno ne costituiscono una delle manifestazioni più significative) ma ha i suoi precedenti pagani e, soprattutto, compare in epoca tardoantica non solo in Vaticano ma anche in alcune lapidi sepolcrali romane.
Infine, sempre a proposito di san Pietro e della stretta relazione tra il suo nome e le chiavi simboliche del potere a lui affidato da Cristo, bisogna ricordare che tale relazione si proietta anche nell’età medioevale. Uno degli esempi più eloquenti del simbolismo delle chiavi petrine è costituito dal rilievo in pietra arenaria di Treviri (secolo XII, circa), in cui le chiavi dell’Apostolo sono trasfigurate nelle lettere “PE”, clamorosa conferma, a distanza di tanti secoli, di quel sacro nesso che trova nei graffiti vaticani una così eloquente manifestazione.
La professoressa Guarducci è ritornata più volte, nelle sue pubblicazioni, sulla crittografia mistica sgradita ai negazionisti del Primato petrino. Ne ricordiamo solo alcune, oltre all’opus magnum pubblicato nel 1958:
- Pietro ritrovato (1970);
- La tomba di San Pietro (1989);
- Misteri dell’alfabeto (1993);
- Le chiavi sulla pietra (1995).
Dicevo all’inizio che l’opera della professoressa Guarducci ha avuto non solo detrattori ma anche significativi riconoscimenti. Due in particolare mi piace ricordare in questa sede: quello dell’esimio professore Manlio Simonetti[9], specialista di storia del cristianesimo antico, e quello del grande Federico Zeri. Secondo Simonetti, il contributo fornito dalla Guarducci alla conoscenza dei graffiti vaticani “è più importante della identificazione stessa delle ossa di Pietro: infatti esso ci ha fatto conoscere una manifestazione di fede e di espressione religiosa altrimenti ignota e la cui apertura si estende ben oltre i limiti del sepolcro di Pietro e ben s’inquadra con il gusto dell’espressione simbolica dell’antichità pagana e cristiana”[10].
Ecco invece che cosa ha detto Zeri riguardo alle ostilità incontrate da Margherita Guarducci nel corso delle sue ricerche:
“Molte delle critiche mosse alle scoperte della Guarducci non si basano tanto sui dati di fatto quanto su una sorta di pregiudizio ideologico: in sostanza, non si dovevano trovare le ossa di san Pietro, né bisognava dire che quella era la tomba di san Pietro. Sono cose piuttosto frequenti. Soprattutto quando l’argomento tratta il primato di Roma e del cattolicesimo nei confronti del protestantesimo. Tutte queste critiche non sono serie, cioè non sono basate sulla lettura dei fatti concreti e su ciò che realmente è stato scoperto, ma sono mosse da una sorta di negazione a priori”[11].
Torniamo adesso all’osservazione di Francesco De Stefano secondo cui la Guarducci addusse a riprova del suo ritrovamento delle reliquie di Pietro il famoso graffito inscritto sul “muro rosso”. In realtà, il graffito in questione era solo uno dei numerosi elementi che avevano indotto nella Guarducci la convinzione di aver ritrovato le autentiche ossa di san Pietro. Quando il sampietrino Giovanni Segoni presentò alla Guarducci la cassetta di legno dove erano state riposte le ossa trovate nel loculo marmoreo del muro g, ella ne fece analizzare il contenuto ad alcuni suoi colleghi universitari. Il primo ad occuparsene fu il professor Venerando Correnti, allora titolare (era il 1962) della cattedra di Antropologia all’Università di Roma. Dalle indagini del professor Correnti risultò che le ossa in questione appartenevano a circa la metà dello scheletro di un unico individuo, di sesso maschile, di età compresa tra i 60 e i 70 anni, e di costituzione robusta. Fra le ossa erano stati rinvenuti anche piccoli residui di stoffa rossastra e fili d’oro. Anche questi vennero analizzati e risultò che si trattava di porpora (vera porpora) e oro (vero oro). Inoltre, le predette ossa erano anche incrostate di terra. Questa terra venne sottoposta ad esame petrografico, da cui risultò che si trattava dello stesso tipo di terra (sabbia marnosa) del fatidico “campo P”, quello dove si trovava l’edicola del II secolo, sotto la quale era stato sepolto l’Apostolo.
Nella cassetta lignea consegnata alla Guarducci venne rinvenuto anche un osso di animale. E anche questo venne analizzato (dal professor Luigi Cardini) e messo a confronto con le ossa di animali rinvenute negli anni Quaranta sotto le fondazioni del “muro rosso”. Risultò che tutte queste ossa di animali appartenevano alle medesime specie. Tutto ciò ci riporta al primo secolo, quando questa zona del Vaticano era l’ambiente rurale degli horti di Nerone, dove furono scavate le prime tombe terragne.
A indurre la Guarducci a pensare che le ossa della famosa cassetta lignea fossero proprio quelle di Pietro c’è quindi il fatto che le risultanze degli esami effettuati collimavano perfettamente con ciò che sappiamo dalla tradizione riguardo a Pietro al momento del suo martirio: un individuo che appunto era di età senile e di costituzione robusta (era stato un pescatore). C’era soprattutto il fatto che, a differenza dei gruppi di ossa trovati dagli scavatori negli anni Quaranta sotto le fondazioni del “muro rosso”, qui si trattava delle ossa di un unico individuo, “e ciò faceva pensare che la tomba terragna da cui provenivano le sue ossa fosse stata isolata e protetta”[12].
La provenienza delle ossa della cassetta dal loculo del muro g, a differenza di quanto sostenuto da padre Ferrua (antagonista storico della Guarducci), è quindi certa: solo in quella cassetta sono state ritrovate tracce di porpora e fili di oro, porpora e oro che avevano evidentemente avvolto le ossa di Pietro al momento della traslazione dalla primitiva tomba terragna nel loculo del monumento costantiniano. Osserva al riguardo la Guarducci:
“Si noti poi che il drappo di vera porpora intessuto d’oro nel quale erano state avvolte le ossa deposte nel loculo del monumento costantiniano s’intonava benissimo al regale porfido usato per ornare all’esterno il monumento stesso, dedicato al Principe degli Apostoli”[13].
Vorrei fare adesso un’ulteriore osservazione su quanto scritto dal De Stefano sulla primitiva tomba terragna di Pietro. Egli afferma che tale sepoltura non è mai stata “effettivamente individuata”[14]. Non dubito che questa sia l’opinione non solo di De Stefano ma anche di Carandini. Non era questa l’opinione di Papa Pio XII, il quale nel suo radiomessaggio natalizio del 1950, a conclusione dell’anno giubilare, così si espresse:
“Ma la questione essenziale è la seguente: È stata veramente trovata la tomba di san Pietro? A tale domanda la conclusione finale dei lavori e degli studi risponde con un chiarissimo: Sì. La tomba del Principe degli Apostoli è stata ritrovata. Una seconda questione, subordinata alla prima, riguarda le reliquie del Santo. Sono state esse rinvenute? Al margine del sepolcro furono trovati resti di ossa umane; dei quali però non è possibile provare con certezza che appartennero alla spoglia mortale dell’Apostolo. Ciò lascia tuttavia intatta la realtà storica della tomba. La gigantesca cupola s’inarca esattamente sul sepolcro del primo Vescovo di Roma, del primo Papa, sepolcro in origine umilissimo, ma sul quale la venerazione dei secoli posteriori con meravigliosa successione di opere eresse il massimo tempio della Cristianità”[15].
Sul fatto che in seguito agli scavi degli anni Quaranta la primitiva tomba di Pietro è stata davvero ritrovata concordarono anche, per una volta, sia la Guarducci che padre Ferrua.
Da parte mia, mi limito a far rilevare una curiosa discrasia nella raffigurazione dell’edicola sepolcrale di Pietro del II secolo (detta “Trofeo di Gaio”) tra la ricostruzione presentata da Carandini all’inizio del suo volume, e la ricostruzione presentata da Ferrua nell’articolo pubblicato da “La Civiltà Cattolica” il 5 gennaio del 1952. Nell’illustrazione del libro di Carandini manca il chiusino nel pavimento tra le due colonnine, quel chiusino che invece è presente nel disegno di Ferrua[16]. Secondo la Guarducci, questo chiusino costituisce un sicuro indizio del fatto che sotto l’edicola del II secolo era rimasta la tomba primitiva col suo contenuto, fino a quando non venne svuotata, nel IV secolo, per trasferirne il contenuto nel loculo del monumento costantiniano.
[1] Andrea Carandini, Su questa pietra – Gesù, Pietro e la nascita della Chiesa, Laterza 2013.
[2] Ivi, p. 101.
[3] Ivi, pp. 131-132.
[4] Margherita Guarducci, I graffiti sotto la confessione di San Pietro in Vaticano, Libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano 1958.
[5] Margherita Guarducci, Pietro ritrovato – il martirio, la tomba, le reliquie, Mondadori 1970, pp. 62-63.
[6] Ivi, pp. 63-64.
[7] Margherita Guarducci, La tomba di Pietro – Una straordinaria vicenda, Rusconi 1989, p. 64.
[8] Margherita Guarducci, nel suo libro Misteri dell’alfabeto – Enigmistica degli antichi cristiani (Rusconi 1993), così commenta al riguardo: “Ho già rilevato che gli scavatori della necropoli vaticana tentarono, ma invano, di decifrare quel difficile documento e che nella loro relazione ufficiale, pubblicata nel 1951, figurano soltanto le poche letture (non del tutto prive di errori) ch’essi erano riusciti a raccogliere. Avendo notato fra i graffiti alcuni nomi di persona e alcune acclamazioni cristiane, essi avevano concluso che si trattasse «…di graffiti di visitatori che vi hanno inciso sopra [cioè sull’intonaco del muro] i loro nomi accompagnati spesso da acclamazioni». Stranamente essi non si avvidero che quei nomi propri uscivano di regola in vocativo e che le «acclamazioni» erano auguri del tipo vivas o vivatis in [Cristo]. Come potevano i «visitatori» esprimere i propri nomi in vocativo e rivolgere a sé stessi l’augurio di vivere in Cristo?”.
[9] https://it.wikipedia.org/wiki/Manlio_Simonetti
[10] Margherita Guarducci, La tomba di Pietro, cit., p. 75.
[11] https://www.centroculturaledimilano.it/wp-content/uploads/2013/05/901126ZeriTesto.pdf
[12] Margherita Guarducci, La tomba di Pietro, cit., p. 94.
[13] Ivi, p. 98.
[14] Andrea Carandini, Su questa pietra, cit., p. 128.
[15] Margherita Guarducci, La tomba di Pietro, cit., pp. 22-23.
[16] Disegno che è stato riprodotto a p. 29 del libro di Margherita Guarducci, Le chiavi sulla pietra.
Leave a comment