San Paolo e l’anticristo: l’errore di S. Ireneo di Lione

Uno dei brani della Bibbia considerati più oscuri dagli esegeti è certamente la cosiddetta “pericope dell’Anticristo” della seconda lettera di San Paolo ai Tessalonicesi. La presento a seguire nella traduzione effettuata a suo tempo da mons. Francesco Spadafora[1]. Ecco il testo:

Or vi preghiamo, o fratelli, per quanto riguarda la venuta del nostro Signore Gesù Cristo e il nostro adunarci con Lui, di non lasciarvi così presto turbare di animo o allarmare per qualche rivelazione, qualche detto o qualche lettera a noi attribuiti, che presenterebbero come imminente il giorno del Signore. Che nessuno vi illuda in alcun modo.

È necessario che prima si verifichi l’apostasia, e si manifesti l’iniquo, il dannato, l’avversario, colui che si esalta al di sopra di ciò che porta il nome di Dio o è oggetto di culto, fino ad insediarsi nel Tempio di Dio, e a proclamarsi Dio.

Non ricordate come, quando ero tra voi, vi dicevo queste cose? E voi ben conoscete l’impedimento attuale, per cui l’avversario non può manifestarsi, che nel momento assegnatogli.

Il mistero d’iniquità, infatti, già esercita la sua azione nefasta, solo che c’è chi attualmente lo trattiene, fino a che non venga tolto di mezzo. E allora l’iniquo si manifesterà – ma Gesù lo distruggerà col soffio della sua bocca, l’annienterà con lo splendore della sua venuta – e la manifestazione dell’empio, per l’azione di Satana sarà accompagnata da ogni specie di portenti, segni e prodigi ingannevoli, e da ogni specie di seduzione, di cui l’iniquità è capace, a danno di quelli che si perdono perché non hanno accolto l’amore per la verità che li avrebbe salvati. Per questo, Iddio manda loro una potenza seduttrice che li farà aderire alla menzogna, affinché siano condannati tutti quelli che non hanno creduto alla verità, ma si sono compiaciuti nell’iniquità”.

Dicevamo che questo testo viene considerato particolarmente oscuro e di difficile decifrazione. Già Sant’Agostino, nella Città di Dio, confessava candidamente la sua ignoranza al riguardo. Ecco le sue parole:

Le parole e voi ben conoscete l’impedimento attuale significano: sapete bene che cosa è che lo fa ritardare, sapete quale è la causa del suo ritardo affinché egli non si manifesti che nel tempo assegnatogli. Avendo detto che lo sapevano, non l’ha più ripetuto lui apertamente. Ma noi, che ignoriamo quello che essi sapevano, desideriamo giungere, sia pure con fatica, a comprendere quello che pensava l’Apostolo; però non vi riusciamo, specialmente perché le parole che aggiunge rendono il testo ancora più oscuro. Che significa, infatti, l’espressione: Il mistero d’iniquità, infatti, già esercita la sua azione nefasta, solo che c’è chi attualmente lo trattiene fino a che non venga tolto di mezzo. E allora l’iniquo si manifesterà? Confesso che lo ignoro”[2].

Ricordiamo che Sant’Agostino scriveva nel quinto secolo dopo Cristo. Ma, quanto alla comprensione della predetta pericope, la situazione non era sostanzialmente cambiata in tempi molto più vicini ai nostri, se il famoso esegeta Giuseppe Ricciotti poteva scrivere, in pieno 20° secolo, le seguenti parole:

Testo per noi oscurissimo, anche perché Paolo si richiama esplicitamente (v. 5) a idee che aveva già comunicato oralmente ai Tessalonicesi, e delle quali non sappiamo alcunché di preciso”. E, riferendosi ai versetti 6 e 7, Ricciotti aggiungeva:

L’oscurità qui è somma, e le interpretazioni sono molte già presso gli antichi Padri”[3].

Ricciotti era pertanto costretto a concludere:

A nostro modesto parere, i segni che Paolo descrive ai Tessalonicesi come precursori della parusia sono in relazione diretta con questa contesa cosmica, e appunto qui – non già in fatti politici contemporanei – sono da ricercarsi gli obiettivi delle varie allusioni che egli fa, e specialmente quello che si nasconde sotto la designazione colui che trattiene. Ad ogni modo, anche condotte su questa strada, le ricerche si concluderebbero con ipotesi più o meno verosimili, e nulla più: i sette sigilli che chiudono l’arcano libro potrebbero essere infranti con precisione e sicurezza soltanto da Paolo, o anche da qualcuno dei Tessalonicesi che udirono le sue spiegazioni orali sull’argomento”[4].

Per Ricciotti la “contesa cosmica” è quella in atto fra il “mistero dell’iniquità”, ricapitolato dall’Anticristo escatologico, e il mistero di Cristo. Dunque, per Ricciotti, la pericope di San Paolo riguarda l’Anticristo e la conseguente fine del mondo. Questa era anche l’opinione di Sant’Agostino:

Nessuno dubita che l’Apostolo, dicendo queste cose, si sia riferito all’anticristo e al giorno del giudizio (che egli chiama giorno del Signore), il quale non si compirà prima che sia venuto colui che egli chiama l’apostata, s’intende, dal Signore Dio”[5].

Ma se nel predetto passo San Paolo parla dell’Anticristo escatologico, come mai il significato complessivo della pericope è rimasto “oscurissimo” per quasi 2.000 anni? Qui, a mio avviso, s’impone una considerazione elementare: la venuta di Gesù di cui parla San Paolo nella seconda lettera ai Tessalonicesi non può essere quella fisica, che dovrà avvenire alla fine del mondo, altrimenti i Tessalonicesi non avrebbero corso il pericolo di considerarla imminente, costringendo san Paolo a indirizzare loro una seconda lettera! Osserva a tal proposito Spadafora:

“Il testo dice che la venuta del Cristo ‘non è imminente’, ma devono precedere alcuni segni inconfondibili che la preannunziano immediatamente: l’apostasia e la manifestazione dell’Avversario, con la profanazione del Tempio. I fedeli devono riconoscere da tali segni, quando la ‘venuta del Cristo’ sarà imminente. Così il testo”[6].

Una cosa interessante però Ricciotti l’ha detta, quando ha citato “i fatti politici contemporanei” ai quali, secondo lui, l’Apostolo non alluderebbe. Io vedo in questa citazione un riferimento al fatto che, fin dall’antichità, alcuni Padri e scrittori ecclesiastici, a cominciare da Tertulliano, hanno identificato l’”impedimento attuale” (il misterioso “κατέχον” che impedisce la piena manifestazione dell’”iniquo”), con l’Impero Romano. A tal proposito, fece un’osservazione preziosa, in un lungo articolo risalente al 1936, il noto teologo protestante Oscar Cullmann:

“Il neutro (τό κατέχον) del versetto 6 esprime una funzione impersonale dell’ostacolo, il maschile del versetto 7 (ὁ κατὲχων) l’agente personale di questa medesima funzione… Bisogna riconoscere che l’unica spiegazione che tiene conto del passaggio dal neutro al maschile è la più antica, e la più comune, dai Padri della Chiesa ai moderni: il neutro indica l’Impero di Roma, l’autorità di Roma, il maschile il rappresentante di questa autorità in Palestina. Hugo Grotius proponeva, con probabilità, il nome di Vitellio”[7].

L’obiezione ripetutamente proposta contro questa soluzione – l’Impero Romano è caduto ma l’Anticristo non è apparso – cade nel momento in cui si prende atto che San Paolo non parla dell’Anticristo escatologico ma di un anticristo molto più concreto: quello rappresentato dal giudaismo, nemico acerrimo del cristianesimo primitivo, che viene tenuto provvisoriamente a freno, nel suo odio contro la Chiesa del I secolo, dalle autorità romane. Nelle parole di San Paolo, a essere “tolto di mezzo” non sarà l’Impero Romano ma il suo rappresentante in Palestina: nello specifico, prima il procuratore romano Gessio Floro e poi il delegato di Siria Cestio Gallo.

Si tratta della ribellione ebraica capeggiata dagli Zeloti: quella che darà luogo alla famosa Guerra giudaica descritta da Flavio Giuseppe. Quindi, la venuta di Cristo di cui parla San Paolo nella predetta pericope non è quella che dovrà avvenire alla fine del mondo, ma quella che si è realizzata storicamente con la presa e la distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio da parte delle truppe romane. La cosiddetta “pericope dell’Anticristo” di San Paolo è rimasta così oscura perché per secoli gli esegeti hanno inteso il termine parusia (“venuta”) di Cristo come riferito esclusivamente alla sua venuta finale. Si tratta di un indubbio errore teologico perché, come ha brillantemente dimostrato Spadafora, il termine “parusia” in San Paolo non ha solo uno ma ben tre significati:

“Nettamente in contrasto con il sentimento comune, finora in voga, che dappertutto in I e II Thess. vede riferimenti ad un’unica manifestazione o parusia del Cristo Giudice, cioè quella finale, l’esame esegetico – alla luce dell’intero contesto paolino e delle circostanze particolari, proprie a queste prime due lettere, alla luce delle analogie letterali con il 1° evangelo – stabilisce in maniera che direi, per quanto possibile, sicura e definitiva, che nella I e II Thess. sono presenti, come di consueto nelle altre lettere di Paolo, le tre manifestazioni del Cristo Giudice. 1° Giudizio particolare, alla morte di ciascuno: I Thess. 1, 10; 2, 19; 3, 13; 5, 23. 2° Intervento contro la Sinagoga persecutrice e a favore dei fedeli perseguitati: I Thess. 2, 14-16; 5, 1-11; II Thess. 1, 6-10; 2, 1-11. 3° Venuta finale (fisica), con la risurrezione dei corpi: I Thess. 4, 13-18. Non c’è lettera, se si esclude forse il biglietto a Filemone, in cui non appaia lo sfondo drammatico con il Cristo Giudice, in qualcuna delle sue tre manifestazioni suddette; anzi, spesso, esse si trovano insieme”[8].

Quindi, l’esegesi escatologista di II Tessalonicesi 2, 1-12 ha rappresentato un indubbio vicolo cieco. Per andar dietro alla chimera dell’Anticristo escatologico, gli esegeti hanno totalmente trascurato, fino agli albori del 20° secolo, il contesto storico delle due lettere ai Tessalonicesi. E questo contesto ci riporta alle persecuzioni del giudaismo contro la Chiesa e i suoi Apostoli così come sono state descritte negli Atti degli Apostoli e nelle stesse lettere di San Paolo. Leggiamo, ad esempio, cosa scrive proprio San Paolo nella prima lettera ai Tessalonicesi:

Voi infatti, o fratelli, siete divenuti gli emuli delle chiese di Dio, che sono in Giudea, nel Cristo Gesù; ché avete sofferto anche voi, da parte dei vostri compatrioti, le stesse pene che essi da parte dei Giudei, i quali uccisero il Signore e i Profeti, e ferocemente han perseguitato noi; a Dio spiacenti e nemici del genere umano, impedendoci di predicare ai Gentili per salvarli; colmando così sempre più la misura dei loro peccati. Ma l’ira di Dio è ormai su di essi totale e definitiva” (I Tessalonicesi 2, 14-16).

San Paolo non esagerava: i Giudei infatti cercarono ripetutamente di ucciderlo. Basta leggere il capitolo 23 degli Atti degli Apostoli. La persecuzione feroce contro gli Apostoli (e, in particolare, contro San Paolo): questo è il contesto storico in cui devono essere inquadrate le due lettere ai Tessalonicesi, con i loro brani (presuntivamente) escatologici.

Alcuni importanti esegeti del Novecento hanno incominciato quindi a tener presente il contesto storico in cui operava San Paolo e, per gettare luce sui predetti brani, hanno cercato di individuare le fonti cui Paolo si è ispirato. Questo è un punto cruciale. Osserva a tal proposito Spadafora:

“Come ben rileva E. Cothenet, nella ricerca delle fonti cui Paolo si è ispirato, per II Thess. 2, 1-12, non si pensò alle fonti «evangeliche», perché le lettere ai Thess. erano considerate i primi scritti del Nuovo Testamento, e i Sinottici rimandati ad epoca posteriore. «E tuttavia un esame attento dimostra l’esistenza di rapporti stretti tra queste lettere e l’Apocalisse sinottica [Matteo 24, Marco 13, Luca 21], specialmente nel tenore che essa ha in san Marco». Per H. A. A. Kennedy, Matteo 24 è il commento più istruttivo di II Thess. 2, 1-12; Plummer conclude: «il discorso escatologico di Matteo sembra sia stato familiare a s. Paolo e che sia stato anzi presente al suo spirito quando dettava le sue due lettere». Dinanzi al fatto indiscutibile di questi rapporti stretti, c’era sempre la prevenzione sulla data tardiva assegnata a Matteo greco. È merito di Dom J. B. Orchard di avere ripreso a fondo tale problema e di averlo risolto senza pregiudizi, con chiarezza. Nel suo studio accurato, egli dimostra che la relazione di I e II Tessalonicesi è molto più stretta con Matteo che con Luca e Marco; si tratta di vera dipendenza letteraria tra I e II Tessalonicesi e Matteo nei passi corrispondenti; pertanto deduce che Matteo è stato scritto tra il 40 e il 50”[9].

Conclude Spadafora:

“ed è certo molto indicativa la constatazione che tra i brani «escatologici» della I e II Tessalonicesi quello che ha meno contatti con i paralleli di Matteo sia appunto I Tessalonicesi 4, 13-18, indiscutibilmente escatologico. Non è, già soltanto da ciò, ben fondato il dubbio che Matteo 24 non riguardi affatto la fine del mondo? E che I Tessalonicesi 5, 1-11, così fortemente rispondente a Matteo 24 (per contesto e per termini), tratti di cosa ben diversa da quella della pericope precedente I Tessalonicesi 4, 13-18? E che la profezia di Gesù sulla fine di Gerusalemme (Matteo 24, secondo l’esegesi da noi seguita), domini, come un’eco continua, le nostre due lettere?”[10].

L’Orchard presenta la seguente tabella riassuntiva, con i termini corrispondenti più caratteristici.

I Tessalonicesi Matteo Marco Luca
2, 14-16 ἀποκεινάντων…τους προφήτας 23, 31-39 —- 11, 49-50; 13, 34-35
5, 1 περὶ τῶν χρόνων καὶ τῶν καιρῶν    24, 36 13, 32 —-
5, 2 κλέπτης ἐν νυκτί 24, 42.43 —- 12, 39-40
5, 3 αἰφνίδιος ἐπίσταται —- —- 21, 34-36
5, 6-7 γρηγορεῖν , μεθύειν 24, 42. 49 (13, 35) 12, 37. 45
II Tessalonicesi
1, 7-10 ὅταν ἔλθῃ ἐνδοξασθῇναι   24, 30; 25, 31 s. (13, 26-32) (21, 27)
2, 1 ἐπισυναγωγή 24, 31 13, 27 —-
2, 2 μηδὲ θροεῖσθαι   24, 6 13, 7 —-
2, 3 μή τις ὑμᾶς ξαπατήσῃ    24, 4 13, 5 (21, 8)
2, 7-10 ἡ ἀνομία 24, 12 —- —-
2, 8 ἐπιφάνεια τῆς παρουσίας 24, 27 —- —-
2, 9-10 σημείοις καὶ τέρασιν ψεύδους    24, 24 13, 22 —-

 

Dunque c’è una relazione stretta tra le due lettere ai Tessalonicesi (soprattutto la seconda) e il capitolo 24 del Vangelo di Matteo. Riprendiamo la lettura di 2 Tessalonicesi 2, 3-4:

È necessario che prima si verifichi l’apostasia, e si manifesti l’iniquo, il dannato, l’avversario, colui che si esalta al di sopra di ciò che porta il nome di Dio o è oggetto di culto, fino a insediarsi nel Tempio di Dio e a proclamarsi Dio”.

Seguendo l’esegesi di Spadafora, questi versetti sono collegati ai versetti 9-13 del capitolo 24 di Matteo:

Allora vi consegneranno per i supplizi e vi uccideranno, e sarete odiati da tutte le genti per cagione del mio nome. Allora si scandalizzeranno (o “soccomberanno”), e si denunzieranno a vicenda e si odieranno l’un l’altro; e per il moltiplicarsi dell’iniquità, si raffredderà la carità dei più. Chi però persevererà sino alla fine, sarà salvo”.

È Gesù che parla: sta descrivendo la futura apostasia in cui incorreranno i cristiani a causa delle tremende pressioni esercitate dal giudaismo persecutore. È la stessa apostasia presentata come ancora futura da Paolo all’inizio degli anni Cinquanta, e i cui effetti già si notano, nel decennio successivo, nella lettera agli Ebrei.

Il primo segno menzionato da San Paolo è dunque l’apostasia. Il secondo è la manifestazione dell’Iniquo, culminante nell’insediamento di costui nel Tempio di Gerusalemme. Ma chi è l’Iniquo? Secondo Spadafora, l’”iniquo, il dannato, l’avversario” indica i Giudei, il Giudaismo ostile a Cristo, che avrà la sua “manifestazione” più feroce con la presa del potere da parte degli Zeloti:

“Già nel capitolo 1 di questa seconda lettera, san Paolo ha detto quel che attende i Giudei, nel «giusto giudizio» che pesa imminente ormai su di essi: ‘la pena eterna, lungi dal Signore’ (versetto 9); rispondentemente a I Tessalonicesi 2, 14-16; 5, 1-9. Ed è notevole già il rimando a Matteo 23, 13-15 dove Gesù parla della perdizione cui tendono i Farisei, e cercano di addurre gli altri. Non deve creare dunque difficoltà alcuna l’appellativo «il dannato» riferito al Giudaismo, cioè ai suoi capi, feroci avversari di Cristo e della Chiesa. Sia pure in modo indiretto, implicito, san Paolo non designa diversamente la sorte finale della Sinagoga, o della «Gerusalemme terrestre»; «cosa dice Iddio? Scaccia la schiava (la Sinagoga) e il figlio suo (i Giudei), perché questi non abbia parte alla eredità del figlio della libera», della Gerusalemme celeste, che è la Chiesa (Galati 5, 21-30)”[11].

D’altra parte, è lo stesso Gesù a nominare i Giudei quali “figli del regno” che “saranno gettati nelle tenebre di fuori” (Matteo 8, 12).

La manifestazione dell’Iniquo di cui parla San Paolo costituisce dunque un’eco fedele – se l’esegesi di Spadafora (e di Orchard) è corretta – dell’”abominazione della desolazione” di cui parla Gesù nel capitolo 24 del Vangelo di Matteo:

Quando dunque vedrete l’abominazione della desolazione, di cui ha parlato il profeta Daniele, installata nel luogo santo – chi legge comprenda – allora coloro i quali sono nella Giudea fuggano sui monti” (Matteo 24, 15-16).

Ma in cosa consiste questa “abominazione” installata nel luogo santo? Secondo diversi autorevoli esegeti moderni, l’”abominazione della desolazione” di cui parla Gesù si riferisce alla profanazione del Tempio ad opera degli zeloti avvenuta nell’anno 68 dell’era cristiana. A questo proposito, Spadafora presenta una citazione del famoso esegeta Ferdinand Prat che vale la pena di riportare per intero:

“L’abominazione della desolazione (l’Infamia devastatrice) sarà là dove non dovrebbe (Mc. 13, 14); più precisamente, nel Luogo Santo, (Mt. 24, 15), cioè nel Tempio, (come risulta da Dan. 9, 17; 12, 11 cui Gesù rimanda). È predetta la profanazione del Tempio che avvenne nel 68 d.C., due anni prima della rovina di Gerusalemme (Giuseppe, Bell. IV, 5, 1; 6, 3). La profanazione del Tempio, operata da Antioco Epifane, era tipo e preannunzio di questa profanazione, predetta da Gesù e compiuta dagli Zeloti (come lo stesso Epifane, nella sua furia persecutrice e nella sua empietà contro Dio, era tipo e preannunzio dell’Iniquo, dell’Avversario, che avrebbe operato tale profanazione). Nel 68 quando Giovanni di Giscala s’impadronì del Santuario per farne la sua fortezza, il sangue umano corse a rivi nel luogo santo; due sommi sacerdoti e una folla di nobili vittime caddero sotto il pugnale degli Zeloti. Questa profanazione era il presagio dell’imminente rovina. San Luca (21, 20) pose, al posto di questo segno, uno equivalente più intelligibile per i suoi lettori: “Quando vedrete Gerusalemme cinta da armate…”. Nel 68-69 d.C. le legioni romane occupavano Hebron, Emmaus, Betel e Gerico; il cerchio di ferro si chiudeva intorno alla capitale”.

Dunque, San Paolo (II Tessalonicesi 2, 2-12) e Gesù (Matteo 24, 15-16) preconizzano un unico e medesimo evento: la profanazione del Tempio ad opera degli zeloti nel 68 d.C. E il mistero d’iniquità trattenuto dal κατέχον è il giudaismo nemico di Cristo. Eppure, ancora oggi, troviamo degli esegeti che riferiscono i passi in questione all’Anticristo escatologico e alla fine del mondo. Ad esempio, ecco cosa scrive la pur benemerita Bibbia curata da mons. Salvatore Garofalo (pubblicata nel 1966) a proposito dei versetti di san Paolo:

“L’iniquo è l’Anticristo (1 Gv 2, 18), che da alcuni è considerato piuttosto che come individuo, come una serie ininterrotta di emissari di Satana. Il mistero di iniquità sembra essere l’attività satanica. Chi sia colui che lo trattiene non è stato ancora identificato, nonostante le più varie proposte; secondo alcuni, sarebbe la mancanza della duplice condizione descritta nel versetto 3”.

È evidente che qui il commentatore brancola nel buio. Ma questo brancolare è la conseguenza di un errore antico, un errore che risale addirittura a S. Ireneo di Lione. S. Ireneo è stato infatti il primo, nel secondo secolo dopo Cristo, che ha interpretato tanto la “pericope dell’anticristo” di San Paolo quanto l’”abominazione della desolazione” del capitolo 24 di Matteo come riferite all’Anticristo escatologico e alla fine del mondo.

E che l’esegesi di Ireneo qui sia erronea lo si deduce da un fatto molto semplice: Gesù, nel suo discorso del martedì santo si rivolge ai suoi discepoli. Quando dice loro “Quando vedrete”, li sta avvertendo che ad un certo punto, nel corso della loro vita, si verificherà un evento che lui chiama appunto “abominazione della desolazione”. L’evento in questione non può quindi essere che un evento del I secolo, non un evento che dovrà avvenire alla fine del mondo.

Eppure, nonostante un’evidenza tanto elementare, l’esegesi di Ireneo ha avuto un’influenza immensa per quasi 2.000 anni e, a quanto pare, non ha ancora esaurito i suoi effetti, rendendo i cosiddetti passi “escatologici” del Nuovo Testamento “chiusi da sette sigilli”, come constatava l’abate Ricciotti. Per questo è importante leggere e rileggere il libro di Spadafora e tenere finalmente nel dovuto conto l’autorevole esegesi da lui proposta – tuttora largamente ignorata, purtroppo.

 

[1] Francesco Spadafora, Gesù e la fine di Gerusalemme e l’escatologia in San Paolo, Istituto Padano di Arti Grafiche, Rovigo 1971, p. 176.

[2] Sant’Agostino, La città di Dio, Libro Ventesimo, capitolo 19. L’edizione da me utilizzata è quella pubblicata dalle Edizioni Paoline nel 1979.

[3] La Sacra Bibbia, Introduzioni e note di Giuseppe Ricciotti, Salani Editore, 1940.

[4] Giuseppe Ricciotti, Paolo apostolo, Tipografia Poliglotta Vaticana, 1946, p. 384.

[5] Sant’Agostino, op. cit., p. 1239.

[6] Francesco Spadafora, op. cit., pp. 303-304.

[7] Ivi, p. 304.

[8] Ivi, pp. 220-221.

[9] Ivi, pp. 209-210.

[10] Ivi, p. 218.

[11] Ivi, p. 291.

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