“QUELL’UOMO DEVE MORIRE”
Di Vincenzo Vinciguerra
C’è amarezza nelle pagine dell’ultimo libro scritto dalla giornalista e storica Stefania Limiti che traspare già dal titolo: “Quel che resta del caso Moro”, Interlinea, Novara, 2024.
Stefania Limiti non ricostruisce, nel suo libro, la storia del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro ma, in sintesi, quella delle menzogne che hanno impedito fino ad oggi di ottenere la verità sulla morte dell’allora presidente della Democrazia cristiana.
Con il suo stile coinvolgente che porta il lettore a vivere quello che lei racconta, Stefania Limiti denuncia la rimozione dalla memoria collettiva della vicenda Moro.
La “karneval nation”, come i tedeschi definiscono l’Italia, non è un Paese normale. Qui, tutti i fatti più tragici che hanno punteggiato la sua storia, a partire dal 25 luglio 1943, sono stati avvolti, dapprima, nella nebbia dei depistaggi e delle menzogne e, infine, in quella dell’oblio. E l’omicidio di Aldo Moro non poteva avere sorte diversa.
Sul piano storico le ragioni per le quali Aldo Moro viene ucciso sono pressoché certe: il tentativo di stabilizzare la politica italiano chiamando i comunisti ad entrare nell’area governativa in modo da raggiungere un accordo fra i due grandi partiti di massa così da garantire insieme la gestione della politica interna senza venire meno alla fedeltà atlantica e porre in discussione le direttive americane in politica estera.
Aldo Moro si era illuso di conquistare un’autonomia in politica interna limitando il controllo americano, così come Enrico Berlinguer tentava di fare con l’Unione sovietica.
Enrico Mattei aveva tentato di rendere l’Italia indipendente sul piano energetico e lo avevano ucciso. Moro lo sapeva e non cercava l’indipendenza ma solo la libertà di rendere governabile il Paese con un’alleanza con il Partito comunista che, in quegli anni, non poteva più essere considerato la “quinta colonna sovietica” in Italia.
Washington, però, non intendeva lasciare ad Aldo Moro la possibilità di fare la sua politica di compromesso ed accordo con il Partito comunista, ed aveva posto in maniera esplicita il proprio veto.
Aldo Moro aveva intuito il pericolo ma lo aveva sottovalutato, così il 16 marzo 1978 le Brigate rosse uccidono gli uomini della sua scorta e lo sequestrano nel centro di Roma.
Quella delle Br, ha dichiarato un ufficiale del Sid che ha mantenuto l’anonimato, “è una storia molto complicata”, tanto da ricordare quella dei Montoneros argentini, il cui capo era un uomo del servizio segreto militare.
E l’ambiguità delle Br risalta proprio nel sequestro e nell’omicidio di Aldo Moro, che Stefania Limiti evidenzia nel suo libro in modo magistrale.
Secondo la storica il nodo fondamentale da sciogliere per comprendere la vicenda del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro è il deragliamento della trattativa condotta per salvarlo.
È vero. Stefania Limiti ha ragione. In fondo, a Moro potevano salvare la vita, eventualità non scartata avendo predisposto il suo ricovero in una clinica psichiatrica.
La domanda, quindi, è: non hanno potuto o non hanno voluto? E ne segue una seconda: la decisione – salvarlo o ucciderlo – è stata presa dentro i confini nazionali o al loro esterno?
Tutto fa ritenere che la decisione sia stata presa a Washington e a Bruxelles, non a Roma.
Chi ha ideato il sequestro di Aldo Moro, chi lo ha reso possibile, chi lo ha gestito e, infine, ha deciso per la sua morte sapeva di poter contare sulla complicità degli italiani ma ha agito per proprio conto, non avendo la necessità di farsi autorizzare dal presidente del Consiglio, dal ministro degli Interni o dai direttori dei servizi segreti militari e civili italiani.
La retorica della liberazione s’infrange contro la realtà di un Paese sconfitto al quale è negata l’indipendenza, la libertà e, di conseguenza, la possibilità di determinare il proprio destino.
L’Italia è condannata a fare “la politica dell’America per l’America”, come disse con cinico realismo l’allora amministratore delegato della Fiat, Vittorio Valletta, ed i suoi uomini politici sono privi di capacità decisionale perché il cuore del potere in Italia pulsa all’interno dell’ambasciata americana a Roma e non a Palazzo Chigi.
La trattativa per salvare la vita di Aldo Moro, pertanto, non poteva che deragliare, anzi è servita solo a prolungare l’agonia del presidente della Democrazia cristiana per far ricadere sulle sole Brigate rosse la responsabilità del suo omicidio.
Mi raccontava Francesco Varone, “Rocco il calabrese”, che si era attivato per individuare il luogo dove si trovava Aldo Moro, di essere stato convocato a Pomezia, a casa di Frank Coppola, e di avervi trovato un emissario della Democrazia cristiana o, per meglio dire, di un politico democristiano che lui ritenne di identificare in Giulio Andreotti.
La conversazione fra i due fu breve:
“Stai cercando Moro per soldi?”, chiese l’emissario a Varone. “Sì”, fu la risposta. “I soldi possiamo farteli guadagnare anche noi”, proseguì l’emissario, “ma ora tu la devi smettere perché quell’uomo deve morire”.
Erano i primi giorni di aprile del 1978. Potevano anche ammazzarlo subito, ma non era opportuno per provare che il governo non poteva trattare con i terroristi rossi ma lasciava ad altri la possibilità di farlo, alimentando una speranza che sapevano vana fin dall’inizio.
Ha ragione Stefania Limiti: il nodo per comprendere la vicenda di Aldo Moro è nel deragliamento della trattativa che qualcuno ha finto di permettere, mettendo in atto l’ennesima sceneggiata della tragica storia italiana del dopoguerra.
Il copione era già scritto: Aldo Moro doveva morire.
Il bellissimo libro di Stefania Limiti, più di tanti altri, ci dice perché il presidente della Democrazia cristiana doveva morire.
E basta, come fa Stefania Limiti, vedere il presente e volgere lo sguardo al passato per comprendere che quello di Aldo Moro non è stato un omicidio delle Brigate rosse ma di Stato, democristiano ed atlantico.
Opera, 20 giugno 2024
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