Ticonio di Cartagine e i re dell’Apocalisse

Uno dei più importanti esegeti medievali dell’Apocalisse è Ticonio di Cartagine (330-390 circa). Di lui, oltre al commento all’Apocalisse – giunto a noi in forma frammentaria – è rimasto il Liber Regularum, che è considerato il primo compendio di ermeneutica biblica. Ticonio era un donatista (il donatismo era un’eresia, puntualmente confutata da Sant’Agostino); tuttavia, evidenziando i punti deboli dell’ecclesiologia donatista, Ticonio fornì ai cattolici un’arma poderosa contro il donatismo, al punto da suscitare le ire dei suoi correligionari.

L’Esposizione dell’Apocalisse di Ticonio fu di cardinale importanza nella storia dell’interpretazione del Libro dell’Apocalisse. Mentre gli esegeti del secondo e terzo secolo consideravano l’Apocalisse come un’opera incentrata principalmente sulla venuta dell’Anticristo e sulla fine del mondo, alla fine del quarto secolo Ticonio interpretò le visioni di Giovanni come una raffigurazione delle lotte che la Chiesa deve affrontare in tutto il corso della storia umana, dall’Incarnazione di Gesù fino alla sua Seconda Venuta.

La lettura ecclesiologica dell’Apocalisse da parte di Ticonio fu tenuta in alta considerazione da alcuni dei commentatori successivi, come Cesario di Arles, Primasio di Adrumeto, Beda e Beato di Liébana. Purtroppo, nessun manoscritto completo del commento di Ticonio è giunto fino a noi, ma in anni recenti c’è stato uno studioso, Mons. Roger Gryson, che ha ricostruito gran parte del testo di Ticonio a partire dalle citazioni di esso riscontrabili nei predetti commentatori medievali. La ricostruzione di Gryson è stata pubblicata nel 2011 nel Corpus Christianorum Series Latina. Da qui, è stata tradotta e pubblicata in inglese nel 2017 da Francis X. Gumerlock (con l’introduzione e le note di David C. Robinson). È di quest’ultimo libro che mi sono avvalso per esporre le osservazioni che seguono.

Del commento di Ticonio mi ha colpito in particolare la trattazione riguardante i capitoli 13 e 17 del libro di Giovanni, quelli in cui si parla della bestia “che sale dal mare”. Ticonio è stato uno dei primi commentatori a sostenere che, nella descrizione delle sette teste della bestia, “che sono sette re”, Giovanni intendesse riferirsi agli imperatori romani: ai Cesari. Rileggiamo il versetto in questione (Apocalisse 17, 10):

“Di questi, cinque sono caduti, uno esiste, l’altro non è ancora venuto, e quando verrà deve rimanere poco tempo”.

Ed ecco il commento di Ticonio:

“Gaio Giulio Cesare il primo, il secondo Augusto, sotto cui il Signore nacque, il terzo Tiberio, sotto cui patì, il quarto Claudio, sotto il quale la carestia menzionata negli Atti degli Apostoli ebbe luogo, il quinto Galba, il sesto Nerone, il settimo Otone, sul quale egli [Giovanni] ha detto: L’altro non è ancora venuto, e quando verrà deve rimanere poco tempo, e cioè, nella figura del rivelato Anticristo; perché egli [Otone] regnò per tre mesi e sei giorni”.

Ora, la successione dei sette Cesari menzionata da Ticonio non è del tutto corretta (il quarto Cesare non è Claudio bensì Caligola, mentre il settimo Cesare non è Otone bensì Galba) ma è significativo che, da un lato, Ticonio faccia iniziare la serie dei Cesari da Giulio, e che, dall’altro, indichi in Nerone il sesto Cesare, quello che è evidentemente in carica quando Giovanni scrive l’Apocalisse.

Ma come è arrivato Ticonio a identificare i “re” menzionati da Giovanni con gli imperatori romani?  

Per capirlo, è necessario innanzitutto rileggere il versetto 13, 1 dell’Apocalisse:

E vidi dal mare salire una fiera, che aveva dieci corna e sette teste, e sulle sue corna dieci diademi, e sulle sue teste nomi blasfemi”.

Commenta Ticonio:

Inoltre, riguardo a ciò che dice: Sulle sue teste un nome di bestemmia, se ne deve dedurre che essi chiamano i loro re, sia viventi che morti, “dèi” e credono che essi sono stati traslati in cielo e figurano tra gli dèi”.

Osserva a sua volta, in nota, il curatore David Robinson:

“Confronta la mitologia che circonda la deificazione di Romolo, il primo re di Roma, e la deificazione dei Cesari a partire da Giulio Cesare”[1].

Ecco il motivo per cui i nomi dei “re” apocalittici, agli occhi di Giovanni, sono nomi di bestemmia: perché sono legati al culto imperiale, alla divinizzazione degli imperatori, quella divinizzazione che ebbe inizio proprio con Giulio Cesare. Leggiamo infatti da Wikipedia:

“Già nel I secolo a.C. Silla, Pompeo e Cesare cercarono di diffondere il culto della propria persona, in particolare Giulio Cesare cercò di dar vita al culto dell’imperatore, a cui riuscì a dare le basi. Alla sua morte Giulio Cesare venne proclamato divus, equiparato quindi ad un dio, e venne istituito il suo culto”.

Del resto, sono proprio le fonti antiche che fanno iniziare la serie dei Cesari da Gaio Giulio. Osserva in proposito il preterista David Chilton[2]:

“[…] Per tutti gli scopi pratici, Giulio Cesare fu Imperatore: egli rivendicò il titolo di imperator, e la maggior parte degli antichi scrittori romani, cristiani ed ebrei lo contano come il primo Imperatore. Svetonio inizia le sue Vite dei dodici Cesari con Giulio come primo Imperatore, come fa Dione Cassio nella sua Storia Romana. Il quinto Libro degli Oracoli Sibillini chiama Giulio “il primo re” e 4 Ezra 12, 15 parla di Augusto come il “secondo” degli imperatori. Per i nostri scopi, [Flavio] Giuseppe sembra fornire la testimonianza più convincente, poiché egli scrisse per un uditorio sia romano che ebraico, nel linguaggio comune dell’epoca. Nelle sue Antichità giudaiche, egli parla chiaramente di Augusto e di Tiberio come del secondo e del terzo imperatore (XVIII.II.2), di Caligola come il quarto (XVIII.VI.10), e di Giulio come del primo (XIX.I.11) […]”.

Quindi, a quanto pare, non è vero che, come ha affermato Edmondo Lupieri nel suo pur pregevolissimo commento all’Apocalisse, “[Giulio] Cesare non fu mai re o «imperatore»”[3]. È infatti proprio con lui che inizia il culto imperiale.

[1] Tyconius, Exposition of the Apocalypse, Translated by Francis X. Gumerlock, With introduction and notes by David C. Robinson, The Catholic University of America Press, Washington, D.C., 2017, p. 132.

[2] Chilton 1987, p. 436, nota 15.

[3] Lupieri 1999, p. 273.

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