Nei giorni scorsi, don Curzio Nitoglia ha scritto un interessante articolo sulla caduta degli ebrei che rifiutarono il Messia[1], in cui mi ha molto colpito la seguente citazione:
“Ecco la grande verità rivelata a San Paolo: la conversione futura in massa dei Giudei al Cristianesimo, che avverrà dopo la conversione dei Gentili e all’approssimarsi della fine del mondo. L’Apostolo svela questo mistero affinché i Gentili non s’insuperbiscano, quasi siano stati chiamati per loro merito e non disprezzino i Giudei come totalmente e per sempre indegni di salvezza. Infatti, non solo ‘un resto’ degli Israeliti si son convertiti, ma anche l’accecamento della gran parte di quelli che si sono induriti e son rimasti nell’infedeltà non durerà sempre, però solo sino a che la totalità dei Pagani sia entrata nella Chiesa. Quindi, Dio ha chiamato Israele alla fede; l’incredulità di quella parte che si è indurita, ha occasionato la conversione dei Gentili e – a suo tempo – la conversione dei Pagani sarà seguita dalla conversione in massa dei Giudei” (p. 146).
Dunque, secondo la teologia cattolica uno dei segni caratteristici della fine del mondo (o, almeno, del suo approssimarsi), sarà la conversione in massa dei Giudei al cattolicesimo.
Ora, però, un dato risulta incontrovertibile: nell’Apocalisse di Giovanni la conversione in massa dei Giudei non c’è. Che significa tutto ciò?
A mio modesto avviso, il fatto che la conversione in massa dei Giudei nell’Apocalisse brilli per la sua assenza significa solo una cosa: che l’argomento principale dell’Apocalisse non riguarda la fine del mondo.
Nell’Apocalisse non solo la conversione dei Giudei non c’è, ma c’è il suo esatto contrario: la perseveranza nel male e l’impenitenza finale della Gerusalemme terrena (“Babilonia”) che ha ucciso non solo Cristo ma anche i profeti (cfr. Matteo 23, 34-36).
Vediamo infatti come vengono menzionati i Giudei nell’Apocalisse. Nelle lettere alle chiese di Smirne e di Filadelfia (Apocalisse 2, 9; 3, 9) i Giudei vengono definiti “sinagoga di Satana”.
In Apocalisse 11, 10, poi, leggiamo il seguente versetto:
“E gli abitanti sulla terra gioiscono e si rallegrano sul conto loro, e si manderanno vicendevolmente regali, perché questi due profeti avevano tormentato gli abitanti sulla terra”.
La “terra” in questione è evidentemente Gerusalemme, in quanto il cadavere dei due testimoni inviati da Dio viene descritto dal veggente di Patmos giacere “sulla piazza della città grande, la quale è chiamata spiritualmente Sodoma ed Egitto, dove anche il loro Signore fu crocifisso” (Apocalisse 11, 8).
Quindi, tra coloro (“popoli, tribù, lingue e genti”) che plaudono alla morte e alla mancata sepoltura dei due testimoni troviamo con certezza proprio i Giudei.
Ma nell’Apocalisse ricorre un’altra indicazione geografica: il “grande fiume Eufrate” (Apocalisse 9, 14; 16, 12). Il fiume in questione viene menzionato due volte: nel contesto dei castighi della sesta tromba e della sesta coppa. Che significato ha questa menzione?
Il prof. Edmondo Lupieri[2] ha osservato che, sulla base delle promesse di dominio universale riservate ad Abramo nella Bibbia, la «terra» d’Israele era ritenuta estendersi dal Nilo all’Eufrate, e che quindi la terra e gli uomini oggetto dell’ira divina al suono della sesta tromba sono “in primo luogo terra e uomini di Israele”. Poi però Lupieri aggiunge che “non è scritto da alcuna parte che i quattro angeli, una volta liberati, attraversino l’Eufrate”.
Su questo punto specifico, mi permetto di dissentire. Nella Bibbia, l’Eufrate costituisce in effetti la frontiera settentrionale della Palestina, come si evince dai passi biblici in cui il fiume viene menzionato. Leggiamoli.
Genesi 15, 18: “In quel giorno Jahve concluse un’alleanza con Abramo, in questi termini: «Alla tua discendenza io do questo paese, dal torrente d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate”.
Deuteronomio 11, 24: “Sarà vostro ogni luogo che la pianta dei vostri piedi calcherà: i vostri confini saranno dal deserto al Libano, dal fiume, il fiume Eufrate, al Mare Occidentale”.
Giosuè 1, 4: “I vostri confini si stenderanno dal deserto e dal Libano che vedi là, fino al grande fiume, l’Eufrate, tutta la terra degli Hittiti fino al mare grande, dove tramonta il sole”.
Come ha osservato il preterista americano David Chilton[3], al di là dell’Eufrate c’erano “le temibili forze pagane che Dio usò come flagello contro il Suo popolo ribelle”. È dalla frontiera settentrionale che gli Assiri, i Babilonesi e i Persiani avevano invaso l’antico Israele. La visione di Giovanni degli angeli punitori, che si apprestano a “uccidere la terza parte degli uomini”, non costituisce quindi una novità assoluta ma ha dei precisi (e numerosi) precedenti negli avvertimenti del profeta Geremia. Leggiamo anche questi.
Geremia 1, 14-16: “Jahve mi disse: «Dal settentrione ribollirà la sventura per tutti gli abitanti della terra. Poiché, ecco, io sto per chiamare tutti i regni del settentrione. – Oracolo di Jahve. Essi verranno e ognuno porrà il trono davanti alle porte di Gerusalemme, intorno alle sue mura e contro tutte le città di Giuda. Allora pronuncerò i miei giudizi contro di loro, per tutto il male che hanno commesso nell’abbandonarmi; mentre sacrificavano ad altri dèi e adoravano l’opera delle loro mani”.
Geremia 6, 1: “Mettetevi in salvo, figli di Beniamin, fuori di Gerusalemme. In Tekoa date fiato alle trombe, innalzate segnali su Bet-Cherem, perché dal settentrione si riversa una sventura e una grande rovina”.
Geremia 6, 22-23: “Così dice Jahve: «Ecco, un popolo viene dal settentrione, una grande nazione si muove dalle estremità della terra. Impugnano l’arco e la lancia, sono crudeli, senza pietà. Il loro grido è come quello di un mare agitato; montano cavalli. Sono pronti come un solo guerriero alla battaglia contro di te, figlia di Sion”.
Geremia 10, 22: “Si è udito un rumore, ecco avanza, e un grande frastuono giunge dal settentrione, per ridurre le città di Giuda un deserto, un rifugio di sciacalli”.
Geremia 13, 20: “Alza gli occhi e osserva coloro che vengono dal settentrione”.
Geremia 25, 8-11: “Per questo, così dice Jahve degli eserciti: «Poiché non avete ascoltato le mie parole, ecco: manderò a prendere tutte le nazioni del settentrione, le farò venire contro questo paese, contro i suoi abitanti e contro tutte le nazioni che stanno intorno, voterò costoro all’anatema e li abbandonerò alla desolazione, allo scherno e all’obbrobrio eterno. Farò cessare in mezzo a loro la voce della gioia e dell’allegria, la voce dello sposo e della sposa, il rumore della mola e la luce della lampada”.
Da tutto ciò, è lecito desumere che la cavalleria infernale descritta da Giovanni nell’episodio della sesta tromba avesse come obbiettivo proprio la terra di Israele. E il frutto di questo flagello è proprio l’impenitenza delle vittime: i sopravvissuti non si pentono della loro condotta:
“E i rimanenti tra gli uomini, che non furono uccisi da questi flagelli, non si ravvidero delle opere delle loro mani sicché non adorassero i demoni e gli idoli d’oro, d’argento, di bronzo, di pietra e di legno, che non possono né vedere né udire né camminare, e non si ravvidero dei loro omicidi né dei loro venefici né della loro prostituzione né dei loro furti” (Apocalisse 9, 20-21).
Anche gli uomini che cadono vittime dei flagelli delle coppe non si ravvedono ma, anzi, bestemmiano Dio (Apocalisse 16, 9-11). Anche qui, la “terra” menzionata da Giovanni è evidentemente, in primo luogo, la terra di Israele. A questo punto, vorrei fare un ragionamento di carattere più generale. Se la “città grande” dove è stato crocifisso Gesù “è chiamata spiritualmente Sodoma ed Egitto” (Apocalisse 11, 8), è logico desumere che le piaghe descritte nei settenari dei sigilli, delle trombe e delle coppe siano indirizzate proprio contro Gerusalemme (come a suo tempo argomentò Alan Beagley[4]). L’Apocalisse costituisce infatti una rivisitazione del libro dell’Esodo, in cui il nuovo Egitto da cui i Cristiani devono fuggire è appunto rappresentato dall’impenitente nazione giudaica. Certo, è possibile che le predette piaghe non abbiano come bersaglio esclusivo la terra e gli uomini di Israele: ricordiamo infatti che nella seconda metà degli anni Sessanta del primo secolo, come puntuale riscontro storico alle visioni di Giovanni, non c’è solo la tragedia della guerra giudaica ma la stessa Roma è funestata dalla guerra civile (il 69 è l’anno dei quattro imperatori)[5].
Probabilmente è a tutti questi avvenimenti che San Pietro si riferisce profeticamente quando afferma:
“È il tempo, infatti, in cui dalla casa di Dio sta per cominciare il giudizio” (1 Pietro 4, 17).
Eppure Roma, pur severamente punita, sopravvivrà (e nei secoli seguenti diventerà cristiana) mentre Gerusalemme viene definitivamente distrutta dai Romani. Ed è questa distruzione definitiva che viene preannunciata dall’Apocalisse quando parla della caduta di “Babilonia”. Quindi, i flagelli dell’Apocalisse sono diretti in primo luogo contro i Giudei che hanno rifiutato Cristo (cfr. Marco 16, 16). Se è vero che la “Babilonia” dell’Apocalisse deve essere identificata con Gerusalemme, come hanno brillantemente dimostrato Lupieri e Beagley, è anche vero che la sua caduta fa seguito proprio ai predetti flagelli: ne è l’ineluttabile conseguenza. Le visioni di Giovanni seguono una logica ferrea. La città una volta sacra agli occhi di Jahve è diventata ormai una prostituta irredimibile, “ubriaca del sangue dei santi e del sangue dei testimoni di Gesù” (Apocalisse 17, 6). E quindi deve essere distrutta per lasciare il posto alla Nuova Alleanza: alla Gerusalemme celeste, alla Chiesa militante (e trionfante) dei credenti in Cristo.
Perciò l’Apocalisse, non ha come argomento principale la fine del mondo, ma la condanna inflitta da Dio alla Gerusalemme del primo secolo, punita per la sua impenitenza nel non voler riconoscere il Messia Gesù. Il fatto che nell’Apocalisse non vi sia traccia della conversione finale dei Giudei (predetta da San Paolo), dimostra che il libro di Giovanni, contrariamente all’opinione dei più, non è un libro prevalentemente escatologico. A me sembra infatti che gli unici passi dell’Apocalisse inequivocabilmente escatologici corrispondano ai versetti 7-15 del capitolo 20: quelli che descrivono il destino dell’umanità dopo la fine del regno dei mille anni.
[1] “Omnis Israel Salvabitur”: https://doncurzionitoglia.wordpress.com/2024/06/28/omnis-israel-salvabitur/
[2] Lupieri 1999, pp. 168-169.
[3] Chilton 1987, p. 250.
[4] Beagley 1987.
[5] È possibile quindi che se, come sostiene la Bibbia Garofalo, la bestia che sale dal mare “rappresenta l’impero romano”, la quinta coppa versata sopra il trono della bestia (Apocalisse 16, 10) abbia come bersaglio la Roma imperiale.
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