È assai diffusa l’opinione secondo cui l’Apocalisse sarebbe un libro irrimediabilmente oscuro e assolutamente vani sarebbero i tentativi per decifrarlo. Ora, è indubbiamente vero che l’Apocalisse è un libro, almeno a prima vista, oscuro e irto di difficoltà. Però le difficoltà che esso propone al lettore forse non sono sempre proibitive: vi sono stati infatti alcuni studiosi che sono riusciti, almeno in parte, a dipanarne le oscurità: penso, ad esempio, ai commenti di Alan Beagley (1987) e di Edmondo Lupieri (1999), che sono riusciti a dimostrare con argomenti probanti che la Babilonia dell’Apocalisse è la Gerusalemme del primo secolo.
Oggi vorrei seguire il commento di Beagley per ripercorrere i settenari dei sigilli, delle trombe e delle coppe. Seguendo le osservazioni dello studioso australiano ci renderemo conto di un dato inoppugnabile: il testo di Giovanni costituisce una ripresa e un aggiornamento, puntuale e sistematico, degli strali polemici che i profeti dell’Antico Testamento rivolgevano alle infedeltà e ai sacrilegi di cui la città di Gerusalemme si era resa colpevole nei riguardi di Jahve.
Innanzitutto Beagley ha il merito di aver capito che il quadro teologico complessivo in cui Giovanni presenta il suo messaggio è costituito dal libro dell’Esodo.
Secondo Beagley (pp. 27-28), “La comunità cristiana è raffigurata come la controparte degli israeliti che vennero preservati dal giudizio, mentre gli egiziani stessi soffrirono spaventosi tormenti. Gesù Cristo è presentato come l’Agnello Pasquale. Ma chi o cosa nell’Apocalisse è la controparte dell’Egitto, su cui il giudizio ricade? Chi è il nuovo Faraone, il nuovo oppressore del popolo di Dio? L’autore stesso fornisce una chiave ai suoi lettori: c’è un’esplicita menzione del nome “Egitto”, ed è applicata alla “grande città… dove il loro Signore fu crocifisso” (11, 8). Questa frase finale sembra lasciare non adito a dubbi che l’autore ha in mente la città di Gerusalemme. Noi abbiamo perciò la prova prima facie che le piaghe dell’Apocalisse devono cadere su Gerusalemme”.
Per quanto riguarda la visione apocalittica dei sigilli, vi sono molti passaggi del Vecchio Testamento il cui contenuto è analogo a quello delle prime quattro visioni dei sigilli. Uno dei più sorprendenti di questi passaggi è Ezechiele 5-7, come può essere osservato dalla seguente tabella:
Ezechiele | Apocalisse |
“peste… fame… spada (5, 12) | “spada… fame… peste (6, 8) |
“strali malefici” (5, 16) | “arco” (6, 2) |
“fame… bestie feroci… peste… spada” (5, 17) | “spada… fame… peste… bestie feroci (6, 8) |
“spada… fame… peste… peste… spada… fame” (6, 11-12 | “spada… fame… peste” (6, 8) |
“spada… peste… fame… spada… fame… peste” (7, 15) | “spada… fame… peste” (6, 8) |
Chiosa Beagley (pp. 41-42): “Il contesto di queste minacce in Ezechiele è significativo: esse sono rivolte contro Gerusalemme (5, 5), la casa di Israele (6, 11), gli “abitanti della terra [di Israele]”, a causa della loro ribellione e del loro rifiuto delle leggi di Jahve… Ma i paralleli veterotestamentari con questi primi quattro sigilli non sono limitati a Ezechiele…”. Anche Geremia minaccia ripetutamente Gerusalemme. Secondo Beagley, infine anche i versetti di Deuteronomio 32, 23-25 sono connessi ai sigilli dell’Apocalisse.
Deuteronomio 32, 23-25: “Accumulerò mali su di loro, esaurirò contro di loro le mie frecce: saranno smunti dalla fame, divorati dalla febbre e da distruzione amara; manderò contro di loro denti di bestie, con veleno di rettili. All’esterno li priverà di figli la spada, nell’interno il terrore: distruggerà il giovane e la vergine, il lattante e il canuto”.
La marcatura dei fedeli di Apocalisse 7 (vv. 2-5) costituisce una ripresa di Ezechiele 9, che riguarda un giudizio che deve cadere sulla città di Gerusalemme.
Apocalisse 7, 2-3: “E vidi un altro angelo che saliva dall’Oriente, che aveva un sigillo del Dio vivente, e gridò a gran voce ai quattro angeli ai quali fu dato il compito di danneggiare la terra e il mare, dicendo: «Non danneggiate la terra né il mare né gli alberi, finché non abbia segnato col sigillo i servi di Dio nostro sulle loro fronti»”.
Ezechiele 9, 4-6: “Jahve disse a lui: «Passa attraverso la città, attraverso Gerusalemme, e fa’ un thau sulla fronte degli uomini che sospirano e gemono per tutti gli abomini che si commettono in essa». Agli altri, poi, ingiunse, mentre io ascoltavo: «Attraversate la città dietro di lui e colpite: il vostro occhio non abbia compassione e siate senza pietà. Uccidete fino allo sterminio vecchi, giovani, vergini, bambini e donne; non vi avvicinerete però ad alcuno che abbia su di sé il thau; cominciate dal mio santuario». Cominciarono, dunque, da quegli anziani che stavano dinanzi al tempio”.
Anche la Bibbia curata da mons. Garofalo ha notato l’affinità tra Apocalisse 7 ed Ezechiele 9: “Il thau, ultima lettera dell’alfabeto ebraico, aveva forma di croce; cfr. Apoc 7, 2 s.; 9, 4. Il castigo risparmierà gli innocenti, custoditi da Dio”.
Passiamo al settenario delle trombe. La visione iniziale di Apocalisse 8 (vv. 2-5) utilizza un’immagine che appare in Ezechiele 10,1-2, dove Jahve ordina a un uomo di prendere dei carboni ardenti di mezzo ai cherubini e di spargerli sulla città di Gerusalemme.
Apocalisse 8, 2-5: “E vidi i sette angeli che stanno ritti davanti a Dio: furono date ad essi sette trombe. E un altro angelo venne e ristette all’altezza dell’altare, tenendo un incensiere d’oro, e gli furono dati molti profumi, affinché li offrisse per le preghiere di tutti i santi, sull’altare d’oro che è davanti al trono. E salì il fumo dei profumi per le preghiere dei santi, dalla mano dell’angelo davanti a Dio. E l’angelo prese l’incensiere e lo riempì con fuoco dell’altare, che gettò sulla terra. E vi furono tuoni, voci, lampi e un terremoto”.
Ezechiele 10, 1-2: “Guardai, ed ecco sul firmamento, che era sopra le teste dei Cherubini, si vedeva qualcosa simile a pietra di zaffiro, che all’aspetto aveva forma di toro. Disse all’uomo vestito di lino: «Entra fra le ruote, sotto i Cherubini, e riempi il cavo delle mani di carboni ardenti in mezzo ai Cherubini e spargili sulla città». Sotto i miei occhi, quegli entrò”.
La terza tromba
La visione della terza tromba di Apocalisse 8, costituisce una ripresa di Geremia 9, 15 e di Geremia 23, 15, versetti che descrivono l’ira di Dio contro Gerusalemme:
Apocalisse 8, 10-11: “E il terzo angelo suonò la tromba. E cadde dal cielo una stella grande incandescente come una fiaccola, e cadde sulla terza parte dei fiumi e sulle sorgenti delle acque. E il nome della stella suona «l’Assenzio». E la terza parte delle acque si mutò in assenzio, e molti tra gli uomini morirono per quelle acque, poiché erano state rese amare”.
Geremia 9, 14-15: “Pertanto, così dice Jahve degli eserciti, Dio di Israele: «Ecco, io darò loro in cibo assenzio, farò loro bere acque avvelenate, li disperderò in mezzo a popoli che né essi né i loro padri avevano conosciuto, e manderò dietro di loro la spada finché io non li abbia distrutti»””.
Geremia 23, 15: “Perciò così dice Jahve degli eserciti contro i profeti: «Ecco, farò loro inghiottire assenzio e farò loro bere acque avvelenate; perché dai profeti di Gerusalemme l’empietà si è sparsa su tutto il paese»”.
La quarta tromba
Osserva Beagley (p. 51): “Quando suona la quarta tromba, il sole, la luna e le stelle vengono colpiti tanto che la loro luce si riduce di un terzo (8, 12). Questa sembra essere una variazione di Isaia 49, 10: quella che doveva essere una benedizione per gli esuli di ritorno ora diventa invece una maledizione… L’ulteriore suggerimento di Ford, che abbiamo qui un’inversione del favore di Jahve verso Giosuè (Gs 10, 12 -14) è più probabile, tanto più che l’oscurità fu un fattore significativo nella capacità di Israele di sconfiggere i suoi nemici sotto la guida di Giosuè: forse l’Apocalisse intende ora indicare che la situazione sarà ora ribaltata, e che Israele sarà ora sopraffatta dai suoi nemici”.
Apocalisse 8, 12: “E il quarto angelo suonò la tromba. E fu colpita la terza parte del sole, la terza parte della luna e la terza parte delle stelle, a tal punto che se ne oscurasse la terza parte, e il giorno perdesse la terza parte della sua luce, e la notte egualmente”.
Giosuè 10, 12-14: “Allora Giosuè parlò a Jahve, il giorno stesso in cui Jahve mise gli Amorrei nelle mani dei figli di Israele, e disse sotto gli occhi di Israele: «O sole, fermati su Gabaon e tu, luna, sulla valle di Aialon!». Il sole si fermò e la luna restò immobile finché il popolo non si fu vendicato dei suoi nemici. Non sta scritto forse nel libro del Giusto? Il sole restò immobile in mezzo al cielo e non si affrettò al tramonto quasi per un giorno intero. Non ci fu mai né prima né dopo un giorno come quello, quando Jahve ascoltò la voce di un uomo, perché Jahve combatteva per Israele! Quindi Giosuè e tutto Israele con lui ritornò all’accampamento di Galgala”.
Commento della Bibbia Garofalo: “L’immobilità del sole, nel linguaggio poetico, poteva esprimere non un apparente arresto del corso di questo astro, ma un oscuramento dell’atmosfera, cfr. Ab 3, 11; Ez 32, 7-8”.
L’aquila con i tre guai
Beagley (p. 52) vede nella menzione dell’aquila in Apocalisse 8, 13, una possibile allusione alle aquile degli stendardi romani, e quindi all’occupazione romana di Gerusalemme. Secondo lo studioso australiano vanno letti in modo analogo i versetti di Matteo 24, 28 e di Luca 17, 37:
Apocalisse 8, 13: “E vidi. E udii un’aquila che volava al vertice del cielo, dicendo a gran voce: «Guai! Guai! Guai! Agli abitanti sulla terra, per i rimanenti squilli della tromba dei tre angeli che stanno per suonare!».
Matteo 24, 28: “Dovunque sarà il cadavere si aduneranno le aquile”.
Luca 17, 37: “Gli domandano: «Dove Signore?». Disse loro: «Dov’è il corpo là si raduneranno anche le aquile»”.
Mio commento: la Bibbia Garofalo ha tradotto, nei due predetti passi di Matteo e di Luca, la parola greca ἀετός con “avvoltoi”, mentre la Bibbia Ricciotti con “aquile”. La Vulgata ha parimenti tradotto con “aquilae”. Mi sembra che la traduzione della Bibbia Garofalo sia sbagliata, perché fa perdere al testo evangelico la possibile allusione alle aquile delle truppe romane di cui parla Beagley.
La quinta tromba
Beagley (p. 53): “Giet vede la durata di cinque mesi del tormento [inflitto dalle locuste] come un’allusione alla lunghezza del regno di terrore di Gessio Floro sulla Palestina, e pensa che sia possibile che i soldati di Floro indossassero corazze (cfr. Apocalisse 9, 9). Egli osserva anche che alcuni degli ausiliari di Floro (in particolare i siriani, i greci, e i samaritani) avevano lunghi capelli, come può essere visto nell’Arco di Tito (cfr. Apocalisse 9, 8a). Giet sostiene anche che alcuni dei soldati romani ricevettero corone d’oro tra i loro premi (cfr. Apocalisse 9, 7b) … Quindi forse Giet ha ragione e Giovanni ha interpretato la presenza della cavalleria di Gessio Floro in Giudea come un adempimento della profezia di Gioele di locuste simili a cavalli che invadevano la Palestina”.
I due testimoni
Apocalisse 11, 1-2: “E mi fu data una canna simile a un bastone da uno che mi diceva: «Alzati e misura il santuario di Dio, e l’altare, e coloro che adorano in esso. Ma l’atrio che è fuori del santuario lascialo fuori e non misurarlo, perché è stato dato alle genti, le quali conculcheranno la città santa per quarantadue mesi”.
Beagley vede in questi versetti una allusione alla distruzione del Tempio di Gerusalemme, e il significato di questa distruzione è che il giudaismo che aveva respinto e rifiutato Cristo viene a sua volta respinto e scomunicato da Dio. Paolo usa un linguaggio simile in Galati 4,30: il comando di “scacciare la schiava e suo figlio” è preso come conseguenza del rifiuto opposto a Cristo dalla “Gerusalemme attuale” (Gal 4,25). Anche questa scena dell’Apocalisse ha uno sfondo veterotestamentario: in Isaia 63,18-19 il calpestamento del santuario da parte dei nemici di Israele è interpretato come una manifestazione del rifiuto della nazione (da parte di Dio).
Galati 4, 24-26: “Tali cose hanno valore allegorico: quelle donne rappresentano le due alleanze; la prima proviene dal monte Sinai e genera per la schiavitù: ed è Agar – poiché il monte Sinai si trova in Arabia – e corrisponde alla Gerusalemme attuale, la quale è appunto schiava insieme con i suoi figli. La Gerusalemme di lassù, all’opposto, è libera ed è madre nostra”.
Galati 4, 29-30: “Ma come allora il figlio generato secondo natura perseguitava l’altro, nato secondo lo spirito, così avviene anche oggi. Che dice però la Scrittura? Scaccia la schiava e suo figlio, poiché il figlio della schiava non deve spartire l’eredità insieme col figlio della moglie libera”.
Isaia 63, 18-19: “Perché gli empi hanno calpestato il tuo santuario, i nostri avversari hanno profanato il tuo luogo santo? Siamo diventati come coloro sui quali tu non hai mai comandato, sui quali il tuo nome non è stato mai invocato. Oh, squarciassi tu i cieli e discendessi! Davanti a te i monti tremerebbero”.
Sempre a proposito dei due testimoni del capitolo 11 del testo di Giovanni, Beagley osserva una significativa convergenza di vedute tra i capitoli 8-11 dell’Apocalisse e i capitoli 4-6 del libro del profeta Geremia (p. 66):
“Anche se non possiamo essere sicuri di quale situazione storica Giovanni potesse avere in mente quando scrisse il suo resoconto della missione e del destino dei due testimoni, otteniamo alcuni indizi dai paralleli significativi tra Apocalisse 8-11 e Geremia 4-6. In tutta quella sezione di Geremia si parla del suono di una tromba (4, 5, 19, 21; 6, 1, 17; cfr. le sette trombe nell’Apocalisse); i cieli diventeranno neri (Ger 4,28 cfr. Apoc 8,12; 9,2); le parole del profeta diventeranno un fuoco che distruggerà il popolo di Giuda a causa della loro prostituzione e della loro compiacente fiducia che Jahve non intraprenderà alcuna azione contro di loro. Per tutto questo la nazione sarà conquistata e fatta prigioniera (Ger 5,7-17, soprattutto v 14; cfr. Ap 11,5). Ger 6,1-8 mette in guardia proprio dall’assedio e dalla distruzione di Gerusalemme. Tutto ciò suggerisce che la descrizione di Giovanni del ministero dei testimoni potrebbe essere intesa a significare che il loro messaggio era un giudizio su Gerusalemme e sulla nazione di Israele”.
E veniamo al cruciale versetto 8 del capitolo 11 dell’Apocalisse:
“E il loro cadavere rimarrà sulla piazza della città grande, la quale è chiamata spiritualmente Sodoma ed Egitto, ove anche il loro Signore fu crocifisso”.
Beagley fa notare (p. 67) che la nazione ebraica era già stata paragonata a Sodoma (Isaia 1, 10) ed era stata accusata di portare le sue prostituzioni “dal paese d’Egitto” (Ezechiele 23, 27). Amos aveva già riunito queste due idee collegando insieme la punizione di Sodoma e una punizione simile alle piaghe che caddero sull’Egitto (Amos 4, 10-11).
Isaia 1, 10: “Udite la parola di Jahve, principi di Sodoma; ascoltate la dottrina del nostro Dio, popolo di Gomorra!”. Commento della Bibbia Garofalo: “Principi di Sodoma e popolo di Gomorra sono i governanti di Israele e i loro sudditi corrotti”.
Ezechiele 23, 27: “Farò sparire da te la tua ignominia e la tua prostituzione con la terra d’Egitto, in modo che non solleverai più gli occhi a essi né ti ricorderai più dell’Egitto”.
Amos 4, 10-11: “«Ho mandato contro di voi la peste alla maniera dell’Egitto, ho ucciso di spada i vostri giovani mentre i vostri cavalli diventavano bottino e ho fatto salire il lezzo dei vostri eserciti: ma non siete ritornati a me!». Oracolo di Jahve! «Vi ho travolto come furono orrendamente travolte Sodoma e Gomorra e vi siete trovati come un tizzone salvato da un incendio: ma non siete ritornati a me». Oracolo di Jahve!”.
La settima tromba
A questo punto si rivela fondamentale la riflessione di Beagley sulla settima tromba (pp.70-71). Ecco cosa scrive:
“Questa visione si conclude con l’apertura del «tempio di Dio che è nel cielo», rivelando l’arca dell’alleanza all’interno del suo tempio (11,15-19). Ci si potrebbe chiedere come un simile evento possa essere descritto come un “guai”, ma il confronto con la parte precedente del capitolo mostra che una tale descrizione dopo tutto non è così strana. La chiave si trova nella menzione del tempio e dell’arca nel cielo (v. 19). Si tratta probabilmente di un’allusione alla tradizione secondo cui Geremia aveva nascosto l’Arca e l’altare degli olocausti perché non cadessero nelle mani dei Caldei. L’Arca non sarebbe stata ripristinata, si pensava, finché Dio non avesse riunito il suo popolo (cfr. 2 Macc 2, 4-8). Il Veggente, quindi, potrebbe voler indicare che il tempo della riunificazione è arrivato e che l’alleanza tra Jahve e Israele è completa, e che l’Arca ne è testimone. Probabilmente è anche significativo che l’Arca sia vista non nel tempio terreno di Gerusalemme, che ora è stato distrutto, ma nel tempio in cielo. Si tratta di una prova evidente della caduta e del superamento del Tempio terreno, che certamente rappresenterebbe un duro colpo per “coloro che abitano sulla terra” se dovessero essere identificati con gli ebrei, poiché essi tengono molto al Tempio di Gerusalemme… Per riassumere riguardo ad Apocalisse 11 possiamo citare le parole di Rissi: «Il capitolo 11 tratta soprattutto della sorte di Israele-Gerusalemme, la città del popolo del tempio. Giovanni vede Israele diviso dalla sfida della fede. I non credenti vengono rigettati [cfr. Marco 16, 16] e solo un resto appartiene ancora al popolo di Dio. Attraverso la crocifissione di Cristo e attraverso la continua impenitenza, Gerusalemme viene secolarizzata come Sodoma e l’Egitto»”.
Quando Giovanni scrive l’Apocalisse, il tempo della riunificazione (cfr. Luca 13, 34) è arrivato e l’alleanza tra Jahve e Israele è completa. Per “Israele”, in questo caso, si intende il “resto” di Israele: i cristiani, che sono chiamati a far parte della Gerusalemme celeste, mentre la Gerusalemme storica è irrimediabilmente “scacciata” (secondo le parole di San Paolo), avendo rifiutato il Messia Gesù.
Parallela alle considerazioni di Beagley sull’arca celeste del capitolo 11 è la riflessione del prof. Edmondo Lupieri sulla “tenda della testimonianza” del capitolo 15.
Leggiamo innanzitutto i versetti 5-8 di tale capitolo:
“E dopo ciò vidi: e si aprì il santuario della tenda della testimonianza nel cielo, e uscirono dal santuario i sette angeli che avevano i sette flagelli, rivestiti di lino puro candido, e cinti intorno al petto di cinture d’oro. E uno dei quattro viventi diede ai sette angeli sette coppe d’oro ripiene del furore del Dio che vive per i secoli dei secoli. E si riempì il santuario di fumo dalla gloria di Dio e dalla sua potenza, e nessuno poteva entrare nel santuario finché non fossero ultimati i sette flagelli dei sette angeli”.
Osserva Lupieri (p. 236):
“La testimonianza (qui Giovanni in luogo dell’usuale μαρτυρία adotta μαρτύριον, cioè il termine usato dalla LXX nell’espressione «tenda della testimonianza») è in pratica il decalogo o, meglio, le tavole che sanciscono il patto e che sono conservate nell’arca, la quale è a sua volta posta nella tenda o Dimora, cioè il tempio mobile che accompagna gli Israeliti nell’esodo (cfr. Ex. 25 – spec. vv. 16.22.26). Dire che la tenda della testimonianza si trova in cielo, significa aderire alle posizioni di quei giudei che ritenevano il tempio di Gerusalemme ormai privo di valore normativo, poiché vuoto. L’«apertura» significa probabilmente che si sta verificando un processo di rivelazione: si realizzano gli «ultimi» misteri, che sono misteri dell’«ira di Dio», portati fuori dal tempio dai sette angeli. Forse si stanno gettando le premesse, da parte di Dio, per un nuovo patto, una nuova testimonianza con gli uomini; questa sarà l’unica valida, poiché procede direttamente da quella Dimora che era servita di «modello» a Mosè (Ex. 25, 9). L’accenno alle «genti» del v. 4 dovrebbe condurre a un significato universalistico della scena, ma l’insistenza sulla testimonianza forse indica che Giovanni sta ritornando a parlare in primo luogo del destino di Israele”.
Il “nuovo patto” individuato da Lupieri è il patto perpetuo sancito dal Messia Gesù con i suoi fedeli.
Passiamo ora alla visione dell’agnello sul monte Sion (capitolo 14). La menzione del “canto nuovo davanti al trono e davanti ai quattro viventi e agli anziani” indica che il canto in questione si svolge in cielo, e che quindi anche il monte Sion citato da Giovanni non è più il monte gerosolimitano: anche in questo caso avviene una sostituzione. Il monte Sion storico e la Gerusalemme terrena, menzionati dal profeta Gioele come “luogo di rifugio”, sono destinati a essere soppiantati dalla Gerusalemme celeste.
Gioele 3, 5: “E avverrà che chiunque invocherà il nome di Jahve sarà salvato, poiché sul monte di Sion e a Gerusalemme ci sarà la salvezza – come ha detto Jahve – e tra i superstiti ci saranno coloro che Jahve avrà chiamato”.
Il capitolo 14 dell’Apocalisse si conclude con la menzione della vendemmia della “vigna della terra”:
Apocalisse 14, 19-20: “E gettò l’angelo la sua falce sulla terra, e vendemmiò la vigna della terra, e gettò l’uva nel tino grande del furore di Dio. E il tino fu pigiato fuori della città, e uscì sangue dal tino fino ai morsi dei cavalli, alla distanza di 1.600 stadi”.
Anche per questi versetti è possibile trovare un precedente veterotestamentario: si tratta di Lamentazioni 1, 15: “Ha atterrato tutti i miei prodi il Signore in mezzo a me. Egli ha convocato a raccolta contro di me per spezzare i miei giovani; il Signore ha pigiato come in un tino la vergine figlia di Giuda”.
Geremia lamenta il castigo inflitto da Dio a Gerusalemme nel 587, quello dell’assedio e della distruzione della città ad opera dei babilonesi di Nabucodonosor. Il castigo cui allude Giovanni è invece, a mio giudizio, quello inflitto a Gerusalemme da parte delle truppe romane nell’anno 70 dell’era cristiana. Corsi e ricorsi della storia sacra. La menzione, da parte di Giovanni, del tino “pigiato fuori della città”, costituisce, sempre a mio giudizio, un riferimento alla crocifissione di Gesù, avvenuta parimenti fuori della città, secondo il Vangelo di Giovanni. Anche la distanza dei “1.600 stadi” costituisce, secondo Lupieri (pp. 232-233), un riferimento a Israele:
“Anche questa cifra sembra indicare Israele. Is. 63, 6 presenta Dio che «calpesta» le genti e dichiara di fare «scorrere per terra il loro sangue»; Giovanni sembra voler dare la misura di tale «terra», così da chiarire di chi e di che cosa egli stia parlando. La critica ha osservato, infatti, che «mille seicento stadi» era ritenuta la lunghezza di Israele (Bauckham 1993, p. 48, con rinvii). La riprova dell’esistenza di una speculazione giudaica sulle dimensioni di Israele o di Gerusalemme che aveva come fondamento il numero 1600 (centuplo del quadrato di 4, doveva prestarsi bene a indicare una misura di superficie o di lunghezza, date le 4 direzioni della terra o i 4 lati del muro del tempio e/o di Gerusalemme), viene ora dal Rotolo del Tempio. In esso la lunghezza del muro esterno della città escatologica è appunto espressa in «mille seicento cubiti». Il numero, quindi, spinge a interpretare «la città» con Gerusalemme e i «calpestati» dall’«ira» con i giudei”.
Passiamo adesso al capitolo 16, versetto 19:
“E la grande città si fece in tre parti, e le città delle genti caddero. E Babilonia la grande fu ricordata davanti a Dio, per darle il calice del vino del furore della sua ira”.
Anche in questo versetto Beagley (pp. 90-91) vede un’allusione a Gerusalemme:
“Un ulteriore indizio che Gerusalemme potrebbe essere nella mente del Veggente qui è contenuto nella sua scelta dell’ordine delle parole nel versetto 19; invece del più consueto ὀργὴ θυμοῦ egli scrive [ὁ] θυμ[ὸς] τῆς ὸργῆς. Ma Charles può indicare un passaggio dove la LXX usa questo ordine di parole: Isaia 9, 18 – e questo avviene in un passaggio riguardante le iniquità del popolo ebraico. Van der Waal scrive: “Una rimarchevole situazione sorge in rapporto al versetto 16, 19. La “grande città” è identificata o con Babilonia (e quindi applicata a Roma), o è distinta da Babilonia e identificata con Gerusalemme. Ma difficilmente qualcuno viene alla conclusione che, proprio come “Sodoma” e “Egitto” sono designazioni tipologiche per Gerusalemme, così può esserlo anche Babilonia”. Qui lo studioso australiano si riferisce al fatto che (purtroppo) la maggioranza dei commentatori dell’Apocalisse continua a identificare “Babilonia” con la città di Roma.
Un’ennesima allusione a Gerusalemme è vista poi da Beagley (p. 96) nel versetto 2 del capitolo 18 (Annientamento di Babilonia):
“L’annuncio dell’angelo della caduta di “Babilonia” (Ap 18, 2) inizia con la descrizione della città come “dimora (κατοικητήριον) di demoni, covo di ogni spirito immondo”, che ricorda i pronunciamenti su molte città o popoli nell’Antico Testamento, ad es. Babilonia (Is 13,21-22; Ger 50,39), Edom (Is 34,14-15) e Ninive (Sof 2,14). Josephine Ford sottolinea, tuttavia, che la parola κατοικητήριον è usata nella LXX per la dimora di Jahve (cfr., ad esempio, Esodo 15, 17), e suggerisce che un ebreo leggendo questa parte dell’Apocalisse avrebbe pensato immediatamente al Tempio – e possiamo supporre che un ebreo cristiano sarebbe stato colpito in modo simile”.
Un altro indizio che con “Babilonia” Giovanni intende proprio Gerusalemme è dato dal fatto che l’autore utilizza il termine “prostituta” (p. 93):
“Sebbene le città o le nazioni non ebraiche siano talvolta accusate di prostituzione, ad es. Tiro (Is 23, 15-18) e Ninive (Nahum 3, 4), l’Antico Testamento usa molto più frequentemente il termine per la nazione di Israele (o Giuda) o per la città di Gerusalemme. Una forte indicazione che Gerusalemme è una meretrice è il fatto che Giovanni trae gran parte del suo materiale dalla profezia di Ezechiele, in cui ci sono due estesi sviluppi dell’immagine di Gerusalemme come una meretrice – una meretrice peggiore, in effetti, di qualsiasi altra città (capitoli 16, 23)”.
La descrizione poi della donna come “ubriaca del sangue dei santi e del sangue dei testimoni di Gesù (17, 6) e avente in essa “il sangue dei profeti e dei santi e di tutti quelli che furono sgozzati sulla terra” (18, 24) si attaglia a Gerusalemme più che a Roma. Gerusalemme, non Roma, è stata responsabile delle morti dei martiri dell’Antico Testamento.
Prosegue Beagley (p. 95):
“Non sono solo i crimini della prostituta a indicare la sua identificazione con Gerusalemme. Anche molti dettagli del suo giudizio indicano la stessa direzione. Sarà resa “desolata e nuda”; e la sua carne sarà divorata e sarà bruciata nel fuoco (17,6; cfr. 18,8). Come dice Beasley-Murray: “Il linguaggio riprende frase per frase la profezia di Ezechiele sulla distruzione di una Gerusalemme senza fede da parte dei Babilonesi e degli Assiri (Ez. 23, 25ss.)”. C’è un ulteriore parallelo con la punizione di essere spogliata nuda in Osea 2, 3, 9-10, dove Jahve avverte che cesserà di fornire vestiti alla sua moglie adultera, Israele, lasciandola così nuda. Anche se parimenti Tiro è minacciata dalla nudità e dalla consumazione del fuoco (cfr. Ez 28, 17-18), i paralleli verbali sono molto più vicini alle descrizioni di Ezechiele sul destino imminente di Gerusalemme”.
Confrontiamo allora i rispettivi passi di Ezechiele e di Giovanni:
Ezechiele 23, 28-31: “Invero, così parla il Signore: Ecco che ti abbandono in potere di coloro che tu hai cessato di amare, di coloro dai quali ti sei allontanata. Essi ti tratteranno con odio, s’impadroniranno dei tuoi beni, lasciandoti nuda e scoperta. Sarà svelata la vergogna delle tue fornicazioni, della tua scelleratezza e della tua prostituzione. Ti tratteranno così perché ti sei prostituita alle genti, perché ti sei contaminata con i loro idoli. Hai seguito la condotta di tua sorella, porrò, dunque, nelle tue mani, il suo calice”.
Apocalisse 17, 1-6, 15. 16: “E venne uno dei sette angeli che hanno le sette coppe, e parlò con me dicendo: «Vieni, ti mostrerò il giudizio della grande prostituta che è seduta su molte acque, con la quale fornicarono i re della terra, e si inebriarono gli abitanti della terra del vino della sua prostituzione». E mi trasferì in spirito in un deserto. E vidi una donna seduta sopra una fiera scarlatta piena di nomi di bestemmia, con sette teste e dieci corna. E la donna era ravvolta d’una veste purpurea e scarlatta, era sontuosamente ornata d’oro, pietre preziose e perle, aveva nella sua mano un calice d’oro pieno delle abominazioni e delle impurità della sua prostituzione. E sulla sua fronte era scritto un nome, un mistero: «Babilonia la grande, la madre delle prostitute e delle abominazioni della terra». E vidi la donna ubriaca del sangue dei santi e del sangue dei testimoni di Gesù. E, vedendola, mi meravigliai di meraviglia grande… E mi dice: «Le acque che vedesti, su cui siede la prostituta sono popoli, folle, genti e lingue. E le dieci corna che vedesti, e la fiera, avranno in odio la prostituta, e la faranno deserta e nuda, e mangeranno le sue carni, e la bruceranno col fuoco”.
Sull’identificazione della prostituta apocalittica con Gerusalemme, Claude Tresmontant (1994, p. 348) concorda con Beagley:
“È dunque evidente e certo che la prostituta di cui parla (in greco: pornè, Apocalisse 17, 1) è Gerusalemme, e non è Roma. D’altronde, nel primo secolo della nostra era, Roma non poteva in alcun caso meritare di essere chiamata la prostituta per una ragione semplice, e cioè che essa non è mai stata la sposa, l’amata di YHWH, la kallah. Solo Gerusalemme è stata infedele, perché solo essa è stata sposata. Come abbiamo già notato, non è impossibile che il sostantivo greco apokalupsis significhi non soltanto la rivelazione ma anche la messa a nudo della prostituta Gerusalemme”.
Un’altra cruciale osservazione di Beagley (p. 98) è che il principio del doppio castigo, che nel capitolo 18 dell’Apocalisse colpisce “Babilonia”, nell’Antico Testamento viene applicato da Dio solo a Gerusalemme e ad Israele, e non ai loro nemici:
“Il comando (a chi è rivolto non è detto) di «dare a [‘Babilonia’] come essa ha dato» (Ap 18, 6a) riproduce il pensiero di Geremia 50, 15, 29 e Salmo 137, 8 riguardo al castigo di Babilonia, ma la voce dal cielo prosegue con il comando di «dare il doppio secondo le opere sue; nel calice in cui ha mesciuto mescetele il doppio» (18, 6bc), che non ha paralleli nei brani dell’Antico Testamento che riguardano Babilonia. L’idea della doppia ricompensa appare però in relazione a Gerusalemme e al popolo d’Israele. Secondo Geremia 16,18, Yahweh “ricompenserà doppiamente” l’iniquità e il peccato di Israele, e in Geremia 17,18 il profeta invoca una “doppia distruzione” sui suoi persecutori, mentre in Isaia 40,2 Gerusalemme ha “ricevuto dalla mano di Yahweh doppio castigo per tutti i suoi peccati”… Ma il punto essenziale da notare qui è che tale linguaggio [il principio del doppio castigo] è usato nell’Antico Testamento solo in connessione con la nazione eletta da Dio, Israele”.
A questo punto, mi sembra opportuno riportare le considerazioni conclusive di Beagley, che gettano una viva luce sul messaggio e sul senso dell’Apocalisse: in fondo, il libro di Giovanni non è poi così oscuro. La citazione è un po’ lunga ma va letta con attenzione (pp. 179-180):
“Abbiamo iniziato questo studio considerando i concetti di martirio e sofferenza nell’Antico Testamento e nella letteratura intertestamentaria. Ciò ci ha portato alla conclusione che la disponibilità a soffrire, e anche a morire, per la propria fede era parte integrante del giudaismo intertestamentario e si trasferì nella Chiesa cristiana. Gli ebrei ortodossi, quelli che non erano disposti a scendere a compromessi con le innovazioni ellenizzanti, erano abituati a sopportare la persecuzione per la loro fede, ma nel periodo del Nuovo Testamento godettero di uno status relativamente privilegiato all’interno dell’Impero Romano. Ufficialmente Roma concedeva agli ebrei vari privilegi legati all’esercizio della loro religione, e coloro che tentavano di interferire con tali privilegi potevano talvolta essere trattati piuttosto severamente. Quando il cristianesimo entrò in scena, quindi, e divenne chiaro ai romani che i cristiani, nonostante tutte le loro somiglianze, erano distinti dagli ebrei, gli ebrei non cristiani si trovarono in una posizione più vantaggiosa nei confronti delle autorità romane rispetto ai cristiani, e furono così in grado di ribaltare la situazione sui loro avversari cristiani. Questa è la situazione prospettata, abbiamo sostenuto, nel Libro dell’Apocalisse. In due delle lettere introduttive dell’Apocalisse vi sono indicazioni esplicite che la comunità cristiana è in conflitto con l’ebraismo (2,9; 3,9). Lo stesso messaggio viene trasmesso quando Gerusalemme viene bollata come “Sodoma ed Egitto” (11,8). In questo contesto il Veggente applica costantemente le immagini dell’Antico Testamento in modo tale da enfatizzare le affermazioni cristiane e da mostrare che in Gesù e nella sua morte e risurrezione i suoi seguaci godono delle benedizioni che molto tempo prima erano state promesse al Popolo di Dio nell’epoca a venire. Viceversa, l’Antico Testamento viene utilizzato anche per ricordare agli oppositori del Vangelo i giudizi che erano stati predetti per la Nazione Eletta se il popolo non fosse rimasto fedele al suo Dio. Il culmine del messaggio di sventura del Veggente arriva nella visione della caduta di Gerusalemme, sotto le spoglie di una prostituta vestita in modo vistoso chiamata “Babilonia”, ubriaca del sangue del popolo fedele di Dio. Un esame delle visioni dell’Antico e del Nuovo Testamento su Gerusalemme ha mostrato che le nostre conclusioni riguardo al messaggio dell’Apocalisse non erano in disaccordo con il senso generale del messaggio biblico. Gerusalemme era spesso, se non prevalentemente, vista come il luogo del peccato e dell’iniquità, la prostituta più colpevole di qualsiasi prostituta ordinaria che vende il proprio corpo. Se la nostra comprensione dell’Apocalisse e del suo contesto è corretta, allora il libro merita pienamente il suo posto come ultimo libro della Bibbia, non come una semplice appendice o uno scritto di contestata autenticità o di dubbio valore, ma come la pietra di coronamento della rivelazione biblica. L’Apocalisse raccoglie temi tratti da tutto l’Antico Testamento e mostra come Gesù Cristo sia l’incarnazione delle benedizioni di Jahve che egli ha promesso al suo popolo. Mostra anche, tuttavia, che anche la nazione di Israele e la dimora prescelta da Jahve, Gerusalemme, non sono immuni dal giudizio. Il valore pratico del libro è evidente. Per i destinatari originari sarebbe stata un’opera di grande conforto. Il loro lavoro e la loro sofferenza, e perfino la morte dei loro amici e familiari cristiani, non furono vani. L’Apocalisse assicura inoltre al Popolo di Dio di tutte le epoche che il suo Dio ha il controllo e che sicuramente lo vendicherà sui suoi persecutori, qualunque cosa questi ultimi facciano riguardo al loro rapporto con Dio”.
Fin qui, le preziose osservazioni dello studioso australiano Alan Beagley. Da parte mia, ho notato nell’Apocalisse di Giovanni alcune ulteriori riprese di passi e immagini del libro di Geremia, in cui il profeta veterotestamentario parla di Gerusalemme. Vediamo la prima:
Geremia 4, 30: “E tu [devastata] che farai? Anche sei ti vesti di scarlatto, ti adorni di ornamenti d’oro e dilati con stibio i tuoi occhi, invano ti fai bella. I tuoi amanti ti disprezzano, essi vogliono la tua vita”.
Apocalisse 17, 4: “E la donna era ravvolta d’una veste purpurea e scarlatta, era sontuosamente ornata d’oro, pietre preziose e perle, aveva nella sua mano un calice d’oro pieno delle abominazioni e delle impurità della sua prostituzione”.
La seconda immagine dell’Apocalisse che mi ha particolarmente colpito costituisce una citazione quasi letterale di un altro passo di Geremia:
Geremia 25, 8-10: “Per questo così dice il Signore degli eserciti: Poiché non avete ascoltato le mie parole, ecco io manderò a prendere tutte le nazioni del settentrione – Oracolo del Signore – (e Nabucodonosor re di Babilonia mio servo); io le farò venire contro questo paese e contro gli abitanti di Gerusalemme e contro tutte le nazioni che le stanno intorno, voterò costoro allo sterminio e li abbandonerò alla desolazione, allo scherno e all’obbrobrio eterno. Farò cessare fra di essi la voce della gioia e la voce dell’allegria, la voce dello sposo e la voce della sposa, il rumore della mola e la luce della lampada”.
Apocalisse 18, 22-24: “E voce di citaredi e musicisti e flautisti e trombettieri non si udirà più in te, e nessun artefice di nessun’arte sarà più trovato in te, e voce di molino non s’udirà più in te, e luce di lampada non rilucerà più in te, e voce di sposo e sposa non s’udirà più in te. Perché i tuoi mercanti erano i grandi della terra, perché con la tua malia furon sedotte tutte le genti; e in essa s’è trovato il sangue dei profeti e dei santi e di quanti furon sgozzati sulla terra”.
Dal mio punto di vista, non c’è dubbio che Giovanni, nel descrivere la caduta di “Babilonia”, abbia in mente proprio la Gerusalemme storica il cui destino, quando Giovanni scrive l’Apocalisse, si sta per compiere.
Ma c’è una profonda affinità anche tra l’Apocalisse e il libro del profeta Ezechiele. Entrambi i libri parlano delle ricorrenti iniquità del popolo ebraico: Ezechiele parla dell’iniquità degli ebrei nel sesto secolo avanti Cristo, mentre Giovanni parla dell’iniquità degli ebrei nel primo secolo dell’era cristiana. Dio punisce la stragrande maggioranza del popolo in entrambe le occasioni. Nel sesto secolo con l’assedio e la distruzione di Gerusalemme da parte delle truppe babilonesi di Nabucodonosor, mentre nel primo secolo dell’era cristiana con l’assedio e la distruzione di Gerusalemme da parte delle truppe romane di Tito. In entrambi i casi, a salvarsi – metafisicamente – oltreché a scampare al disastro della rovina della città, è una piccola percentuale di persone: un “resto”. Il famoso “resto di Israele” di cui hanno parlato sia i profeti dell’Antico che del Nuovo Testamento. Nel caso di Ezechiele sono gli ebrei esuli a Babilonia; nel caso di Giovanni, sono tutti coloro che hanno accettato la parola di Gesù: i cristiani. In entrambi i casi, questi superstiti sono il frutto di una severa selezione morale e esistenziale. Nel caso dei cristiani, è ancora più severa: essi, come scrive l’Apocalisse (a cominciare dal settenario delle lettere) vengono passati al vaglio di una grave prova. Solo chi non avrà apostatato verrà accolto nella Gerusalemme celeste.
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