Chi sono i Due Testimoni menzionati da Giovanni nel capitolo 11 dell’Apocalisse? Oggi vorrei provare a dare una risposta a questo quesito, una risposta che però si differenzia, almeno in parte, dalle risposte che ho trovato nei commenti all’Apocalisse da me finora consultati.
L’esegeta A. Wikenhauser, nel suo commentario all’Apocalisse, ha scritto:
“Questo capitolo è uno dei passi più oscuri dell’Apocalisse”[1].
Proviamo allora a fare un po’ di luce. A tal fine, comincerei dal fatto che nel capitolo 11 Giovanni all’inizio menziona un “santuario di Dio” che sembra proprio essere il tempio di Gerusalemme:
“E mi fu data una canna simile a un bastone da uno che mi diceva: «Alzati e misura il santuario di Dio, e l’altare, e coloro che adorano in esso. Ma l’atrio che è fuori del santuario lascialo fuori e non misurarlo, perché è stato dato alle genti, le quali conculcheranno la città santa per quarantadue mesi” (Apocalisse 11, 1-2).
Su questo brano, a suo tempo il noto esegeta John Arthur Thomas Robinson ha espresso un’acuta osservazione (sottolineature mie):
“Seguendo Wellhausen, Charles intende 11, 1s. come un oracolo di un profeta zelota che predice che, sebbene la città e la coorte esterna del tempio cadranno, il santuario e gli zeloti che lo hanno occupato, sarebbero risparmiati. Ma non c’è nulla nel passaggio che predichi la sopravvivenza del tempio. Vero, c’è una sorta di temporanea delimitazione, all’interno della quale i due profeti, che adempiono i ruoli di Elia e di Mosè possono esprimere un appello finale al pentimento. Ma interpretare l’ordine di ‘misurare’ il tempio come una promessa di preservazione vuol dire ignorare lo sfondo veterotestamentario dell’immagine. Spesso in effetti la linea di misurazione e il piombo sono simboli piuttosto di giudizio e di distruzione (cfr. II Re 21, 13; Isa. 34, 11; Lam. 2, 8; Amos 7, 7-9)”[2].
Su questo passaggio e, più in generale, sui Due Testimoni menzionati da Giovanni sono stati versati fiumi d’inchiostro. Quel che mi sento di aggiungere a questo riguardo è che nel capitolo 11 dell’Apocalisse c’è un altro riferimento al tempio di cui gli esegeti mi pare che non si siano accorti. Leggiamo infatti cosa dice Giovanni nei due versetti immediatamente successivi (Apocalisse 11, 3-4):
“E darò ai due miei testimoni di profetare per 1.260 giorni, ravvolti in sacchi. Questi sono i due olivi e le due lucerne che stanno davanti al Signore della terra”.
Ora, a me sembra che i due ulivi “che stanno davanti al Signore della terra” sia una citazione, praticamente alla lettera, di due versetti del profeta Zaccaria:
Zaccaria 4, 11-14: “Poi presi a parlare e gli dissi: «Che cosa sono quei due olivi, a destra del candelabro e alla sua sinistra?». Ripresi a parlare per la seconda volta e gli dissi: «Che cosa sono i due ramoscelli d’olivo che per mezzo di due canaletti d’oro fanno scorrere fuori l’olio?». Egli mi disse: «Non sai che cosa siano queste cose?». Io gli dissi: «No, signore». Disse: «Questi sono i due figli dell’olio, che stanno presso il signore di tutta la terra»”.
A tale riguardo, così commenta il curatore Giovanni Rinaldi:
“I due figli dell’olio, cioè unti, consacrati, sono Giosuè, sommo sacerdote e Zorobabel capo civile: i due poteri saranno associati nell’èra della salvezza, Ger. 33, 14-18”[3].
Ma chi sono Giosuè e Zorobabele? Consultiamo, a questo proposito, il Dizionario Biblico diretto da mons. Francesco Spadafora, alla voce “Zaccaria”:
“Il sacerdozio giudaico (c. 3) ormai purificato curerà tutto quel che riguarda il culto (v. 7): Giosuè e i suoi sacerdoti sono segno e pegno della ricostruzione del Tempio e della restaurazione del culto (v. 8), parte essenziale del risorto Israele. A Giosuè è associato Zorobabel (v. 8 b); insieme porteranno a termine l’opera incominciata, cui il Signore si riserva di dar l’ultima mano (v. 9). Zorobabel (c. 4) preposto all’edificazione materiale del Tempio, Giosuè al culto; il primo particolarmente deve contare unicamente sull’azione di Dio, non su mezzi umani. Iahweh supererà tutte le difficoltà che appaiono umanamente insormontabili…Segue nel c. 6 l’esaltazione di Giosuè (v. 9 ss.) e quella di Zorobabel (vv. 12-15). Questi realizza la speranza messianica in quanto è la radice dalla quale nascerà il Messia. Emerge ancora il legame tra il nuovo Israele, che vien su, e il regno del Messia, che gli succederà”[4].
Quindi, Giosuè e Zorobabele sono le due massime autorità, spirituale e temporale, del secondo tempio: sono due precursori del Messia. A quanto pare, sono proprio loro i Due Testimoni del capitolo 11 dell’Apocalisse, non Enoch ed Elia (come ritenevano gli esegeti medioevali) né Mosè ed Elia (come riteneva san Girolamo).
Ma perché Giovanni li menziona? A mio avviso, il veggente di Patmos adombra, attraverso il riferimento veterotestamentario, la vicenda – e il martirio – di altri Due Testimoni, molto più recenti: i beati apostoli Pietro e Paolo. Sono loro che vengono uccisi per ordine di colui che, a detta degli esegeti preteristi, è la prima bestia dell’Apocalisse: l’imperatore Nerone.
Ma, a questo riguardo, non bisogna dimenticare, che Nerone, secondo diversi autorevoli storici cattolici, si risolse ad agire contro Pietro e Paolo (e, più in generale, a perseguitare i cristiani) dopo aver ripudiato la sposa legittima Ottavia per sposare la giudaizzante Poppea Sabina[5].
Ora, è noto che non solo i preteristi ma diversi altri importanti esegeti hanno identificato la prima bestia dell’Apocalisse nel potere politico (romano) corrotto, e la seconda bestia nel potere religioso (giudaico) corrotto. Quando Giovanni nell’Apocalisse scrive (versetti 13, 3-4): “E l’intera terra fu mossa di ammirazione dietro la fiera; e adorarono il dragone, perché diede l’autorità alla fiera, e adorarono la fiera, dicendo: «Chi è simile alla fiera, e chi può guerreggiare contro di essa?»”, a quali ammiratori si riferisce? Io penso che si riferisca, in primo luogo, a quelle autorità giudaiche che avevano già fatto mettere a morte Gesù e che non vedevano l’ora che, sotto Nerone, venisse dato finalmente corso alla persecuzione generalizzata contro i cristiani. Quello che vuol dire Giovanni è che, quando le autorità giudaiche esultarono per la messa a morte di Pietro e Paolo, è come se fossero corresponsabili non solo della loro morte ma anche, moralmente parlando, dell’uccisione simbolica di Giosuè e Zorobabele. Perché lo spirito – e i valori – incarnati dai due ulivi del Vecchio Testamento rivivevano nei due ulivi del Nuovo Testamento[6]. L’opera missionaria di Pietro e Paolo, brutalmente troncata da Nerone, aveva infatti rappresentato l’ultimo appello al pentimento rivolto al popolo ebraico. Uccisi Pietro e Paolo, il tempio di Gerusalemme non aveva più ragione di esistere. Non a caso, lo storico ebreo Flavio Giuseppe riferisce che, poco prima dell’inizio della guerra giudaica, la presenza divina aveva abbandonato proprio il tempio:
“Inoltre, alla festa che si chiama la Pentecoste, i sacerdoti che erano entrati di notte nel tempio interno per celebrarvi i soliti riti riferirono di aver prima sentito una scossa e un colpo, e poi un insieme di voci che dicevano: «Da questo luogo noi ce ne andiamo»”[7].
Ed è all’imminente, forse incipiente, distruzione del tempio che allude Giovanni all’inizio del capitolo 11 del suo libro.
[1] https://www.amicidomenicani.it/chi-sono-i-due-testimoni-di-apocalisse-11/
[2] John Arthur Thomas Robinson, Redating the New Testament, London 1977, p. 241.
[3] La Sacra Bibbia, tradotta dai testi originali e commentata, a cura e sotto la direzione di mons. Salvatore Garofalo, Casale Monferrato 1966, p. 1749.
[4] Dizionario Biblico, diretto da Francesco Spadafora, Roma 1963, p. 622.
[5] Ne parla anche Ilaria Ramelli in: Gesù a Roma, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma 2006, p. 296.
[6] Non bisogna a questo proposito dimenticare che la Liturgia della Chiesa nella festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo applica ai due apostoli l’immagine dei due olivi.
[7] Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, Oscar Classici Mondadori, 1991, Libro VI, capitolo 5, 299.
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