Il libro del profeta Daniele: quello che i novatori del Novecento non hanno capito

Oggi parleremo del libro del profeta Daniele e, in particolare, del capitolo 9 di tale libro, quello concernente la celebre profezia delle “settanta settimane”. Devo dire che, leggendo i testi dei migliori esegeti italiani del Novecento che si sono occupati di Daniele, non ho potuto fare a meno di provare un moto di delusione. Chi segue il mio lavoro sa che sono un convinto sostenitore del sano progresso dell’esegesi, quel progresso che è stato un frutto prezioso del rinnovamento degli studi biblici voluto da Papa Leone XIII. Eppure, sembra proprio che, per quanto riguarda Daniele e la cruciale profezia del capitolo 9, tale “progresso” non abbia funzionato. Per ragionarci su, ritengo che sia opportuno partire dallo status quaestionis, come è stato delineato a suo tempo da Antonio Socci nel suo libro Indagine su Gesù. Ha scritto Socci:

“Nel Dictionnaire de la Bible, curato da insigni biblisti e pubblicato nel 1912, si legge: «Esistono attualmente due fondamentali interpretazioni della profezia (delle Settanta settimane, nda), l’una razionalista, l’altra cattolica». Quella cattolica – come si è detto – legge l’avveramento della profezia, in tutti i suoi particolari, nell’uccisione di Gesù e nella successiva distruzione di Gerusalemme e del Tempio con la fine dell’antico sacrificio. Invece «i razionalisti» spiega il Dictionnaire «riportano questa profezia ai tempi di Antioco IV Epifane e ne indicano il compimento finale al più tardi all’anno 163 a.C. Per costoro non si tratta di una profezia – non ne riconoscono alcuna – ma di un “vaticinium post eventum”, cioè di una storia già accaduta, scritta in stile profetico. Essi non riconoscono che vi si tratti del Messia». La tesi secondo cui sarebbe una falsa profezia scritta nel II [secolo] a.C. e riferita ai fatti degli anni 167-164 a.C., alla presa del potere di Antioco IV Epifane e alla lotta contro di lui, risale al neoplatonico Porfirio (234-306 ca d.C.), che la formulò nel suo libello Contro i cristiani (libro XII). Tale tesi riemerse poi, secoli dopo, in ambito razionalista nel XVIII secolo. Il Dictionnaire oppone la tesi razionalista e quella cattolica. Sennonché dopo il Concilio gli esegeti cattolici hanno giudicato troppo «letteralista» l’interpretazione tradizionale della Chiesa e hanno tentato una interpretazione più complessa. Che conciliasse le due prospettive. Le conclusioni pratiche di questo nuovo indirizzo si trovano nella nuova «Edizione ufficiale» della Bibbia pubblicata dalla Cei nel 1974 (all’epoca della presidenza Poma). Infatti vi si legge che l’adempimento della profezia, cioè «l’ultima settimana è il tempo dei Maccabei; il consacrato è il sommo sacerdote Onia III trucidato nel 171 (2Mac. 4, 30-38). La persecuzione di Antioco IV Epifane durò dal 168 al 164, per tre anni, con la soppressione del culto ebraico e la profanazione del tempio con l’installazione di un idolo, abominio della desolazione (2Mac. 6,2)». Infine si aggiunge, in quella nota, che «l’epoca maccabeica fu il prodromo dell’era messianica». Così si ammette che si tratterebbe di una profezia post-eventum, cioè non di una profezia, ma se ne recupera il valore simbolico indicando nell’«epoca maccabeica» una figura, una prefigurazione della definitiva sconfitta del Male realizzata da Gesù. Naturalmente si tratta di un’ipotesi di tutto rispetto. Tuttavia è inevitabile chiedersi quali sono le scoperte, le acquisizioni storiche, che stanno alla base di un così vistoso mutamento di posizioni sul carattere profetico e messianico del passo di Daniele. Non sembra che ve ne siano”[1].

Socci ha perfettamente ragione nel segnalare il mutamento di posizione dell’esegesi cattolica riguardo alla profezia delle settanta settimane. Tuttavia il suo excursus deve essere ulteriormente precisato, nel senso che tale mutamento si era già verificato diversi anni prima della edizione della Bibbia Cei del 1974. Ad esempio, se prendiamo la Bibbia curata da mons. Salvatore Garofalo e pubblicata nel 1966, leggiamo, nel commento riservato ai versetti 26 e 27 del capitolo 9 di Daniele, la seguente nota:

“L’ultima settimana è il tempo dei Maccabei. L’unto ucciso è il sommo sacerdote Onia III, assassinato nel 171 (2 Mac 4, 30-38) …La persecuzione di Antioco, durata tre anni e mezzo, tra il 168-164 a.C., culminerà nella soppressione del culto e nella profanazione del tempio”.

Quindi, secondo Garofalo e gli esperti che lavoravano con lui, la profezia di Daniele non arriva fino all’epoca di Gesù, come aveva sempre sostenuto l’interpretazione cattolica tradizionale, ma soltanto fino all’epoca di Antioco Epifane: stiamo parlando del secondo secolo a.C. Però, se si accetta questo punto di vista, la messianicità della profezia ne risulta indubbiamente depotenziata.

Francesco Spadafora la pensa come Garofalo. Ecco cosa scrisse l’illustre esegeta nel Dizionario biblico da lui pubblicato nel 1963:

“La visione delle 70 settimane non oltrepassa i limiti del tempo delle precedenti profezie: termine iniziale è il vaticinio di Ier. 25, 12; 29, 10 sul ritorno d’Israele dall’esilio; pronunciate (29, 10) verso il 606 a.C. e che Daniele legge (9, 2); termine ultimo la persecuzione e la morte di Antioco IV Epifane”[2].

La pensa allo stesso modo anche padre Giovanni Rinaldi, che pubblicò il suo denso commento al libro di Daniele nel lontano 1952: egli considera “malsicura” l’interpretazione messianica diretta (quella cattolica tradizionale) e invece “naturale” l’”interpretazione storico-tipica” (quella che vede il termine ultimo della profezia in Antioco e l’Unto tolto di mezzo del versetto 26 nel sommo sacerdote Onia III)[3].

Completiamo questo breve excursus degli esegeti cattolici che si sono occupati di Daniele con il famoso Giuseppe Ricciotti, che pubblicò l’edizione da lui curata della Bibbia nel 1940. Ecco cosa scrive sulla profezia in questione:

“Questo celebre tratto è stato lungo i secoli studiato assiduamente, sia per accordare le numerose e gravi divergenze che vi sono tra il testo ebraico e quello delle antiche versioni, sia per fissare i dati cronologici qui offerti. Moltissimi punti sono tuttora oscuri e dubbi; è certo invece che il versetto 24 si riferisce al tempo del Messia”.

Quindi, secondo Ricciotti, l’unico versetto sicuramente ascrivibile a Gesù è il versetto 24. I versetti successivi sarebbero “oscuri”.

Devo dire di essere rimasto profondamente deluso dalle osservazioni di questi studiosi: si tratta infatti di altrettante tappe che hanno portato alla liquidazione dell’esegesi cattolica tradizionale. Quella che dichiara compiuta la profezia di Daniele “con la passione e morte di Gesù e la distruzione di Gerusalemme e del Tempio da parte degli eserciti romani al comando di Tito, nel 70 d.C.”[4]. Quella che si può tuttora leggere nell’appendice al Catechismo maggiore di san Pio X, appendice intitolata Breve storia della religione.

Socci nel suo libro riporta poi il giudizio ingeneroso nei confronti dell’interpretazione cattolica tradizionale espresso da uno dei tanti esegeti modernisti che sono apparsi nei decenni post-conciliari:

“«L’interpretazione che vi vede (nel capitolo IX di Daniele, nda) una profezia su Cristo (Volgata: “fino a Cristo duce” v. 25; “dopo 62 settimane sarà ucciso Cristo” v. 26) o sulla distruzione del secondo tempio non è più accettabile, poiché non rispetta il senso storico del testo»”[5].

Ora, accomunare illustri esegeti come Garofalo, Spadafora, Rinaldi e Ricciotti al modernismo post-conciliare sarebbe sicuramente ingeneroso: però non possiamo non rilevare il fatto che costoro, dall’alto della loro innegabile erudizione, hanno finito per snobbare una esegesi, come quella tradizionale, che è tutto tranne che “malsicura”. In particolare, Spadafora, avrebbe dovuto tenere conto del riferimento alla distruzione di Gerusalemme e del Tempio che si trova nella predetta appendice del Catechismo di san Pio X: proprio lui, Spadafora, che ha avuto il merito storico di evidenziare nei suoi libri l’importanza capitale della distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio per la storia della Chiesa.

Da parte mia, vorrei esporre alcune ulteriori osservazioni. La prima: Daniele 9 non parla di Antioco Epifane perché la profezia parla della distruzione della città, ma Antioco non distrusse Gerusalemme, limitandosi a profanare il Tempio.

La seconda: personaggi tutto sommato secondari della storia universale come Antioco e Onia mal si adattano all’innegabile grandiosità messianica della profezia di Daniele. Ricordiamo cosa dice il versetto 24:

“Settanta settimane son state fissate pel tuo popolo e per la tua santa città, affinché abbia termine la prevaricazione e sia chiusa l’era del peccato e cancellata l’iniquità, e condotta la giustizia sempiterna e si compiano le previsioni e le profezie, e sia Unto il santo dei santi”.

Sono parole che fanno venire in mente le parole di Gesù riportate dall’evangelista Luca, capitolo 7, versetti 22-23:

“E rispose loro: «Andate a riferire a Giovanni ciò che avete veduto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risorgono, ai poveri è annunziata la buona novella; e beato è colui per il quale io non sarò occasione di scandalo»”.

Un’altra osservazione riguarda il calcolo delle settanta settimane: se si calcolano a ritroso le 70 settimane di Daniele a partire dalla morte di Antioco Epifane nel 164 avanti Cristo, il termine ultimo fornito dai novatori, si arriva al 654 avanti Cristo, un anno che non c’entra niente con la profezia di Daniele, in quanto all’epoca (nel settimo secolo avanti Cristo) il primo Tempio era ancora in piedi (venne distrutto da Nabucodonosor nel 586 a.C.). Ricordiamo infatti che la profezia di Daniele prende le mosse dalla desolazione inflitta da Dio a Gerusalemme con la distruzione del (primo) Tempio. D’altra parte, se le 70 settimane di Daniele vanno prese alla lettera (nel senso che indicano una durata di 490 anni esatti), così come le prende alla lettera Spadafora, dal vaticinio di Geremia del 606 avanti Cristo (il termine iniziale fornito da Spadafora) alla morte di Antioco Epifane, gli anni trascorsi non sono 490 ma 442. Molto più azzeccata mi sembra la soluzione proposta dal preterista americano Jay Rogers, il quale fissa nell’Anno Domini 27 l’inizio della predicazione di Gesù e da tale data percorre a ritroso i 483 anni delle precedenti sessantanove settimane: si arriva al 457 a.C., l’anno in cui il re persiano Artaserse decreta la ricostruzione di Gerusalemme (e ricordiamo che l’angelo Gabriele fa partire l’inizio della profezia proprio dal “verdetto sul ritorno e sulla ricostruzione di Gerusalemme”).

Faccio inoltre mia un’altra preziosa considerazione di Socci:

“Questa «nuova esegesi» peraltro sembra avere un altro punto debole, di eccezionale importanza: è infatti Gesù in persona che applica a sé stesso la profezia delle «Settanta settimane», riformulando e arricchendo di dettagli il preannuncio della prossima distruzione del tempio e di Gerusalemme (Mt. 23,38-39; 24, 1-2; 24,15-25). Inoltre Gesù applica a sé (identificandosi cioè con il «messia innocente soppresso» di Daniele) il nesso che la profezia stabilisce fra l’uccisione del Messia e la distruzione di Gerusalemme e del tempio (Lc. 19,41-44)[6].

C’è poi da dire che gli esegeti moderni, seppur non modernisti, come Garofalo e gli altri da me citati, hanno ignorato il parere di uno storico importantissimo come Flavio Giuseppe:

“Allo stesso modo Daniele scrisse anche a proposito dell’impero dei Romani, che Gerusalemme sarebbe stata presa da loro e il tempio distrutto” (Antichità giudaiche, Libro X, L’adempimento delle profezie di Daniele).

Non sappiamo con certezza a quale versetto di Daniele si riferisse Giuseppe: probabilmente si tratta dei versetti 26-27 del capitolo 9 (in cui anche il Catechismo di san Pio X vede raffigurata l’opera distruttrice dei Romani), ma potrebbe trattarsi anche di Daniele 12:11.

Più in generale, i predetti esegeti non hanno saputo vedere l’elemento “romano” presente nelle profezie di Daniele: non solo nel capitolo 9, ma anche nei capitoli 2 (il quarto regno) e 7 (la quarta bestia): il quarto regno di Daniele 2 non è quello dei Diadochi, come hanno scritto Garofalo e Spadafora, ma proprio l’impero romano. Gesù è infatti venuto al mondo quando dominavano i Romani, come ha scritto Daniele 2:44:

“E al tempo di questi re, il Dio del cielo farà sorgere un regno che non perirà mai, la cui sovranità non sarà trasmessa ad altro popolo e che stritolerà e distruggerà tutti quei regni e rimarrà per sempre”.

 

[1] Antonio Socci, Indagine su Gesù, BUR Saggi, Milano 2009, pp. 175-176.

[2] Francesco Spadafora, Dizionario biblico, Editrice Studium, Roma 1963, p. 149.

[3] Giovanni Rinaldi, Daniele, terza edizione riveduta ed ampliata, Marietti 1952, pp. 124-125.

[4] Antonio Socci, op. cit., p. 173.

[5] Ivi, p. 179.

[6] Ivi, p. 182.

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