Il discorso “escatologico” di Gesù alla luce della Guerra giudaica di Flavio Giuseppe

Come è noto, nel giorno del martedì santo, tre giorni prima di essere crocifisso, Gesù comunicò ai suoi discepoli la profezia sulla fine cruenta di Gerusalemme e del suo tempio. Questa profezia, meglio nota con l’appellativo, peraltro improprio, di discorso “escatologico”, ha una caratteristica: il suo adempimento è riscontrabile, versetto per versetto, nelle fonti del primo secolo. La principale di queste fonti è la “Guerra giudaica” dello storico ebreo Flavio Giuseppe. Non tutti i versetti di Gesù sono però riscontrabili nell’opera di Giuseppe: quelli relativi alle persecuzioni anticristiane sono riscontrabili negli Atti degli apostoli e negli Annali dello storico romano Tacito (in quest’ultimo, limitatamente alla persecuzione neroniana). Come è evidente dal discorso di Gesù, la venuta del Figlio dell’uomo rappresenta l’ira divina nei confronti della nazione giudaica, e quest’ira è espressa con lo stile figurato che è proprio dei discorsi profetici. Da questo punto di vista, il Figlio dell’uomo che viene sulle nubi sta a significare, in generale, tutta la guerra giudaica nel suo carattere di castigo collettivo e, in particolare, la distruzione del tempio e della città, che di quella guerra fu l’atto culminante. La distruzione del tempio fu il segno inequivocabile che la guerra era veramente finita e che nessuna illusione era più possibile. C’è solo un versetto del discorso di Gesù che, almeno apparentemente, non trova riscontro nelle fonti del primo secolo. Si tratta del versetto 31 del capitolo 24 di Matteo: “E manderà i suoi angeli al suono di gran tromba ed essi raccoglieranno i suoi eletti dai quattro punti dell’orizzonte, da un estremo all’altro dei cieli”. Alcuni esegeti vi hanno visto un riferimento alla fine del mondo. Io invece ritengo, seguendo il grande esegeta Francesco Spadafora, che il predetto versetto si spieghi con il corrispondente versetto 28 del capitolo 21 di Luca: “Quando tali cose cominceranno a venire, alzatevi e levate la testa perché la vostra liberazione è vicina”. Possiamo infatti immaginare che i cristiani gerosolimitani dell’epoca, che in massima parte si erano rifugiati a Pella prima dello scoppio della guerra con i romani, accolsero come una liberazione la sconfitta del giudaismo persecutore.

Riporto quindi a seguire, in grassetto, i versetti del discorso di Gesù, riferiti dall’evangelista Matteo, accompagnati dal loro adempimento quale emerge dalle fonti del primo secolo. La versione della “Guerra giudaica” da me utilizzata è quella curata da Giovanni Vitucci e ripubblicata negli Oscar storia nel gennaio 1991.

“Mentre Gesù se ne andava, all’uscita dal tempio, i suoi discepoli gli si avvicinarono per fargli notare le costruzioni del tempio. Ma Gesù rispose loro: «Voi vedete, è vero, tutto questo? In verità vi dico: non resterà qui pietra su pietra che non sia rovesciata»” Matteo 24, 1-2.

“Cesare, nell’impossibilità di arginare la furia dei soldati mentre d’altro canto l’incendio si sviluppava inesorabilmente, accompagnato dai suoi generali entrò nel tempio per vedere il luogo sacro e gli oggetti in esso contenuti, che superavano di gran lunga la fama che ne correva fra gli stranieri e non erano inferiori al vanto e alla gloria che se ne facevano i giudei. Poiché le fiamme non erano ancora penetrate da nessuna parte all’interno del tempio, ma stavano devastando solo le stanze adiacenti tutt’intorno, Tito giudicò che l’edificio poteva ancora essere salvato, come in realtà era, e, affrettatosi a uscire, si mise a esortare personalmente i soldati a spegnere l’incendio dando ordine contemporaneamente a Liberale, centurione dei suoi lancieri di guardia, di mettere a posto a colpi di bastone chi non ubbidiva. Ma, nei soldati, sull’ossequio a Cesare e sul timore per le minacce del centurione avevano il sopravvento il furore, l’odio contro i giudei e un incontenibile ardore guerresco; inoltre i più erano spinti dalla speranza di far bottino, convinti che dentro fosse un ammasso di tesori, anche perché fuori vedevano tutto incorniciato d’oro. Improvvisamente uno di quelli che erano entrati nel tempio, quando già Cesare era uscito per cercare di fermare i soldati, gettò nell’oscurità un tizzo sopra i cardini della porta; all’improvviso balenare del fuoco all’interno, i duci insieme con Cesare si ritirarono e più nessuno impedì ai soldati che stavano fuori di propagare l’incendio. E così, contro il volere di Cesare, il tempio fu distrutto dalle fiamme” Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, pp. 436-437.

“Quando si fu seduto sul monte degli Ulivi, i discepoli lo avvicinarono in disparte e gli domandarono: «Dicci: quando avverrà questo, e quale sarà il segno della tua venuta e della fine dell’eone?». E Gesù rispose loro: «Badate che nessuno vi inganni; molti, infatti, verranno in nome mio dicendo: “Io sono il Messia” e inganneranno molta gente” Matteo 24, 3-5.

“Individui falsi e bugiardi, fingendo di essere ispirati da dio e macchinando disordini e rivoluzioni, spingevano il popolo al fanatismo religioso e lo conducevano nel deserto promettendo che ivi dio avrebbe mostrato loro segni premonitori della liberazione. Contro costoro Felice, considerandoli come istigatori alla ribellione, mandò truppe a cavallo e a piedi e ne fece gran strage. Ma guai ancora maggiori attirò sui giudei il falso profeta egiziano. Arrivò infatti nel paese un ciarlatano che, guadagnatasi la fama di profeta, raccolse una turba di circa trentamila individui che s’erano lasciati abbindolare da lui, li guidò dal deserto al monte detto degli ulivi e di lì si preparava a piombare in forze su Gerusalemme, a battere la guarnigione romana e a farsi signore del popolo con l’aiuto dei suoi seguaci in armi. Felice prevenne il suo attacco affrontandolo con i soldati romani, e tutto il popolo collaborò alla difesa sì che, avvenuto lo scontro, l’egizio riuscì a scampare con alcuni pochi, la maggior parte dei suoi seguaci furono catturati o uccisi mentre tutti gli altri si dispersero rintanandosi ognuno nel suo paese”. Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, p. 155.

“Ma quando sentirete di guerre e di rumori di guerre non vi allarmate; è necessario che ciò avvenga, ma non è ancora la fine. Insorgerà, infatti, popolo contro popolo e regno contro regno” Matteo 24, 6-7a.

“Che dire allora dei giudei di Scitopoli? Questi ebbero l’ardire di unirsi ai greci nel far guerra a noi, e non vollero unirsi a noi, loro connazionali, nella resistenza ai romani. Ebbene, fu certamente un gran profitto quello che ricavarono dalla loro simpatia e dalla loro lealtà verso di essi! Da costoro, infatti, a ricompensa dell’alleanza, vennero spietatamente trucidati con tutte le loro famiglie, e la sorte che c’impedirono d’infliggere a quelli la subirono poi essi stessi, quasi avessero avuto l’intenzione di scatenare l’eccidio. Sarebbe ora troppo lungo specificare ad uno ad uno i casi come questi; infatti voi sapete che fra le città della Siria non ve ne fu una che non fece strage dei giudei residenti, sebbene costoro fossero più avversi a noi che ai romani. Così il popolo di Damasco, pur non riuscendo a inventare un pretesto plausibile, riempì la sua città di nefanda strage sterminando diciottomila giudei con le mogli e i figli. Il numero, poi, di coloro che in Egitto perirono fra i supplizi superò forse, a quanto si dice, i sessantamila” Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, pp. 494-495.

“In ogni luogo ci saranno carestia, pestilenze e terremoti; ma tutto questo è soltanto il principio dei dolori” Matteo 24, 7b-8.

“Dalle loro mani non si salvò nemmeno Niger della Perea, che si era coperto di valore nei combattimenti contro i romani; tra violente proteste, e mentre metteva in mostra le sue ferite, venne trascinato per la città fino all’esterno delle mura dove, perduta ogni speranza, supplicò che almeno non lo lasciassero insepolto. Ma quelli prima di ucciderlo gli promisero che invece non gli avrebbero dato la sepoltura a cui tanto teneva, e Niger, morendo, invocò su di loro il castigo dei romani, la fame e la pestilenza oltre agli altri orrori della guerra, e la lotta intestina. Tutte queste imprecazioni contro quegli empi vennero esaudite dal dio, compresa la più giusta, quella di subire lo strazio del furore fratricida, essendo dopo poco venuti in conflitto fra loro” Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, pp. 305-306.

“Allora vi consegneranno ai supplizi e alla morte e sarete odiati da tutte le genti a causa del mio nome. Allora molti soccomberanno e si tradiranno a vicenda e a vicenda si odieranno. E sorgeranno molti falsi profeti che sedurranno molta gente e, moltiplicandosi la iniquità, si raffredderà la carità dei più. Ma chi avrà resistito fino alla fine, quello sarà salvo “ Matteo 24, 9-13.

“Saulo, dunque, approvava il suo assassinio [di Stefano]. In quell’occasione ci fu grande persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme; perciò la massima parte, a eccezione degli apostoli, si videro costretti a disseminarsi per i paesi della Giudea e della Samaria” Atti degli apostoli 8, 1.

“In quello stesso periodo il re Erode Agrippa prese a maltrattare alcuni membri della Chiesa. Anzitutto fece decapitare Giacomo, fratello di Giovanni. Poi, visto che la cosa era gradita ai Giudei, arrestò anche Pietro. Si era nei giorni degli Azzimi. Presolo, lo cacciò in prigione, affidandolo alla custodia di quattro plotoni di soldati, con l’intenzione di fargli il processo dopo Pasqua” Atti degli apostoli 12, 1-4.

“Allora, per soffocare ogni diceria, Nerone spacciò per colpevoli e condannò a pene di crudeltà particolarmente ricercata quelli che il volgo, detestandoli per le loro infamie, chiamava cristiani. Derivavano il loro nome da Cristo, condannato al supplizio, sotto l’imperatore Tiberio, dal procuratore Ponzio Pilato. Momentaneamente soffocata, questa rovinosa superstizione proruppe di nuovo, non solo in Giudea, terra d’origine del flagello, ma anche a Roma, in cui convergono da ogni dove e trovano adepti le pratiche e le brutture più tremende. Furono dunque dapprima arrestati quanti si professavano cristiani; poi, su loro denuncia, venne condannata una quantità enorme di altri, non tanto per l’incendio, quanto per il loro odio contro il genere umano. Quanti andavano a morire subivano anche oltraggi, come venire coperti di pelli di animali selvatici ed essere sbranati dai cani, oppure crocefissi ed arsi vivi come torce, per servire, al calar della sera, da illuminazione notturna. Per tali spettacoli Nerone aveva aperto i suoi giardini e offriva giochi nel circo, mescolandosi alla plebe in veste d’auriga o mostrandosi ritto su un cocchio. Per cui, benché si trattasse di colpevoli, che avevano meritato punizioni così particolari, nasceva nei loro confronti anche la pietà, perché vittime sacrificate non al pubblico bene bensì alla crudeltà di uno solo” Tacito, Annali, XV, 44[1].

“E questa buona novella del regno sarà proclamata per tutta la terra, in testimonianza in tutto il mondo. Allora verrà la fine” Matteo 24, 14.

“Rendo grazie anzitutto al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché la vostra fede è celebrata nel mondo intero” San Paolo, Lettera ai Romani, 1, 8.

“Quando dunque vedrete l’abominio della desolazione, di cui ha parlato il profeta Daniele, installata nel luogo santo – chi legge comprenda – allora coloro i quali sono nella Giudea fuggano sui monti. Colui che sarà sulla terrazza non ne discenda per prendere la roba che è nella casa; colui che sarà nel campo non torni indietro a prendere il mantello” Matteo 24, 15-18.

“Alla fine il popolo giunse a tale estremo di impotenza e di terrore, e quelli [gli zeloti] di follia, da voler prendere nelle loro mani anche l’elezione dei sommi sacerdoti. Pertanto abolirono i privilegi delle famiglie da cui si erano sempre presi a turno i sommi sacerdoti, e nominarono individui comuni e di bassa estrazione per averli alleati nelle loro empie ribalderie; infatti, chi senza meriti aveva ottenuto la più alta dignità era necessariamente asservito a coloro che gliel’avevano fatta raggiungere. Inoltre, con varie manovre a base di menzogne, misero in urto tra loro le autorità di governo, traendo vantaggio dal contrasto di chi avrebbe potuto tenerli a freno, e alla fine, sazi dei delitti consumati contro gli uomini, rivolsero la loro violenza contro la divinità e con i loro piedi impuri entrarono nel santuario. Poiché il popolo ormai insorgeva contro di loro, incitato da Anano, il più anziano dei sommi sacerdoti, che forse sarebbe riuscito a salvare la città se fosse scampato alle mani dei cospiratori, quelli trasformarono il tempio del dio nel loro fortilizio e in un baluardo contro le sommosse popolari, sì che il santuario diventò il loro comando generale” Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, pp. 282-283.

“Guai alle donne incinte o allattanti in quei giorni!” Matteo 24, 19.

“Intanto la fame esaltava il furore omicida dei ribelli, e questi due flagelli infierivano ogni giorno di più. Poiché non si trovava grano da nessuna parte, essi piombavano nelle case per rovistare, e se ne trovavano percuotevano gli abitanti per aver negato di averne, se non ne trovavano li torturavano come se l’avessero nascosto troppo bene. Indizio se avevano o non avevano provviste era l’aspetto di quei disgraziati: chi ancora si manteneva bene era sospettato di avere riserve di viveri, mentre quelli già consunti venivano trascurati, e si giudicava che non valeva la pena uccidere gente che fra poco sarebbe morta di inanizione. Molti nascostamente barattavano le loro proprietà per una misura di grano, se erano ricchi, o di orzo, se erano poveri, e rinchiusisi nei più nascosti recessi della casa alcuni lo divoravano senza nemmeno macinarlo, tanta era la fame, altri lo mettevano a cuocere, come permettevano la necessità e la paura. Non si apparecchiava più una tavola, ma strappando i cibi dal fuoco li facevano a pezzi ancora semicrudi. Miserabile era il pasto e lacrimevole lo spettacolo, perché i più forti facevano i prepotenti e i deboli gemevano. Certo che la fame è la più grande di tutte le sofferenze, e nulla essa distrugge più che il rispetto: ciò che in altre condizioni è oggetto di considerazione viene invece trattato con disprezzo quando c’è fame. Così le mogli strappavano il cibo dalle bocche dei loro mariti, i figli dalle bocche dei padri e, cosa fra tutte più dolorosa, le madri dalle bocche dei loro bambini, e mentre i loro cari si struggevano fra le loro braccia essi non si facevano scrupolo di privarli delle gocce donatrici di vita. Pur cibandosi in questo modo non restavano celati ai banditi, che dappertutto piombavano anche sui loro miseri bottini. Infatti quando essi vedevano una casa chiusa, capivano che questo era segno che gli abitanti stavano mangiando e immediatamente, sfondata la porta, vi penetravano e strappavano loro i bocconi quasi spremendoli alla gola. Venivano percossi vecchi che si tenevano stretta qualcosa da mangiare e venivano trascinate per i capelli donne che nascondevano ciò che avevano in mano. Non v’era pietà per la canizie o per l’infanzia, ma i bambini venivano sollevati con i bocconi cui restavano appesi e scrollati verso terra. Chi preveniva le loro incursioni e faceva a tempo a inghiottire ciò che essi gli avrebbero strappato, essi lo trattavano con ancor maggior crudeltà come se ne avessero subita un’ingiustizia. Ed escogitarono terribili forme di supplizio per farsi dire dov’era nascosto il cibo, ad alcuni di quei miseri occludendo con dei ceci il meato delle urine e trapassandone il sedere con aguzzi bastoncini, e c’è da inorridire al solo sentire quali tormenti infliggevano a qualcuno per farsi dire che aveva anche un solo pezzo di pane o dove nascondeva una manciata di farina. E i carnefici non erano affamati, giacché la necessità li avrebbe fatti apparire meno crudeli; essi invece esercitavano solo il loro furore e si preoccupavano di procurarsi i viveri per i giorni futuri. A chi di notte strisciava verso gli avamposti romani per raccogliere cicorie selvatiche ed erbe, essi andavano incontro, e quando quelli credevano di essere sfuggiti ai nemici essi li spogliavano di ciò che portavano, e sebbene quelli più e più volte li supplicassero, invocando anche il tremendo nome di dio, di lasciar loro almeno una parte di quanto avevano raccolto con sì grave pericolo, non gliene lasciavano nemmeno un poco; e dovevano ringraziare se, dopo essere stati spogliati, non venivano anche uccisi” Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, pp. 389-390.

“Guai alle donne incinte o allattanti, in quei giorni! Ci sarà infatti grande calamità nel paese e ira su questo popolo; e cadranno a fil di spada e andranno prigionieri fra tutte le genti, e Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché siano compiuti i tempi dei pagani” Luca 21, 23-24.

“Poiché i soldati erano ormai stanche di uccidere, mentre continuava a venir fuori una gran massa di superstiti, Cesare ordinò di sopprimere soltanto chi aveva armi e opponeva resistenza, e il resto di farli prigionieri. Ma i soldati, oltre alle persone specificate nell’ordine ricevuto, uccisero anche i vecchi e i deboli, mentre i giovani e i validi li ammassarono nel tempio rinchiudendoli nel recinto delle donne. Alla vigilanza su costoro Cesare prepose uno fra i suoi liberti, mentre affidò a Frontone, che apparteneva alla schiera dei suoi amici, l’incarico di stabilire la sorte da riservare ad ognuno. Frontone mise a morte tutti i ribelli e i guerriglieri che s’incolpavano vicendevolmente, e tra i giovani scelse i più alti e di bell’aspetto mettendoli da parte per il trionfo. Tutti gli altri, di età superiore ai diciassette anni, li mandò in catene a lavorare in Egitto, ma moltissimi Tito ne inviò in dono nelle varie province a dar spettacolo nei teatri morendo di spada o dilaniati dalle belve feroci; chi non aveva ancora diciassette anni fu venduto in schiavitù. Nei giorni che Frontone impiegò per decidere, morirono di fame undicimila prigionieri, alcuni perché non ebbero da mangiare per la spietatezza delle guardie, altri perché, pur avendolo avuto, non lo toccarono; inoltre la moltitudine era tanta, che v’era anche scarsezza di grano” Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, pp. 453-454.

“Pregate perché la vostra fuga non avvenga d’inverno o di sabato. Vi sarà allora, infatti, una grande tribolazione, quale non fu dal principio del mondo fino ad ora né mai più sarà” Matteo 24, 20-21.

“Sarebbe impossibile raccontare nei particolari la storia delle loro [degli Zeloti] nefandezze, ma per dirla in breve nessun’altra città ebbe mai a subire un tale martirio né, da che mondo è mondo, vi fu una generazione più capace di mal fare” Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, p. 391.

“E se quei giorni non fossero stati abbreviati, nessuno si sarebbe salvato; però, a causa degli eletti, quei giorni saranno abbreviati” Matteo 24, 22.

“Tito convocò a consiglio i suoi generali, e i più focosi espressero l’avviso che si dovessero mettere in campo tutte le forze per tentare di prendere d’assalto le mura: fino a quel momento, infatti, con i giudei si erano misurati soltanto dei reparti isolati, mentre, se fossero mossi all’attacco tutti insieme, i giudei non ne avrebbero potuto sostenere nemmeno l’urto perché sarebbero stati sepolti sotto i proiettili. Invece i più prudenti consigliarono chi di tornare a erigere i terrapieni, chi di non pensar più nemmeno a questi e di limitarsi a stringere il blocco per impedire le sortite e l’introduzione di viveri, abbandonando così la città in preda alla fame ed evitando di scontrarsi col nemico; infatti non era il caso di battersi con dei disperati che agognavano solo a finire sotto una spada, perché altrimenti li attendeva una sorte ancora più miserabile. Tito dichiarò che a lui pareva poco decoroso restare del tutto inattivo con un esercito così imponente e che, insieme, giudicava superfluo attaccare degli uomini che stavano per dilaniarsi fra loro; d’altro canto egli mise in evidenza la difficoltà d’innalzare terrapieni, data la mancanza del legname necessario, e la difficoltà ancora maggiore di impedire le sortite; infatti non era facile disporre l’esercito come un cordone attorno alla città per la grande estensione di questa e per le difficoltà del terreno, senza dire dei pericoli di un tale schieramento in caso di un attacco nemico. E mentre essi avrebbero tenuto sotto controllo i passi conosciuti, i giudei, spinti dalla necessità e guidati dalla conoscenza dei luoghi, ne avrebbero scoperti di nuovi; se poi quelli fossero riusciti a introdurre furtivamente dei viveri nella città, l’assedio si sarebbe trascinato ancora più a lungo. Tito espresse infine il timore che la gloria del successo gli venisse diminuita dalla lentezza nel conseguirlo, perché col tempo tutto si può fare mentre l’abilità sta nel farlo presto. E allora, se volevano conciliare insieme la rapidità e la sicurezza, bisognava circondare con un vallo l’intera città: soltanto così avrebbero bloccato tutte le vie d’uscita e allora o i giudei, perduta ogni speranza, avrebbero consegnato la città o, stremati dalla fame, sarebbero stati facilmente annientati” Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, pp. 397-398.

“Se qualcuno allora vi dirà: “Ecco, il Messia è qua” oppure: “È là” non ci credete; perché sorgeranno falsi Messia e falsi profeti, e faranno grandi miracoli e prodigi sì da ingannare, se fosse possibile, anche gli eletti. Ecco, io ve l’ho predetto. Se dunque diranno: “Ecco, è nel deserto”, non ci andate; “Ecco, è nelle stanze interne”, non ci credete” Matteo 24, 23-26.

“I romani, considerando inutile risparmiare gli edifici circostanti ora che il tempio bruciava, appiccarono il fuoco a tutti, e così anche ai resti dei portici e alle porte tranne due, una a oriente e un’altra a mezzogiorno; ma più tardi distrussero anche queste. Incendiarono inoltre le stanze del tesoro, in cui erano riposti un’infinità di denaro, di vesti preziose e di altri oggetti di valore: in una parola tutta la ricchezza dei giudei, avendovi i signori trasferito tutto ciò che tenevano nelle loro case. Arrivarono poi al portico superstite del piazzale esterno, su cui avevano cercato scampo donne e bambini del popolo e una massa confusa di seimila persone. Prima che Cesare prendesse una deliberazione a loro riguardo o desse ordini ai comandanti, i soldati travolti dal furore incendiarono il portico, e quelli perirono, alcuni precipitandosi a terra per sfuggire alle fiamme, altri ghermiti dal fuoco: di tanti nemmeno uno si salvò. A causare la loro morte fu un falso profeta che in quel giorno aveva proclamato agli abitanti della città che il dio comandava loro di salire al tempio per ricevere i segni della salvezza. E in verità allora, istigati dai capi ribelli, si aggiravano tra il popolo numerosi profeti che andavano predicando di aspettare l’aiuto del dio, e ciò per distogliere la gente dalla diserzione e per far coraggio a chi non aveva nulla da temere da loro e sfuggiva al loro controllo. Nella disgrazia l’uomo è pronto a credere, e quando l’ingannatore fa intravvedere la fine dei mali incombenti, allora il misero s’abbandona tutto alla speranza. Così il popolo fu allora abbindolato da ciarlatani e da falsi profeti, senza più badare né prestar fede ai segni manifesti che preannunziavano l’imminente rovina” Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, pp. 438-439.

“Come, infatti, il lampo guizza dall’oriente e brilla fino all’occidente, così sarà della venuta del Figlio dell’uomo” Matteo 24, 27.

“Le fiamme ebbero inizio e furono causate ad opera dei giudei; infatti, ritiratosi Tito, i ribelli dopo un breve riposo si scagliarono di nuovo contro i romani e infuriò uno scontro fra i difensori del santuario e i soldati intenti a spegnere il fuoco nel piazzale interno. Costoro, volti in fuga i giudei, li inseguirono fino al tempio, e fu allora che un soldato senza aspettare l’ordine e senza provare alcun timore nel compiere un atto così terribile, spinto da una forza sovrannaturale afferrò un tizzone ardente e, fattosi sollevare da un commilitone, lo scagliò dentro attraverso una finestra dorata che dava sulle stanze adiacenti al tempio sul lato settentrionale. Al levarsi delle fiamme i giudei proruppero in un grido terrificante come quel tragico momento e, incuranti della vita e senza risparmio di forze, si precipitarono al soccorso perché stava per andar distrutto quello che fino allora avevano cercato di salvare” Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, pp. 434-435.

“Dovunque sarà il cadavere si aduneranno gli avvoltoi” Matteo 24, 28.

“Mentre il tempio bruciava, gli assalitori saccheggiarono qualunque cosa capitava e fecero un’immensa strage di tutti quelli che presero, senza alcun rispetto per l’età né riguardo per l’importanza delle persone: bambini e vecchi, laici e sacerdoti, tutti indistintamente vennero massacrati, e la guerra ghermì e stritolò ogni sorta di persone, sia che chiedessero mercé sia che tentassero di resistere. Il fragore dell’incendio, che si estendeva in lungo e in largo, faceva eco ai lamenti dei caduti; l’altezza del colle e la grandezza dell’edificio in fiamme davano l’impressione che bruciasse l’intera città, e il frastuono era tale da non potersi immaginare nulla di più grande e di più terrificante. Da una parte il grido di guerra delle legioni romane che attaccavano in massa, dall’altro l’urlo dei ribelli presi in mezzo tra ferro e fuoco, mentre i popolani rimasti bloccati lassù in alto fuggendo sbigottiti incappavano nei nemici e perivano fra alte grida” Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, pp. 437-438.

“Subito dopo la tribolazione di quei giorni il sole si oscurerà, la luna non darà più il suo chiarore, le stelle cadranno dal cielo e le potenze dei cieli saranno squassate. Allora apparirà in cielo il segno del Figlio dell’uomo e tutte le genti della terra si lamenteranno, e vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e gloria” Matteo 24, 29-30.

“Perché raccontare i particolari di quell’immane tragedia? In quei giorni presso Tito si rifugiò Manneo figlio di Lazzaro, il quale riferì che attraverso una sola porta, affidata alla sua sorveglianza, nel periodo fra il quattordici del mese di Xanthico, quando i romani si erano accampati presso la città, e il primo del mese di Panemo erano stati trasportati fuori centoquindicimila ottocentottanta cadaveri. Tutti questi appartenevano ai ceti più bassi del popolo, ed egli, pur non essendo preposto a quest’ufficio, li aveva dovuti contare perché aveva l’incarico di pagare col pubblico denaro le spese del trasporto. Tutti gli altri erano stati sepolti a cura dei parenti, e la sepoltura consisteva nel tirarli fuori e buttarli via dalla città. Dopo di lui molti altri notabili che riuscirono a scampare presso Tito riferirono che i cadaveri dei poveri gettati fuori dalle porte erano stati complessivamente seicentomila, mentre degli altri non era possibile calcolare il numero preciso. Dissero anche che, poiché non avevano più la forza di trasportare fuori le salme della povera gente, le ammonticchiavano entro le case più grandi e ve le rinchiudevano. Una misura di grano era arrivata a esser pagata un talento; poi, quando dopo il blocco della città non si potè più uscire a prendere un po’ d’erba, alcuni erano arrivati al punto da raccogliere lo sterco cercando nelle fogne e tra il vecchio letame bovino, e si erano cibati di ciò di cui prima non avrebbero nemmeno sopportato la vista. Soltanto al sentir tali cose i romani provavano pietà, mentre i ribelli, che anche le vedevano, non si decisero ad arrendersi, ma continuarono la resistenza fino a tali estremi: erano infatti accecati dal destino, che come sulla città ormai incombeva anche su di loro” Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, p. 406.

“E manderà i suoi angeli al suono di gran tromba ed essi raccoglieranno i suoi eletti dai quattro punti dell’orizzonte, da un estremo all’altro dei cieli” Matteo 24, 31.

“Allora si vedrà il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando tali cose cominceranno a venire, alzatevi e levate la testa perché la vostra liberazione è vicina” Luca 21, 27-28.

“Imparate dal fico il paragone: quando il suo ramo intenerisce e mette le foglie, voi sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete tutte queste cose sappiate che il Figlio dell’uomo è vicino, alle porte. In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” Matteo 24, 32-35.

“Tito si ritirava nell’Antonia deciso a scatenare all’alba del giorno dopo un assalto con tutte le forze per investire da ogni parte il tempio. Questo già da parecchio tempo era stato dal dio condannato alle fiamme, e col volgere degli evi ritornò il giorno fatale, il dieci del mese di Loos, quello in cui una volta esso era già stato incendiato dal re dei babilonesi” Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, pp. 434-435.

Il 10 del mese di Loos: siamo nell’agosto del 70, poco più di quarant’anni dopo la predizione di Gesù. Non era quindi ancora passata la generazione dei suoi contemporanei.  

Appendice: “Ecco, la vostra casa vi sarà lasciata deserta!”.

Il capitolo 23 del vangelo di Matteo, quello che precede il discorso “escatologico”, è occupato dalla grande invettiva di Gesù contro gli scribi e i farisei. Un’invettiva che si conclude con i versetti 37-39:

“Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono inviati: quante volte ho voluto radunare i tuoi figli come la gallina raccoglie i pulcini sotto le sue ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa vi sarà lasciata deserta! Perché io vi dico: non mi vedrete più fino a quando diciate: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”.

Ebbene, anche questa predizione di Gesù trova un riscontro nelle pagine di Flavio Giuseppe. Ecco cosa scrive lo storico ebreo nel capitolo VI, 5, 3 della Guerra giudaica:

“Così il popolo fu allora abbindolato da ciarlatani e da falsi profeti, senza più badare né prestar fede ai segni manifesti che preannunziavano l’imminente rovina. Quasi fossero stati frastornati dal tuono e accecati negli occhi e nella mente, non compresero gli ammonimenti del dio, come quando sulla città apparvero un astro a forma di spada e una cometa che durò un anno, o come quando, prima che scoppiassero la ribellione e la guerra, essendosi il popolo radunato per la festa degli Azimi nell’ottavo giorno del mese di Xanthico, all’ora nona della notte l’altare e il tempio furono circonfusi da un tale splendore, che sembrava di essere in pieno giorno, e il fenomeno durò per mezz’ora: agli inesperti sembrò di buon augurio, ma dai sacri scribi fu subito interpretato in conformità di ciò che accadde dopo. Durante la stessa festa, una vacca che un tale menava al sacrificio partorì un agnello in mezzo al sacro recinto; inoltre, la porta orientale del tempio, quella che era di bronzo e assai massiccia, sì che la sera a fatica venti uomini riuscivano a chiuderla, e veniva sprangata con sbarre legate in ferro e aveva dei paletti che si conficcavano assai profondamente nella soglia costituita da un blocco tutto d’un pezzo, all’ora sesta della notte fu vista aprirsi da sola. Le guardie del santuario corsero a informare il comandante, che salì al tempio e a stento riuscì a farla richiudere. Ancora una volta questo parve agli ignari un sicurissimo segno di buon augurio, come se il dio avesse spalancato a loro la porta delle sue grazie; ma gli intenditori compresero che la sicurezza del santuario era finita di per sé e che l’aprirsi della porta rappresentava un dono per i nemici, e pertanto interpretarono in cuor loro il prodigio come preannunzio di rovina. Non molti giorni dopo la festa, il ventuno del mese di Artemisio, apparve una visione miracolosa cui si stenterebbe a prestar fede; e in realtà, io credo che ciò che sto per raccontare potrebbe apparire una favola, se non avesse da una parte il sostegno dei testimoni oculari, dall’altra la conferma delle sventure che seguirono. Prima che il sole tramontasse, si videro in cielo su tutta la regione carri da guerra e schiere di armati che sbucavano dalle nuvole e circondavano le città. Inoltre, alla festa che si chiama la Pentecoste, i sacerdoti che erano entrati di notte nel tempio interno per celebrarvi i soliti riti riferirono di aver prima sentito una scossa e un colpo, e poi un insieme di voci che dicevano: «Da questo luogo noi ce ne andiamo»”.

 

[1] La traduzione di Tacito qui utilizzata è quella a cura del Progetto Ovidio: http://www.progettovidio.it/tacitoopere.asp

Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Recent Posts
Sponsor