Ho appena finito di leggere “La città di Dio”[1] di S. Agostino. L’impressione che ne ho tratto è ovviamente straordinaria. Si tratta di uno dei monumenti più belli, importanti e profondi della teologia cattolica. L’autore ha una padronanza strepitosa delle questioni filosofiche e teologiche, anche di quelle più ardue, come l’origine del mondo e della creazione. In certi punti, anche un gigante come Platone, al suo confronto, fa la figura di uno scolaretto. S. Agostino era un santo e, nello stesso tempo, un genio: una combinazione rarissima.
Detto questo, vorrei aggiungere che, a mio parere, il suo limite risiede nella trattazione delle questioni escatologiche. Anche, ma non solo, quelle riguardanti l’esegesi dell’Apocalisse. Per far capire cosa intendo riporto a seguire due passaggi riguardanti proprio le due bestie dell’Apocalisse (i grassetti sono miei):
“Le parole che seguono: E quelli che non adorarono la bestia né la sua immagine, e non ricevettero il marchio sulla fronte o sulla mano, dobbiamo intenderle sia dei vivi che dei morti. Sebbene si richieda uno studio molto diligente per capire quale sia questa bestia, non è contrario alla retta fede, ritenere che essa è la città empia, il popolo degli infedeli, nemico del popolo fedele e della città di Dio. La sua immagine, mi sembra di vederla nella simulazione di quegli uomini che professano la fede, ma vivono da infedeli. E ciò perché essi fingono di essere quello che non sono e si chiamano cristiani senza portarne la vera immagine, ma una falsa” (pp. 1219-1220).
E ancora:
“Dopo il racconto dell’ultima persecuzione, Giovanni riassume brevemente tutto ciò che nell’ultimo giudizio il diavolo e con lui la città nemica dovranno soffrire. Dice infatti: Il diavolo che li seduceva fu gettato nello stagno di fuoco e di zolfo, dove erano stati precipitati anche la bestia e il falso profeta; lì saranno tormentati giorno e notte per i secoli dei secoli. Che «la bestia» designi la città degli empi, l’abbiamo già detto più sopra. Il «falso profeta» o è l’anticristo, o quell’immagine, ossia quelle false sembianze di cui abbiamo da poco parlato” (p. 1228).
Ricordiamo che la bestia menzionata nella prima citazione è la bestia “che viene dal mare” mentre il “falso profeta” è la seconda bestia, quella che viene “dalla terra”.
Quindi, per S. Agostino, la prima bestia dell’Apocalisse non è l’anticristo escatologico, come ritengono comunemente gli escatologisti “classici”, ma la città empia, quella di cui tratta in tutto il corso della “Città di Dio”. Dunque, secondo lui, questa bestia non è un individuo in carne ed ossa, che dovrà comparire solo alla fine del mondo, ma un’entità collettiva che risale ai primordi dell’umanità e che permarrà su questa terra fino al giudizio universale. Questa impostazione che, ne sono sicuro, avrà deluso molti escatologisti radicali, verrà ripresa nel 20° dall’illustre esegeta domenicano Padre Ernest Bernard Allo nel suo interessante commento (purtroppo a quanto pare dimenticatissimo dagli esegeti contemporanei) dell’Apocalisse.
Non basta. L’illustre Padre della Chiesa non è nemmeno sicuro che l’anticristo sia la seconda bestia: quest’ultima potrebbe anche incarnare gli “infedeli”. Questa insicurezza, davvero inusitata in un’opera generalmente granitica, dimostra che S. Agostino ha ricevuto dai suoi predecessori il concetto di anticristo non come una dottrina canonica e vincolante (quale, ad esempio, la dottrina sull’eternità delle pene per i dannati o l’eternità della visione beatifica per i santi in Paradiso) ma come una materia opinabile (che infatti S. Agostino ha opinato al punto da destabilizzare le certezze di certi suoi predecessori).
Questa mi sembra un’indubbia contraddizione da parte del santo di Ippona: da un lato, si dice certo che l’ultima persecuzione prima della fine del mondo sarà opera dell’anticristo, dall’altro, però, non sa nemmeno se questo anticristo corrisponda ad una delle due bestie autrici della persecuzione.
C’è anche un altro passaggio della “Città di Dio”, sempre relativo al tema della fine del mondo, che non mi ha convinto: quello in cui S. Agostino cita la seconda lettera di S. Paolo ai Tessalonicesi e gli Atti degli Apostoli. Anche qui riporto a seguire il brano di S. Agostino:
“È certo che Gesù stesso porrà termine con la sua presenza all’ultima persecuzione che sarà opera dell’anticristo. Sta scritto infatti che lo ucciderà con il soffio della sua bocca e lo annichilerà con lo splendore della sua presenza[2]. Qui si è soliti domandare: «Quando avverrà ciò?». Questione del tutto inutile. Se la conoscenza di questo ci poteva giovare, chi meglio del Maestro divino avrebbe potuto rivelarlo ai discepoli quando glielo domandarono? Essi infatti non ne tacquero con lui, ma gli chiesero espressamente: Signore, lo ricostruirai ora il regno d’Israele? Ed egli: Non sta a voi sapere i tempi e i momenti che il Padre si è riservato in suo potere[3]. E quando ebbero questa risposta non avevano chiesto né dell’ora né del giorno, né dell’anno, ma soltanto dell’epoca. Invano quindi noi ci sforziamo di calcolare e di stabilire gli anni che rimangono ancora a questo mondo, quando sentiamo dalla bocca della verità che non sta a noi conoscere tali cose” (pp. 1120-1121).
Qui S. Agostino sostiene che Gesù, parlando della “ricostruzione del regno di Israele”, si riferisce parimenti alla fine del mondo. Evidentemente, S. Agostino è stato indotto a questa conclusione dal fatto che Gesù in quell’occasione non volle rivelare “I tempi e i momenti che il Padre si è riservato in suo potere”. Ma è tutto da provare che Gesù associasse la “ricostruzione del regno” alla fine del mondo. Ad esempio, ecco cosa leggiamo in Matteo 16, 27-28:
“Poiché il Figlio dell’Uomo deve venire nella gloria del Padre suo con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo il suo operato. In verità vi dico: ci sono alcuni tra i qui presenti che non gusteranno la morte prima d’aver veduto il Figlio dell’uomo venire col suo regno”[4].
Così commenta il predetto versetto il noto esegeta mons. Salvatore Garofalo: “Allusione alla fine di Gerusalemme”[5].
Quindi, alla luce di Matteo 16, 27-28 (e di Matteo 10, 23) che cosa vieta di ritenere che anche il riferimento al regno di Israele in Atti 1, 6 sia legato alla fine di Gerusalemme (invece che alla fine del mondo)? Gli Apostoli parlarono di “ricostruzione” o di “ripristino” del regno perché le autorità giudaiche avevano violato e conculcato il regno del Figlio dell’uomo mettendo a morte Gesù. Una colpa che pagheranno con la presa e la distruzione di Gerusalemme da parte dei Romani. A me sembra che la domanda fatta dagli Apostoli a Gesù in Atti 1, 6 riprenda quella che gli stessi Apostoli gli avevano fatto sul Monte degli Ulivi prima del suo martirio, e che è stata riportata da Matteo nel versetto 24, 3:
“Dicci, quando avverrà questo [la distruzione del Tempio operata dai Romani] e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo?”.
Anche in quell’occasione, Gesù, pur affermando che il castigo sarebbe giunto entro “questa generazione”, la generazione degli ebrei contemporanei degli Apostoli, non volle rivelare il momento preciso:
“Quanto poi a quel giorno e a quell’ora nessuno ne sa nulla, neppure gli angeli dei cieli né il Figlio: lo sa soltanto il Padre” (Matteo 24, 36).
Secondo il preclaro esegeta mons. Francesco Spadafora l’espressione “fine del mondo” andrebbe tradotta più propriamente con “fine dell’era (del Vecchio Testamento)”, perché la fine di Gerusalemme equivalse non alla fine del mondo ma alla fine del mondo antico, del mondo ebraico, inaugurando l’era messianica, che è l’era ultima, come ha scritto s. Giovanni nella sua prima lettera: “Figlioletti, è l’ultima ora”.
La fine di Gerusalemme nel 70 d.C. e l’inizio, visibile e traumatico, del regno messianico furono davvero degli eventi apocalittici e sono stati descritti dagli evangelisti in termini apocalittici, il che ha portato fuori strada molti esegeti, che li hanno confusi erroneamente con la fine del mondo. A tal proposito, è stato proprio S. Agostino, sempre nella “Città di Dio” a fare la seguente acuta considerazione:
“Non parlo delle altre testimonianze che sembrano riferirsi all’ultimo giudizio, ma che, considerate attentamente, appaiono ambigue, o da riferirsi ad altro, per esempio alla venuta del Salvatore che si realizza nella sua Chiesa – ossia alle sue membra, in ciascuna in particolare e progressivamente –, poiché la Chiesa è il suo corpo mistico; oppure potrebbe[ro] anche applicarsi alla distruzione della Gerusalemme terrena, poiché, parlando di essa, ne parla quasi sempre come se si riferisse alla fine del mondo e al grande giorno del giudizio, tanto che non se ne può comprendere bene il senso se non si confrontano i passi dei tre evangelisti Matteo, Marco e Luca. Difatti l’uno espone le cose in modo più oscuro, l’altro in un modo più comprensibile, e così, paragonandole, appare con maggiore chiarezza dove sono le affermazioni relative ad un medesimo soggetto. È quanto cercai di spiegare in una mia lettera intitolata La fine del mondo, lettera che indirizzai ad un uomo di santa memoria, Esichio, vescovo di Salona” (p. 1202).
[1] S. Agostino, La città di Dio, Edizioni Paoline, Roma 1979.
[2] 2Tess. 2, 8.
[3] At 1, 6.
[4] La Sacra Bibbia, tradotta dai testi originali e commentata, a cura e sotto la direzione di mons. Salvatore Garofalo, Marietti, 1966, p. 40.
[5] Ibidem.
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