Nei giorni scorsi, leggendo La città di Dio di S. Agostino[1], mi sono posto il problema della tradizione orale degli Apostoli di Gesù: un vecchio articolo (del 2007) di SÌ SÌ NO NO, il noto quindicinale cattolico antimodernista, sosteneva che la tradizione orale si cristallizzò negli scritti dei Padri della Chiesa, ed è giunta quindi ininterrotta fino a noi[2].
Ma le cose non stanno esattamente così, altrimenti S. Agostino non avrebbe parlato dei passi oscuri della Scrittura. Ad esempio, ecco cosa dice il santo di Ippona a proposito dell’Apocalisse (grassetti miei):
“Nell’Apocalisse vi sono veramente molti passi oscuri per esercitare la mente di chi legge, ma ve ne sono altri la cui evidente chiarezza permette – come se fossero le tracce di una pista – di scoprire, sia pure con sforzo, anche quelli oscuri, specialmente perché Giovanni ripete tante volte le stesse cose in un modo che sembra dica cose diverse, mentre invece si comprende che parla sempre delle medesime, in modo differente” (p. 1235).
Agostino scriveva tra il IV e il V secolo dell’era cristiana: dunque già in quell’epoca il significato dell’Apocalisse non era più inequivocabilmente chiaro ma doveva essere faticosamente ricostruito non solo con i dati della tradizione ma anche con il ragionamento.
Ma c’è un passo di S. Agostino ancora più eloquente, quello in cui commenta la seconda lettera ai Tessalonicesi di S. Paolo, incentrata sull’apparizione dell’”iniquo” (che la maggioranza degli esegeti identifica nell’anticristo escatologico)[3]:
“Le parole e voi ben conoscete l’impedimento attuale significano: sapete bene che cosa è che lo fa ritardare, sapete qual è la causa del suo ritardo affinché egli non si manifesti che nel tempo assegnatogli. Avendo detto che lo sapevano non l’ha più ripetuto lui apertamente. Ma noi, che ignoriamo quello che essi sapevano, desideriamo giungere, sia pur con fatica, a comprendere quello che pensava l’Apostolo; però non vi riusciamo, specialmente perché le parole che aggiunge rendono il testo ancora più oscuro. Che cosa significa, infatti, l’espressione: Il mistero di iniquità già esercita la sua azione funesta, solo che c’è chi attualmente lo trattiene fino a quando non venga tolto di mezzo. E allora l’iniquo si manifesterà? Confesso che lo ignoro. Non tacerò tuttavia le supposizioni fatte dagli autori e che ho potuto ascoltare o leggere… Alcuni dunque interpretano in un modo e altri in un altro le parole oscure dell’Apostolo” (pp. 1239-1241).
Sant’Agostino confessa così di ignorare il significato di un brano cruciale della seconda lettera ai Tessalonicesi di san Paolo (a differenza dei destinatari della lettera, che dovevano ben conoscere il suo significato avendolo appreso dalla viva voce dell’Apostolo) e ammette che la Chiesa della sua epoca, per interpretare il predetto brano, era costretta a fare delle supposizioni.
La domanda è: quando si è interrotta la tradizione orale degli Apostoli, visto che le difficoltà in cui si imbatté S. Agostino costituiscono la prova provata che ad un certo punto tale tradizione si è interrotta?
Voglio riportare adesso un brano di un Padre della Chiesa molto più antico di S. Agostino: S. Ireneo di Lione, che visse e operò nel secondo secolo dell’era cristiana. Il brano in questione è tratto dall’opera Contro le eresie e riguarda l’identità del misterioso personaggio dell’Apocalisse che si cela sotto il fatidico numero 666 (quello che contraddistingue la “bestia che viene dal mare”) e che secondo S. Ireneo corrisponde all’anticristo escatologico (grassetti miei):
“Invece TEITAN (=titano) è il nome che secondo noi merita maggiore attenzione. Esso infatti è composto di sei lettere con sillabe di tre lettere ciascuna (6X3) e insieme è un nome antico e lontano, perché nessun re dei nostri tempi s’è chiamato Titano e nessuno degli idoli pubblicamente adorato dai Greci o dai barbari ha questo nome. Inoltre esso è ritenuto divino da molti, così che da alcuni contemporanei Titano è chiamato anche il sole e insieme contiene una nozione di vendetta per cui pare che debba vendicare i maltrattati. D’altra parte è antico e verosimile, è nome di re o meglio di tiranno. Per tutti questi motivi il nome Titano ha tanta verosimiglianza da farci supporre che l’Anticristo si chiamerà Titano. Ma noi non ci arrischiamo ad affermare che senz’altro avrà questo nome. Se fosse stato opportuno che al nostro tempo fosse annunziato apertamente il suo nome, esso sarebbe stato certamente espresso dal veggente dell’Apocalisse, il quale visse non molto tempo fa, quasi nel nostro secolo, alla fine del regno di Domiziano”[4].
Ad onta del fatto di avere avuto un’importanza cruciale sull’esegesi successiva dell’Apocalisse (innanzitutto per la datazione fornita da S. Ireneo, datazione che gli esegeti preteristi hanno peraltro confutato con argomenti convincenti) il brano testé citato dimostra che anche S. Ireneo, già nel secondo secolo, era costretto a fare delle congetture e che non conosceva più quello che presumibilmente conoscevano i discepoli del veggente di Patmos quando costui mise per iscritto l’Apocalisse.
A questo punto mi sembra opportuno riproporre quanto, sul problema della tradizione orale, scrisse più di mezzo secolo fa mons. Francesco Spadafora nel suo libro più importante e coraggioso: Gesù e la fine di Gerusalemme e l’escatologia in San Paolo, libro incentrato sul cosiddetto “discorso escatologico” di Gesù (riportato dai vangeli sinottici nei capitoli Matteo 24, Marco 13, e Luca 21):
“Ci rimane da risolvere una obbiezione, che, penso, sorgerà spontanea in molti: se il testo permette una tale esegesi[5] – dirò l’esige -, come mai da secoli è stato sempre spiegato della fine di Gerusalemme e della fine del mondo? All’inizio ho dato uno schizzo, sia pure incompleto, dell’esegesi cattolica. All’età patristica – che è la più significativa – domina la più grande divergenza nell’interpretazione. Questo dimostra che la tradizione orale dell’insegnamento apostolico s’era già perduta e che la esegesi degli evangeli non era più facile per i Padri, i quali erano portati a dare ai termini greci dei tre sinottici quel senso che era abituale nella loro cultura, ma che non teneva conto dell’ambiente aramaico in cui erano sorti o che per lo meno rispecchiavano fedelmente”[6].
Spadafora è stato non solo il più importante esegeta italiano della seconda metà del Novecento ma anche uno dei più illustri esponenti del tradizionalismo cattolico. Eppure, il suo libro più importante risulta tuttora indigesto presso i cattolici tradizionalisti, visto che non viene mai citato. Una vera “pietra d’inciampo”.
[1] S. Agostino, La città di Dio, Edizioni Paoline, Roma 1979.
[2] https://www.sisinono.org/anno-2007.html?download=157:28-febbraio-2007
[3] 2Tess. 2, 1-12
[4] S. Ireneo di Lione, Contro le eresie, volume secondo, Edizioni Cantagalli, Siena 2019, p. 245.
[5] Quella secondo cui il “discorso escatologico” di Gesù non parla della fine del mondo ma solo della fine di Gerusalemme.
[6] Francesco Spadafora, Gesù e la fine di Gerusalemme e l’escatologia in San Paolo, Edizione 2017 a cura di Andrea Carancini, pp. 109-110.
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