LA TRATTATIVA
Di Vincenzo Vinciguerra
La trattativa Stato-mafia c’è stata.
Può lo Stato italiano trattare con un potere criminale? Certo, se a questo potere criminale lo Stato ha delegato fin dall’estate del 1943 il controllo dell’ordine pubblico e il sostegno a quello politico, facendone uno dei pilastri di questa democrazia.
Poi, dalla metà degli anni Ottanta il rapporto di collaborazione fra Stato e mafia ha iniziato a incrinarsi non solo – e non tanto – per le confessioni di Tommaso Buscetta quanto per la determinazione di magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ben decisi a fronteggiare, per la prima volta nella storia della magistratura siciliana, il fenomeno mafioso visto come nemico della società civile prima ancora che dello Stato.
Abituati ad una impunità pressoché assoluta, garantita da partiti politici (primo la Democrazia cristiana), da forze di polizia, servizi segreti e magistratura, dinanzi ad arresti e condanne i mafiosi reagiscono male.
Il rapporto s’incrina ma da entrambi i lati si vuole evitare la rottura perché lo Stato e la politica hanno bisogno della mafia e la mafia necessita della copertura e del sostegno dello Stato e della politica.
S’inizia, pertanto, a studiare un piano che permetta di salvaguardare i rapporti, di lasciare tutto come prima, facendo apparire pubblicamente che tutto è cambiato.
Un piano ingegnoso che non può essere stato studiato ed attuato da ufficiali dei carabinieri e da funzionari di polizia.
Altri, a ben più elevato livello dei Mori e colleghi, offrono alla mafia una via d’uscita: concordare insieme la vittoria dello Stato sull’anti-Stato per poi, segretamente, ristabilire l’ordine precedente.
Non è una mera ipotesi, un esercizio di dietrologia per accusare Stato e mafia insieme, ma un fatto di cui parleremo tra poco.
Ho conosciuto Pino Gaeta, capo mafia di Termini Imerese, nel 1993, all’interno della sezione As-41 bis del carcere di Parma.
Era un uomo amareggiato alla ricerca di una via per uscire dal carcere quanto prima.
Ne parlavamo insieme, ma i sette anni di condanna per associazione mafiosa poteva scalarli solo con la liberazione anticipata, senza poter usufruire di altri benefici di legge.
Così, un giorno, mi raccontò il motivo della sua amarezza: era latitante negli Stati Uniti quando a lui, come ad altri, da Palermo giunse l’ordine di costituirsi, con la assoluta garanzia che non avrebbe fatto più di due anni di carcere e poi sarebbe tornato libero.
In questo modo, Cosa nostra fingeva di essere stata sconfitta dallo Stato chiedendo ai suoi affiliati latitanti di pagare un prezzo tutto sommato minimo.
La promessa, però, non era stata mantenuta.
E Pino Gaeta mi dice: “Quando esco qualcuno mi dovrà dare spiegazioni”.
Da mafioso serio, Gaeta non farà nomi, ma, dopo la scarcerazione, le spiegazioni a qualcuno le ha chieste, forse non le ha nemmeno pretese ma la risposta è stata di piombo. Lo hanno, difatti, ucciso.
Non ricordo da quanto tempo Pino Gaeta si trovasse in carcere ma certamente da un paio di anni.
La trattativa, quindi, non era iniziata dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio con lo scopo di evitarne altre, ma prima con ben altri fini, condotta da persone talmente autorevoli e credibili da indurre i capi mafiosi ad ordinare ai latitanti di costituirsi.
Un do ut des fra uomini dello Stato e della politica ad altissimo livello e i mafiosi ai quali è stato chiesto il sacrificio di mandare in carcere uomini propri e forse non solo quello perché i motivi della uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino rimangono ancora sconosciuti.
Non è stato certo Bruno Contrada a fare carriera fino a giungere al terzo posto d’importanza nel Sisde collaborando con la mafia; e non è stato il solo Arnaldo La Barbera a depistare le indagini sulla strage di via D’Amelio, entrambi senza interessi finanziari personali.
Non erano corrotti.
Erano i rappresentanti di uno Stato corrotto i cui vertici sono sempre stati intoccati e intoccabili.
La domanda, infine, è questa:
Forse, a fissare una data, sia pure approssimativa, si potrà anche riscrivere qualche pagina o scriverne qualcuna ancora inedita, inserire il nome di qualcuno che l’ha fatta franca o di qualcuno che non è mai stato sfiorato dal sospetto.
A determinare la data d’inizio di una storia tragica, si potrà magari un giorno scriverne la parola fine.
Opera, 13 settembre 2022
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