Roma, anno 35 del primo secolo dell’era cristiana: l’imperatore Tiberio propone in Senato – l’organo che in età giulio-claudia aveva la facoltà di decidere se accogliere nuove divinità – di legalizzare la religione cristiana e di riconoscere Gesù come dio. Il Senato si oppone e definisce il Cristianesimo come superstitio illicita, i cui membri sono passibili di morte. Tiberio, però, avvalendosi della tribunicia potestas, pone il veto alla persecuzione legale dei cristiani, che non verrà messa in atto prima di Nerone.
Dunque, a quanto pare, Gesù era adorato come Dio già negli anni ’30 del primo secolo: una notizia clamorosa, solitamente passata sotto silenzio dagli storici i quali, le rare volte che l’hanno menzionata l’hanno liquidata come “apologetica”.
Sono state Marta Sordi e Ilaria Ramelli a disseppellire questa storia straordinaria. L’indagine della Sordi comincia dall’Apologia di Giustino di Nablus, il quale, intorno alla metà del secondo secolo, scrive – rimandando agli archivi imperiali – che Pilato inviò a Tiberio una relazione su Gesù.
Poi c’è Tertulliano, il quale scrive che Tiberio “«trasmise al Senato, dando per primo il suo voto favorevole, tutto quanto gli era stato comunicato dalla Siria Palestina e che dimostrava la verità della divinità di Gesù. Il Senato» aggiunge Tertulliano «non avendo esso stesso verificato questi fatti votò contro»”[1].
Ma quando seppe Tiberio dell’esistenza di Gesù? L’arrivo a Roma della relazione di Pilato è datato precisamente al 35 (lo sappiamo dal Chronicon di Eusebio tradotto da Girolamo e dal Chronicon Paschale): sono appunto Giustino e Tertulliano ad accennare a questa relazione che, come scrive la prof. Sordi, non va confusa “con i falsi leggendari elaborati in età tarda e giunti fino a noi”[2].
La prof. Sordi, a questo proposito, precisa:
“è probabile che questa relazione, a cui gli autori cristiani del II secolo facevano appello, fosse effettivamente favorevole ai cristiani e che mettesse in rilievo l’inesistenza nella nuova fede di pericoli di natura politica…Informato sugli sviluppi della situazione in Giudea, Tiberio decise di intervenire: in effetti la notizia di una nuova «setta» giudaica, osteggiata dalle autorità ufficiali, ma accolta da una parte del popolo, la cui diffusione eliminava nel messianismo ogni violenza politica e antiromana e ne accentuava invece il carattere religioso e morale, non poteva che interessare Tiberio, la cui principale ambizione era quella…di risolvere le controversie esterne consiliis et astu, con l’astuzia e l’abilità diplomatica, piuttosto che con le armi e la repressione”.
E in effetti, Tiberio intervenne: negli anni 36-37, il plenipotenziario di Tiberio, Lucio Vitellio, depone sia Caifa che Pilato.
La notizia del senatoconsulto tiberiano riferita da Tertulliano non è un’invenzione dell’apologista africano ma deriva a lui dagli Atti del processo a carico del senatore cristiano Apollonio (183 d.C.) “che fu messo a morte per cristianesimo «in base ad un senatoconsulto» — dice Eusebio (H.E. V, 21, 4)”[3].
E poi, come osserva Ilaria Ramelli, Tertulliano non avrebbe avuto interesse a inventare la condanna del Senato, “che oltretutto i suoi destinatari – i Romani imperii antistites, che avevano accesso agli atti di età tiberiana – avrebbero potuto smentire”[4].
Ma a sostegno della storicità del senatoconsulto del 35 non ci sono solo i passi dei due apologisti cristiani del II secolo: la prof. Ramelli ha portato più volte all’attenzione degli studiosi l’esistenza di un frammento del filosofo neoplatonico Porfirio di Tiro (233-305), che si trova inserito nell’Apocritus di Macario di Magnesia (II, 14), in cui Porfirio si riferisce certamente all’età tiberiana, e in cui polemizza con gli apologisti cristiani della sua epoca. Ecco il testo di Porfirio:
“Perché Gesù, dopo la passione, secondo il vostro racconto, e la resurrezione, non apparve a Pilato, che lo aveva punito, e pure diceva che egli non aveva commesso nulla che fosse degno di morte, o a Erode, il re dei Giudei, o al sommo sacerdote della ‘fratria’ giudaica, o a molti uomini contemporanei e degni di fede, e soprattutto al Senato e al popolo di Roma, onde essi, stupiti dei suoi prodigi, non potessero, con un senatoconsulto unanime [dogmati koino(i)], emettere sentenza di morte, sotto accusa di empietà, contro coloro che erano obbedienti a lui. Ma egli apparve a Maria Maddalena, una donna del volgo…che era stata posseduta da sette demoni, e con lei a un’altra Maria, del tutto oscura e anch’essa donna rustica, e a poche altre persone non certo note…Se egli, infatti, si fosse rivelato a uomini ragguardevoli, per loro tramite tutti avrebbero creduto e nessun giudice li avrebbe puniti come inventori di racconti assurdi. Perché non piace certo a Dio, ma neppure ad un uomo assennato, che molti siano esposti per colpa sua a pene della peggiore specie”[5].
A parlare della proposta di Tiberio e del conseguente rifiuto del Senato è anche lo storico armeno del V secolo Mosè di Corene, che attinge la notizia da Tertulliano aggiungendo un dato non derivato da Tertulliano: l’epistolario intercorso, proprio nell’epoca della missione di Vitellio in Oriente, fra Tiberio e Abgar “il Nero”, toparca di Edessa. L’epistolario in questione si trova nella Doctrina Addai.
In queste lettere Abgar esorta Tiberio a intervenire contro i Giudei, per punire i responsabili della crocifissione di Gesù e Tiberio risponde di aver già provveduto alla deposizione di Pilato, riservandosi di intervenire contro i Giudei una volta risolti i problemi con i «figli di Spagna», ossia con gli Iberi del Caucaso, alleati di Tiberio contro i Parti negli anni del mandato di Vitellio.
Il fatto che Abgar e Tiberio parlino di Gesù significa che già alla metà degli anni 30 la fama di Gesù era arrivata non solo a Roma ma anche a Edessa: quindi aveva superato gli estremi confini orientali dell’Impero romano. Non c’è male per un personaggio definito talvolta ancora oggi quale “ebreo marginale”!
Sull’atteggiamento di Tiberio nei confronti dei cristiani, il giudizio di Ilaria Ramelli collima con quello di Marta Sordi:
“…la proposta di consecratio da parte di Tiberio ha un significato politico che si collega con la situazione della Palestina: l’intento di sancire la liceità di questa hairesis giudaica che non infastidiva i Romani, garantendole lo stesso statuto del Giudaismo, concorda con la linea seguita da Tiberio in Palestina e attuata da Vitellio, cui si erano attenuti i Romani fin dalla creazione della provincia, con i Samaritani sottratti alla tutela giudaica e portati ad assicurare la propria fedeltà a Roma”[6].
Quindi, in conclusione, la storicità del senatoconsulto del 35 dimostra che il Cristo delle fede non è una rielaborazione tardiva della comunità primitiva, come amano ripetere gli studiosi razionalisti (e miscredenti), ma è già realtà all’indomani della crocifissione. I Vangeli e gli Atti degli apostoli hanno detto la verità. Il Cristo della fede e il Gesù della storia sono la stessa persona:
“Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». Rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!»”[7].
[1] Antonio Socci, La guerra contro Gesù, Rizzoli, Milano 2011, p. 138.
[2] Marta Sordi, I cristiani e l’impero romano, Jaca Book, Milano 2006, p. 25.
[3] Ivi, p. 28.
[4] Ennio Innocenti e Ilaria Ramelli, Gesù a Roma, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma 2006, p. 280.
[5] Ivi, pp. 281-282.
[6] Ivi, p. 286.
[7] https://www.maranatha.it/Bibbia/5-VangeliAtti/50-GiovanniPage.htm
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