Oggi parlerò del rapporto che esiste tra il capitolo 21 del Vangelo di Luca e la Guerra giudaica di Flavio Giuseppe.
Il capitolo 21 del Vangelo di Luca è quello riguardante la celebre profezia di Gesù sulla distruzione del tempio di Gerusalemme, e il rapporto che lega questo brano all’opera di Flavio Giuseppe è dato dal fatto che quest’ultimo testimonia, sin nei particolari, la realizzazione della profezia di Gesù.
Come è noto, gli studiosi razionalisti negano il carattere di profezia ai Vangeli sinottici quando questi riferiscono le parole di Gesù sulla fine di Gerusalemme e del suo tempio: secondo costoro, si tratta di “profezie ex eventu”, scritte molti anni dopo la fine di Gerusalemme e adattate a quello che era stato l’esito della guerra giudaica.
In questo post parlerò solo del Vangelo di Luca e non degli altri sinottici perché solo nel capitolo 21 di Luca vi è il riferimento a quei “fatti terrificanti e segni grandi dal cielo” di cui parlerà diffusamente Flavio Giuseppe.
In un precedente post, avevo scritto che il Vangelo di Luca è stato scritto molto tempo prima del 70 d.C., l’anno in cui Gerusalemme viene espugnata dalle truppe romane. Oggi, prima di mettere a confronto il testo di Luca con quello di Flavio Giuseppe, aggiungerò un ulteriore argomento a sostegno del fatto che il capitolo 21 di Luca non è una “profezia dall’evento”. Leggiamo cosa scrive Luca nei versetti 20, 21 e 22 del capitolo 21:
“Ma quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, sappiate allora che la sua devastazione è vicina. Allora coloro che si trovano nella Giudea fuggano ai monti, coloro che sono dentro la città se ne allontanino, e quelli in campagna non tornino in città; saranno infatti giorni di vendetta, perché tutto ciò che è stato scritto si compia”.
Che questa non sia una “profezia dall’evento” lo desumiamo dal fatto che i cristiani che vivevano a Gerusalemme nella seconda metà del primo secolo dell’era cristiana non aspettarono che la città venisse circondata dalle truppe romane ma fuggirono prima dell’inizio della guerra (scoppiata nel 66 d.C.). Inoltre, non fuggirono “ai monti”, come l’istruzione di Luca indica, ma si rifugiarono a Pella, una città greca della Decapoli, che si trova sotto il livello de mare sul lato orientale della valle del Giordano.
Quindi, la profezia di Gesù riportata da Luca non è stata adattata ai fatti per come si svolsero effettivamente nel 66 d.C.
La fuga dei cristiani di Gerusalemme a Pella è riportata da Eusebio di Cesarea e da Epifanio di Salamina. Wikipedia riferisce che alcuni studiosi hanno contestato l’attendibilità dell’informazione fornita da Eusebio, con la motivazione che “sarebbe stato impossibile per i giudeo-cristiani poter sventare la vigilanza degli zeloti che controllavano Gerusalemme”: in realtà, prima dell’inizio della guerra non sarebbe stato così impossibile. Proprio Flavio Giuseppe ci informa che la fuga della città divenne impossibile solo a guerra inoltrata:
“Ora che la guerra aveva dilagato nell’intera regione, sui monti e nel piano, quelli di Gerusalemme si videro bloccate tutte le vie d’uscita: chi voleva passare ai romani era impedito dalla sorveglianza degli Zeloti, mentre chi non era ancora diventato filoromano trovava un ostacolo nell’esercito che stringeva la città da ogni parte”[1].
I passi della profezia di Gesù sulla fine di Gerusalemme e del tempio che vorrei evidenziare oggi riguardano l’apparizione dei falsi profeti e i “fatti terrificanti e segni grandi dal cielo”: entrambi vengono testimoniati da Flavio Giuseppe. Riporto quindi le parole di Gesù riferite da Luca e, a seguire, i passi corrispondenti di Flavio Giuseppe nella traduzione di Giovanni Vitucci (i grassetti nel testo sono miei).
Dal capitolo 21 del Vangelo di Luca:
“Mentre alcuni parlavano del tempio e delle belle pietre e dei doni votivi che lo adornavano, disse: «Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta». Gli domandarono: «Maestro, quando accadrà questo e quale sarà il segno che ciò sta per compiersi?».
Rispose: «Guardate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno sotto il mio nome dicendo: “Sono io” e: “Il tempo è prossimo”; non seguiteli. Quando sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate. Devono infatti accadere prima queste cose, ma non sarà subito la fine». Poi disse loro: «Si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno, e vi saranno di luogo in luogo terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandi dal cielo…”.
Dalla Guerra giudaica di Flavio Giuseppe, libro sesto, capitolo quinto:
“E in verità allora, istigati dai capi ribelli, si aggiravano tra il popolo numerosi profeti che andavano predicando di aspettare l’aiuto del dio, e ciò per distogliere la gente dalla diserzione e per far coraggio a chi non aveva nulla da temere da loro e sfuggiva al loro controllo. Nella disgrazia l’uomo è pronto a credere, e quando l’ingannatore fa intravvedere la fine dei mali incombenti, allora il misero s’abbandona tutto alla speranza. Così il popolo fu allora abbindolato da ciarlatani e da falsi profeti, senza più badare né prestar fede ai segni manifesti che preannunziavano l’imminente rovina. Quasi fossero stati frastornati dal tuono e accecati negli occhi e nella mente, non compresero gli ammonimenti del dio, come quando sulla città apparvero un astro a forma di spada e una cometa che durò un anno, o come quando, prima che scoppiassero la ribellione e la guerra, essendosi il popolo radunato per la festa degli Azimi nell’ottavo giorno del mese di Xantico, all’ora nona della notte l’altare e il tempio furono circonfusi da un tale splendore, che sembrava di essere in pieno giorno, e il fenomeno durò per mezz’ora: agli inesperti sembrò di buon augurio, ma dai sacri scribi fu subito interpretato in conformità di ciò che accadde dopo. Durante la stessa festa, una vacca che un tale menava al sacrificio partorì un agnello in mezzo al sacro recinto; inoltre, la porta orientale del tempio, quella che era di bronzo e assai massiccia, sì che la sera a fatica venti uomini riuscivano a chiuderla, e veniva sprangata con sbarre legate in ferro e aveva dei paletti che si conficcavano assai profondamente nella soglia costituita da un blocco tutto d’un pezzo, all’ora sesta della notte fu vista aprirsi da sola. Le guardie del santuario corsero a informare il comandante, che salì al tempio e a stento riuscì a farla richiudere. Ancora una volta questo parve agli ignari un sicurissimo segno di buon augurio, come se il dio avesse spalancato a loro la porta delle sue grazie; ma gli intenditori compresero che la sicurezza del santuario era finita di per sé e che l’aprirsi della porta rappresentava un dono per i nemici, e pertanto interpretarono in cuor loro il prodigio come preannunzio di rovina. Non molti giorni dopo la festa, il ventuno del mese di Artemisio, apparve una visione miracolosa cui si stenterebbe a prestar fede; e in realtà, io credo che ciò che sto per raccontare potrebbe apparire una favola, se non avesse da una parte il sostegno dei testimoni oculari, dall’altra la conferma delle sventure che seguirono. Prima che il sole tramontasse, si videro in cielo su tutta la regione carri da guerra e schiere di armati che sbucavano dalle nuvole e circondavano la città. Inoltre, alla festa che si chiama la Pentecoste, i sacerdoti che erano entrati di notte nel tempio interno per celebrarvi i soliti riti riferirono di aver prima sentito una scossa e un colpo, e poi un insieme di voci che dicevano: «Da questo luogo noi ce ne andiamo»”[2].
In conclusione, che la profezia di Gesù si sia realizzata in modo impressionante lo si può capire proprio leggendo il libro di Flavio Giuseppe: dai segni premonitori (le guerre “regno contro regno”, i segni del cielo e i “fatti terrificanti”, i falsi profeti) alla catastrofe finale, con l’incendio e la distruzione del tempio da parte delle truppe romane. In questo senso, Flavio Giuseppe può a buon diritto essere considerato un testimone di Gesù, anche se non era cristiano.
[1] Flavio Giuseppe, La guerra giudaica, Oscar Classici Mondadori, Milano 1991, p. 319.
[2] Flavio Giuseppe, op. cit., pp. 439-441.
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