QUELLO CHE I TEDESCHI SAPEVANO[1]
Di Panagiotis Heliotis, 2018
Un’altra importante questione riguardante l’Olocausto è la conoscenza di esso da parte dell’opinione pubblica tedesca, sia che si tratti di civili che di soldati. Cosa sapevano i tedeschi? Due ricercatori, lo storico Eric A. Johnson e il sociologo Karl-Heinz Reuband, iniziarono a cercare risposte nel 1993. Dopo quasi 3,000 resoconti scritti e 200 interviste il risultato è stato il libro What We Knew: Terror, Mass Murder, and Everyday Life in Nazi Germany (Basic Books, 2006) (“Quello che sapevamo: il terrore, lo sterminio e la vita quotidiana nella Germania nazista”). È ora di esaminare le loro scoperte, così preparatevi cari lettori perché questo sarà un lungo viaggio! Ecco i contenuti del libro:
Ringraziamenti
Introduzione
Parte prima: le testimonianze dei sopravvissuti ebrei
- Gli ebrei che lasciarono la Germania prima della Notte dei Cristalli
- Gli ebrei che lasciarono la Germania dopo la Notte dei Cristalli
- Gli ebrei che vennero deportati dalla Germania durante la guerra
- Gli ebrei che si nascosero
Parte seconda: le testimonianze dei “tedeschi ordinari”
- La vita quotidiana e la scarsa conoscenza dello sterminio
- La vita quotidiana e le voci sullo sterminio
- Le testimonianze sullo sterminio e la partecipazione a esso
Parte terza: i risultati dell’indagine sugli ebrei sopravvissuti
- La vita quotidiana e l’antisemitismo
- Il terrore
- Lo sterminio
Parte quarta: i risultati dell’indagine sui “tedeschi ordinari”
- La vita quotidiana e il sostegno al nazionalsocialismo
- Il terrore
- Lo sterminio
Conclusione: cosa sapevano?
Gli autori non hanno intervistato solo tedeschi ma anche ebrei, includendo complessivamente 20 interviste per ogni gruppo, cambiando i nomi degli intervistati per salvaguardare il loro anonimato. Così apriamo il libro e chiediamo: cosa sapevate sullo sterminio degli ebrei?
Gli ebrei
Iniziamo con Margaret Leib che, prima di fuggire negli Stati Uniti nel 1941, venne coinvolta nelle attività della resistenza comunista a Berlino.
“Prima del 1941, non avevi sentito nulla. Tra il 1942 e il 1945, ero già qui [in America]. Arrivai qui con grande difficoltà con mia madre il 12 settembre 1941. Mia madre era andata in Francia subito dopo la morte di mio padre. Mia sorella era più giovane di me di nove anni. Ella venne uccisa. [Mentre] erano ancora a Marsiglia ebbe un figlio. Alla fine ella non poteva dare da mangiare a suo figlio e non volle andare più via. Così portò il figlio in un orfanatrofio. Poi venne catturata durante un raid e inviata in un campo di sosta temporanea a Nancy, e da lì in Polonia e alla camera a gas. Che ella sia stata deportata è qualcosa che so solo dai libri” (p. 13).
Solo dai libri. Non è necessario nessun commento. Poi, è la volta di Henry Singer, che fuggì in Italia nel 1938. Egli non sembra sapere molto poiché fa solo la seguente dichiarazione:
“Non erano solo i tedeschi a odiare gli ebrei. Quasi tutto il mondo odiava gli ebrei. I campi di concentramento – Auschwitz, Dachau, Buchenwald – la Gran Bretagna li conosceva, la Francia li conosceva, gli americani li conoscevano. Avrebbero potuto fare qualcosa riguardo a questo. Avrebbero potuto bombardare i campi perché costoro stavano bruciando i corpi comunque. Ma non lo fecero. Lei sa perché? Perché dissero: ‘Lasciate [fare] Hitler perché sta facendo un buon lavoro per noi uccidendo tutti gli ebrei. Lui si prende la colpa e noi otteniamo quello che vogliamo’. In poche parole è questo, e nessuno mi dirà qualcosa di diverso”.
D’altro canto egli ammette:
“Ma in tutta onestà voglio dire che non tutti i tedeschi erano così cattivi come voi vedete che vengono raffigurati nei film. La maggioranza lo era, ma c’era qualcuno che non lo era. Così non è equo accusarli tutti” (p. 17).
Passiamo ora a Rebecca Weisner che venne inviata ad Auschwitz nell’ottobre 1942 all’età di 16 anni:
“Sapevamo già alla fine di luglio, agosto. Uno venne da questo campo, uno venne da quel campo. In qualche modo sapevamo che queste cose stavano più o meno avvenendo – che c’era Auschwitz e che essi avevano forni a gas per gasare tutte le persone, i bambini e così via. Lo sapevamo” (p. 51).
Ancora una volta, costoro “in qualche modo” sapevano. Ma Ernst Levin che venne parimenti deportato ad Auschwitz nel gennaio 1943 dice qualcosa di più (pp. 73-75):
“Le parole filtravano. Filtrava anche che i trasporti andavano dai ghetti verso l’est. All’epoca si sapeva che questi trasporti andavano direttamente a Treblinka o ad Auschwitz. Terribile, terribile! Ma le persone non volevano parlarne. Quando gli ebrei tedeschi lo seppero, rifiutarono di crederci. Gli stessi ebrei tedeschi dicevano: ‘Questa è propaganda di atrocità. Questo non può essere vero. Dopo tutto, siamo nel ventesimo secolo e noi siamo tedeschi’. Molti di loro ancora si consideravano tedeschi. Non ci credevano soprattutto perché non volevano crederci. Chi può incolparli? A Breslavia i trasporti iniziarono nel 1941. Mia nonna aveva delle sorelle, che vennero inviate tutte in questi trasporti. Queste persone vennero portate via e avevano solo il loro bagaglio. Si lasciarono dietro tutti i loro averi, appartamenti, camere, tutto quello che avevano. C’era qualche vaga diceria che andavano all’est per lavorare. Le sorelle di mia nonna all’epoca avevano sui sessant’anni. Come avrebbero potuto lavorare all’est? C’erano persone malate. ‘Cosa sta succedendo loro?’, si chiedevano. Era molto inquietante, ma non si sapeva nulla di certo. All’epoca nessuno sapeva della camera a gas di Auschwitz. Breslavia aveva una comunità ebraica molto grande, la seconda o terza per grandezza in Germania. I soli ebrei rimasti a Breslavia alla fine del 1942 erano quelli integrati nello sforzo bellico tedesco”.
Egli inoltre aggiunge:
“Ero sull’ultimo trasporto quando Breslavia decise di diventare judenfrei [libera dagli ebrei]. Penso che fosse nel gennaio 1943. Questo tizio tedesco con cui lavoravo – era in realtà un Meister ma non era stato chiamato alle armi perché era già troppo vecchio – a quel punto disse gioiosamente: ‘Na ja, jetzt geht Ihr mal Steine kloppen in Russland!’. [‘Oh, sì, ora andrai a rompere pietre in Russia!]. Pensai che questo dovesse essere il nostro destino. In generale si diceva che saremmo stati ricollocati all’est – a lavorare all’est. Circa quattro settimane prima che salissi sul mio trasporto, c’era un trasporto davanti a me e un mio amico chiamato Helmut salì su quel trasporto. Quel trasporto finiva a Treblinka. In un posto vicino Treblinka, c’era anche un contingente di lavoratori tedeschi, uno dei quali lo avevamo conosciuto. Helmut scrisse una lettera e la diede a quest’uomo e disse: ‘Mandala al mio Ernst’. Ricevetti questa lettera. Non ho mai saputo chi la mandò o come essi la fecero uscire. Egli mi disse in questa lettera che si trovava vicino Treblinka e che ‘hier ist ein Lager, wo die Menschen chemisch behandelt werden’ [‘Qui c’è un campo dove le persone vengono trattate con sostanze chimiche’]. È sorprendente che anche allora egli non disse che venivano gasati. Non è sorprendente? Pensai: ‘Che significa?’. Immaginai che alla fine venne gasato. Egli certamente non sopravvisse. Perciò seppi quattro settimane prima di essere arrestato che qualcosa andava male”.
Così in un luogo di lavoro vicino Treblinka il suo amico Helmut sentì di persone che venivano “trattate” con “sostanze chimiche”. A parte il fatto che egli aveva potuto persino inviare una lettera, questo suona più come una procedura di disinfestazione. Come lo stesso Levin ha pensato, perché egli non disse che venivano gasati?
Passiamo a Ruth Mendel, deportata ad Auschwitz nell’aprile 1943, quando aveva solo 14 anni.
“Come si scoprì, le donne e i bambini che arrivavano ad Auschwitz venivano gasati. Ma noi non lo fummo. Venimmo portate ad Auschwitz e gli altri prigionieri che erano stati lì già sapevano cosa succedeva e ci dissero che la ragione per cui non eravamo state gasate era che loro [le autorità] avevano pensato: ‘Ebbene, moriranno presto comunque, così non vale la pena di introdurre il gas nei treni per così poche persone’. Quando arrivammo, le SS stavano lì con i cani e i guanti bianchi e i frustini in mano e uniformi elegantemente attillate. All’epoca non c’erano selezioni. Venimmo portate nei campi delle donne” (p. 87).
Questo dimostra quanto sciocche le dicerie possano essere. Nonostante la sua età ella venne messa al lavoro a scavare fosse. Ecco cosa ella presuntivamente vide:
“Per tutta quell’estate il crematorio fu in funzione giorno e notte. Durante il giorno era tutto fumo e la notte potevi vedere le fiamme che venivano fuori. Potevi davvero vederle. Le potevi vedere da lontano da interi chilometri. A Birkenau stavo con mia madre tutto il tempo in grandi baracche, dormendo su tavole con tre pezzi di paglia che erano infestati di pidocchi e pulci. Non sarei viva se non fosse stato per mia madre. Il crematorio era in funzione e le fiamme uscivano. Di notte vedevi rosso. Durante il giorno era nero a causa del fumo. C’erano piccoli pezzi, pezzetti di ossa, che volavano dappertutto” (p. 89).
Possiamo esser certi che qui c’è una sorta di licenza poetica. Ed ecco come ella lasciò il campo:
“Ci misero su un treno il 1 novembre 1944. Non avevamo idea di come eravamo state scelte per andare su questo treno. Qualcuno ci disse che non sarebbe andato da nessuna parte – alla fine dei binari c’era il crematorio, a pochi metri di distanza. Ma qualcun altro ci disse: ‘No, andrete in Germania come lavoratrici’. Naturalmente, non ti potevi fidare, ma scoprimmo che era vero” (p. 89).
Ora, è la volta di Helmut Grunewald, che ha dire alcune cose molto interessanti. Nato nel 1918 da padre ebreo e da madre cattolica, venne deportato ad Auschwitz nel marzo 1943. Suo padre era stato arrestato dalla Gestapo nel 1942. Ecco cosa accadde durante l’interrogatorio:
“Tutto questo avvenne sei mesi prima del mio arresto. Ma [quando alla fine venni arrestato] mio padre stava già lì. Mentre veniva interrogato [negli uffici della Gestapo] da Bóttner e da due altri ufficiali, egli disse loro: ‘Non so perché volete interrogarmi. So che verrò inviato ad Auschwitz e gasato lì comunque’. […] Ma allora loro gli dissero: ‘Che genere di storia di atrocità è questa che ci stai dicendo? Cosa ti fa pensare che stanno uccidendo delle persone lì? Come ti sei fatto questa idea?’. ‘Ah, non mi dovete dire questo’, disse mio padre. ‘Lo so. So esattamente cosa succede lì’” (p. 95).
Ma come lo sapeva?
“Mio padre era estremamente ben connesso, anche con circoli non ebraici. Che le persone venivano uccise ad Auschwitz e in Polonia in generale era evidente comunque. Ed era già risaputo che Auschwitz era chiaramente un campo di sterminio” (p. 96).
Cosa ne pensate? Era “evidente”. Ebbene, non importa quanto evidente sia il resto della storia. La Gestapo lo lascia andare!
“Ci credemmo. Sapevamo che era vero. Quando loro gli chiesero: ‘Cosa ti fa dire questo? Cos’è questa assurdità?’, egli rispose loro: ‘Non dovete dirmi nulla. Io lo so. Così perché volete interrogarmi così a lungo?’. Dopo di che, lo rimandarono a casa per dimostrare che tutto questo non era vero, e allora mio padre si rese immediatamente latitante. Andò ad Eifel, nel luogo natale di mio nonno, e si nascose lì” (p. 97).
Passiamo ora a Herbert Klein, deportato a Theresienstadt nel giugno 1943. A differenza di Grunewald, egli sostiene che la comunità ebraica non sapeva degli eccidi. E per quanto riguarda i tedeschi, dice:
“Ma nessuno lo sapeva [che gli ebrei venivano sistematicamente uccisi]. Nessuno lo sapeva perché quando mia sorella venne deportata da Theresienstadt ad Auschwitz, prima di tutto, non sapevamo che era Auschwitz. Sono sicuro che certe cose dovevano essere risapute. Quando i tedeschi dicono che non hanno mai saputo nulla, questa è una menzogna. Si sapeva che Dachau era un campo di concentramento. Si sapeva che uccidevano persone. Si sapeva che Sachsenhausen era un campo di concentramento. Si sapeva di Buchenwald e di molte cose del genere. Così, se qualcuno ha detto che non sapevano nulla di queste cose, si tratta di una menzogna. Ma se dicono che non sapevano in modo specifico che gli ebrei venivano uccisi a milioni in Polonia, questo lo accetto. Anche se è molto difficile da accettare” (p. 107).
La successiva è Hannelore Mahler, deportata a Theresienstadt nel 1944. Interrogata sul quando sentì parlare per la prima volta dello sterminio, ha risposto:
“Più o meno se ne parlava, nel campo. A Berlino, c’era stata una voce in proposito, e ci si domandava sempre se fosse vero o no. Ma nessuno aveva osato dire nulla apertamente al riguardo, così era solo una sorta di supposizione. Questo è il modo in cui ti trovi quando sei in una situazione in cui puoi essere mandato via su un trasporto in qualunque momento. Non ci vuoi credere” (p. 117).
Interloquita ancora una volta, ella ha risposto:
“In effetti, non sapevamo nulla. Certo, dicevamo: ‘Dove sono? Cosa gli è successo? E così via’. Ma questo era tra di noi, e dopo non c’era nessuno rimasto con cui si potesse parlare. Sì, sospettavamo che quelli che erano stati mandati via non erano stati mandati in un sanatorio. Ma, poiché avremmo potuto essere i successivi, o lo eravamo – eravamo praticamente sulla lista dei partenti – non volevamo crederci, perché avremmo potuto essere i successivi. Capite cosa sto cercando di dire? Parlammo molto di questo dopo, retrospettivamente. Retrospettivamente, dicevamo che lo avevamo sospettato e che non ne avevamo parlato durante la guerra. Tutti lo sapevano. Tutti avevano pensato che era così. Ma non volevamo parlarne, perché poteva toccare a te. Quando si sospetta che quelli che erano stati arrestati e portati via – e di loro non si era più sentito parlare – non erano stati mandati in un sanatorio, puoi quasi paragonare questa cosa con qualcuno che sta per essere testato per un cancro. Non se ne parla, anche se tutti sanno di cosa si tratta. Capisci? Non se ne parla” (p. 119).
Quelle successive sono le testimonianze di ebrei che si nascosero e la prima è Ilse Landau, che venne arrestata nel 1943 per aver distribuito volantini a Berlino. Venne inviata ad Auschwitz ma riuscì a fuggire saltando giù dal treno. Le sue risposte meritano di essere riportate integralmente:
“Quando sentì per la prima volta dello sterminio degli ebrei? Fu prima che lei venisse messa sul treno per Auschwitz o dopo?
Avevamo già sentito che altre persone venivano uccise in campi di concentramento più vicini, come Bergen-Belsen e Sachsenhausen. Ne sentimmo parlare molto.
Quando stavate sul treno per Auschwitz, sapevate che stavate andando ad Auschwitz?
Sì.
Cosa sapevate su Auschwitz all’epoca?
Che tutti sarebbero stati gasati. Solo pochi che potevano lavorare [avrebbero potuto sopravvivere]. Dovevano scavare le tombe, cucinare per loro, pulire le tolette, o qualunque cosa che doveva essere fatta come lavoro. A Theresienstadt era lo stesso. Mio padre morì a Theresienstadt, e mia zia vide con i suoi occhi che non avevano nulla da mangiare.
Quando sentì parlare per la prima volta della gasazione degli ebrei e da chi?
Questo non posso dirtelo.
Fu da altri ebrei, o da non ebrei, o dalla radio?
Dalla radio forse. Ma non ascoltavo la radio, mio marito lo faceva. Andavo a dormire. Dovevo dormire. Non riuscivo ad ascoltare. Un uomo è sempre più forte, lo sai” (p. 125).
Questa testimonianza conclude la serie dei testimoni ebrei.
I tedeschi
Iniziamo con Hubert Lutz, che nacque nel 1928, e fu un membro della Gioventù hitleriana dai 7 ai 17 anni. Riguardo all’omicidio degli ebrei egli innanzitutto afferma:
“Sentimmo di un trasporto di persone che andavano via. C’erano dicerie che le persone venivano uccise, ma non vi fu mai nessuna menzione di camere a gas. C’erano dicerie che dicevano che le persone venivano ammassate in questi campi e che la maggior parte morivano di febbre tifoide. E questo era in essenza lo stile dell’esecuzione. Ora, riguardo alle fucilazioni, queste erano in rapporto con i partigiani. Nondimeno, sono sicuro che radunavano gli ebrei e li giustiziavano insieme agli altri partigiani. Io davvero non ci ho mai pensato. Avevo quindici, sedici anni. Sentivamo queste cose alla lontana. Questo non era, per i ragazzi della mia età all’epoca, il nostro interesse primario” (p. 147).
Poi segue questo scambio di domande e di risposte:
“Quando sentì per la prima volta che gli ebrei venivano uccisi in gran numero?
In gran numero, direi nel 1948, 1949. Sapevamo dei campi di concentramento. Nel 1945 dopo la guerra c’erano molte persone che circolavano e che mostravano i loro numeri, i loro numeri di tatuaggio. Vi furono alcune fotografie che vennero mostrate alla fine della guerra, come quando liberarono Dachau, Buchenwald. Ma questo per noi era quasi comprensibile perché le foto che mostravano erano di persone che erano ovviamente morte di fame. Potevi vedere i loro scheletri. Noi non eravamo passati per questo genere di fame, ma sapevamo quanto velocemente puoi perdere il tuo peso. E si sapeva anche che la maggior parte di queste persone erano morte di febbre tifoide. E c’erano molti altri casi di tifo, per esempio, in Francia e a Buchenwald. Così, sì, questo non era scusabile. D’altro canto, vi furono momenti alla fine della guerra in cui molta della nostra gente non aveva niente da mangiare.
Cosa può dirci delle gasazioni e delle fucilazioni?
Cercavamo di non crederci. Semplicemente dicevamo: ‘No, questo è troppo brutale, troppo orribile, troppo organizzato’. Molto francamente, iniziai a leggere di più e a studiare di più su questo dopo il 1959. Molte persone mi chiedevano: ‘Come facevate voi ragazzi a non conoscere queste cose?’. Così iniziai a leggere molto e iniziai, ebbene, a leggere forse con una mente prevenuta, sperando di trovare ragioni per credere che non fosse vero. Ma le prove si accumulavano. Questo divenne più convincente di giorno in giorno. Così chiesi anche a me stesso: ‘Avremmo potuto comportarci diversamente? Di chi è la responsabilità?’. La mia conclusione è che la responsabilità sta nel fatto che le persone non fecero nulla. Non fecero nulla e chiusero gli occhi e le orecchie. E penso che questo è vero. Le persone non volevano proprio crederci. Non volevano” (p. 150).
Passiamo alla figlia di un ex poliziotto, Gertrud Sombart, che visse a Dresda durante il periodo nazista:
“Lei seppe nulla sullo sterminio degli ebrei?
Non sullo sterminio. Sentimmo da mia madre, che aveva sentito da una paziente all’ospedale, che c’erano tali campi. Ma pensavamo che fossero campi di lavoro perché erano stati messi a lavorare nell’industria bellica. Nondimeno, ella aveva fornito alcuni accenni al riguardo, ma niente di specifico. Ricevemmo, tuttavia, informazioni più specifiche da un nostro conoscente. Aveva lavorato in una grande centrale elettrica in Polonia. Portava la decorazione dell’Ordine del Sangue, riservata a coloro che erano stati con i nazisti sin dall’inizio. Nondimeno, era fondamentalmente una brava persona, lavoratore e industrioso. Eravamo suoi amici ed egli sapeva quali erano le nostre opinioni. Non ci avrebbe mai imbrogliato. Mentre egli stava lì in Polonia, e aveva visto come gli ebrei venivano costretti a spalare fosse per poi essere fucilati. Dopo di che egli disse a sé stesso che non avrebbe più avuto niente a che fare con questo, e quindi ritornò [a Dresda] e ci parlò di questo.
Ma lei a quanto pare non seppe nulla fino alla fine della guerra che le persone venivano uccise in questi campi?
Sì. Ci fu, tuttavia, la volta in cui vidi questo gruppo. Erano ebrei ed erano probabilmente stati in un campo del genere. Questo accadde qui a Dresda. Nondimeno, c’erano almeno cinquanta di queste persone. Apparivano come sventurati affamati, smunti, e potevano camminare solo trascinandosi. La gente pensava che fossero dei criminali. Sembravano criminali” (p. 161).
Il testimone successivo è Anna Rudolf, che lavorava a Berlino in un laboratorio per la duplicazione dei film:
“Lei seppe prima della fine della guerra dell’esistenza dei campi di concentramento?
No. Sentivi spesso cose come: ‘È stato portato in un campo di lavoro. Ha fatto qualcosa ed è stato portato in un campo di lavoro’. Ma era tutto occultato e nascosto. Nessuno sapeva qualcosa di specifico. E poi sentimmo di nuovo: ‘Hanno portato quel ragazzo a Dachau’. I miei genitori avevano pensato che Dachau fosse un campo di lavoro fino a che venne fuori che genere di campo era davvero. Dopo di che, tutti avevano paura e nessuno osava dire nulla.
Lei seppe da dicerie prima della fine della guerra di cosa era successo agli ebrei?
Sì, persino già durante la guerra. Certamente se ne parlava. Ma, come ho detto, si diceva sempre solo: ‘Stanno andando in un campo di lavoro’. Che venissero gasati, e cose del genere, nessuno l’aveva pensato. Nessuno l’aveva pensato. Dopo, dopo la guerra, lavorai con una donna ebrea il cui padre era un sarto. Tutta la sua famiglia era stata portata via e suo padre era stato costretto a fare e a riparare vestiti in un campo di concentramento. Ma i suoi fratelli e sua sorella e sua madre vennero tutti gasati. Lei si era nascosta e così lei e suo padre sopravvissero. Comunque, mi disse tutto quello che era accaduto lì, come venivano picchiati, e come dovevano fare tutto quel lavoro. Questo fu certamente orribile” (p. 170).
È la stessa vecchia storia continuamente riproposta. Qualcuno venne messo a lavorare mentre il resto della famiglia venne gasato.
Segue Peter Reinke, il figlio di un intonacatore, nato nel 1925. Entrò in Marina nel 1942 e risponde alle seguenti domande:
“Quando lei era nell’esercito, sentì mai parlare dei campi di concentramento o delle deportazioni?
No, no. Non molto. Non molto. Si diceva che gli ebrei che non erano stati deportati venivano fatti lavorare. Questo fu quello che [i nazisti] avevano detto pubblicamente al popolo. Quello che veniva fatto lì, nessuno lo sapeva. Ma noi in effetti vedevamo come i prigionieri dei campi di concentramento erano stati costretti a lavorare, come, per esempio, gli Hiwi. Questi erano russi, russi bianchi, o ucraini, che dovevano espletare ogni sorta di funzioni. Dovevano lavorare. Dovevano caricare e scaricare ed effettuare tutti i lavori umili di cui c’era bisogno nella Wehrmacht, in ogni unità.
Ha mai sentito dicerie o altre cose riguardanti esecuzioni di massa?
No, no. Non ne sapevo nulla. Durante la guerra non sapevamo nulla di questo. Eravamo raramente a terra, solo per caricare i nostri rifornimenti. [Ma vi fu questo una volta] quando stavamo a Liepāja [in Lettonia]. La base navale si trovava fuori città – nel punto dove iniziava il territorio aperto – e c’erano molte fucilazioni. Allora circolò una diceria secondo cui stavano fucilando russi. Ma poi, apprendemmo che le Waffen SS non facevano prigionieri quando avevano a che fare con i russi. D’altro canto, gli uomini delle Waffen SS venivano fucilati dai russi. C’erano così tante sparatorie nella zona – il fronte distava solo quindici chilometri – che non potevi davvero dire chi stava sparando a chi e da dove provenissero le sparatorie” (p. 176).
Il successivo testimone è Werner Hassel, che crebbe nella Slesia superiore, e che ascoltava la BBC sia a casa che nell’esercito. Tuttavia non seppe nulla di stermini (p. 182):
“I soldati che stavano al fronte effettivamente non sapevano nulla sui campi di concentramento e sullo sterminio degli ebrei. Non posso immaginare questo [che lo avessero saputo]. Lo avrei saputo. Specialmente perché venivo da un passato politico molto differente, ne avrei sentito parlare. Un gran numero di persone davvero non ne sapeva nulla. Io stesso non sapevo dove stava Sachsenhausen o Auschwitz. Queste cose erano conosciute solo da persone che avevano informazioni riservate. Quando stavamo in Polonia, non sentimmo assolutamente nulla [sull’omicidio degli ebrei], nessuna diceria, assolutamente nulla”.
Ora sentiamo Hiltrud Kühnel, una studentessa di odontoiatria durante la guerra all’Università di Francoforte. Fate attenzione alle sue risposte, una dopo l’altra:
“Tornando ad allora, come immaginava che fossero i campi di concentramento?
Campi di sterminio. Ecco come immaginavo che fossero i campi di concentramento.
Lei semplicemente non pensava a qualcosa come un campo di lavoro?
No, no. Campi di sterminio! Sapevi quello che erano. Quindi, se qualcuno dice oggi che non ha mai saputo questo, non è assolutamente vero.
Lei vuol dire che non solo lei sapeva ma che altri sapevano?
Questa cosa era risaputa anche da altri.
Come lo si sapeva?
Dalla cerchia dei conoscenti che avevi, dal clero e dai buoni amici che condividevano le nostre idee politiche. Si parlava di quello che stavano facendo lì. Quelli erano in effetti dei veri campi di sterminio.
Quando sentì parlare dei campi di sterminio per la prima volta? Può fornire una data esatta?
Deve essere stato dal 1938 al 1939 all’epoca della Notte dei Cristalli. Questa fu nel novembre del 1938. Venimmo mandati a casa da scuola. Quella mattina il nostro preside ci disse: ‘Vi prego, andate a casa immediatamente, tutti voi. Sono successe cose orribili’. Dovetti tornare a casa col mio compagno di scuola, da Francoforte a dove vivevo, a Hochst. Comunque, questo per me fu orribile. Avevano preso le torte dai negozi ebraici di pasticceria e le gettavano sulle strade. Squarciarono le coperte delle famiglie ebree. C’erano molti ebrei a Francoforte. Potevi vedere le piume fluttuare per la strada. I sigari, le pipe dai negozi di tabacchi, ogni cosa giaceva sulle strade. I vetri delle finestre vennero sfondati. Venni a casa piangendo. Potevamo solo piangere. E poi dicemmo: ‘Sono bestie. Gli esseri umani non fanno cose come queste’
Ma questo non è esattamente lo sterminio di esseri umani
No, ma questo era l’inizio del disprezzo di una razza. Li classificavano come inferiori. Direi che è stato allora che si iniziò a sapere di queste cose. Ma, per amor del cielo, non ci era permesso di parlarne.
Ma come si poteva sentir parlare allora di queste cose, se non era permesso di parlarne?
Per esempio, da un sacerdote che capitava spesso da noi e da altri, i cui nomi non posso ricordare, che dicevano: ‘Abbiamo sentito che…’. Ecco come.
Ma cosa avevano sentito dire esattamente?
Che gli ebrei venivano gasati, e gli stranieri. In realtà, si sapeva delle gasazioni.
Si sentì proprio quest’espressione?
Gasazioni. Sì.
Che venivano gasati, lei lo sentì dal sacerdote? A casa sua?
Sì, a casa nostra. Ho già detto che questa era una sorta di luogo di incontri che i nazisti conoscevano. Sapevano che i gruppi antinazisti si incontravano ancora con mio padre.
Lei stessa sentì parlare di queste cose dal sacerdote?
Sì. La politica era la sola cosa di cui discutevano a casa nostra, sia a pranzo che in altri orari. Posso realmente solo ricordare conversazioni politiche a casa nostra. È così che sono cresciuta. Il sacerdote sapeva che a casa nostra nessuno sarebbe stato trattato da traditore o qualcosa del genere a causa di quello che avrebbe reso noto lì.
Mi chiedo come il sacerdote avesse ricevuto le sue informazioni. Costoro dissero come le avevano scoperte?
No, non ce lo dissero. Emerse solo nel corso delle conversazioni come l’ennesima atrocità che era stata scoperta” (pp. 187-189).
Passiamo a Ruth Hildebrand, la figlia di un pubblico dipendente di Berlino. Riguardo ai campi di concentramento, ella sapeva
“Solo che gli ebrei venivano mandati lì. Che gli ebrei venivano gasati, non lo dicevano. Non erano andati tanto lontano. I soldati che avevano scortato i treni con gli ebrei scendevano prima dei cancelli [dei campi], e poi tornavano indietro con il treno che ora era vuoto. Questo è quello che dissero, e mio marito me ne parlò una sera. [Questo fatto] lo rese depresso. Ebbe un impatto pesante su di lui, e anche, naturalmente, su di me. Che venivano gasati venne fuori in seguito. Trapelò lentamente, tuttavia, che in qualche modo avevano trovato la morte lì. Ma non si sentì nulla di specifico” (p. 194).
Su queste dicerie riguardanti i campi, Ekkehard Falter di Dresda commenta:
“Si sapeva che c’erano campi di concentramento. I membri di Dresda del partito comunista vennero incarcerati nel castello di Hohenstein. Nel 1933, dopo che i nazisti avevano preso il potere, vennero radunati lì, e la popolazione di Dresda sapeva che c’era un campo di concentramento dove membri del partito comunista erano incarcerati. A quell’epoca non c’erano campi di concentramento dove gli ebrei erano detenuti, a meno che fossero politici. Solo nel 1943 mi divenne chiaro che gli ebrei venivano incarcerati in gran numero. Sparirono silenziosamente, catturati uno per uno. Sapevo che c’era un ceto speciale di ebrei qui a Dresda che era più ricco degli altri che aveva pensioni o che era emigrato. Ma nei quartieri poveri, vi erano anche ebrei più poveri dove le persone meno affluenti vivevano perché gli affitti erano meno cari. Non avevano il denaro per emigrare” (p. 198).
Interrogato su quando sentì parlare per la prima volta degli stermini, la sola cosa che sapeva erano le fucilazioni di massa di cui aveva sentito parlare da un sergente delle SS:
“Di notte mi diceva le cose che avevano fatto. Poiché era tutto così orribile, non potevo più dormire. Sarebbe un capitolo a sé stante, e ora non voglio parlare di ciò che lui e la sua unità di combattimento fecero ai malcapitati, come sollevarli in aria con i loro piedi e poi sparare loro addosso. Mi disse che non capiva come questo potesse essere accaduto. Disse che c’erano state persone con loro che avevano superato i loro esami all’università e che venivano da case della solida classe media, ma che in soli sei mesi erano state rieducate a tal punto che non erano più disturbate da quello che facevano. [Per esempio], avevano radunato tutte le persone di un villaggio polacco, donne e bambini, le avevano rinchiuse in una chiesa, e poi avevano sparato contro di loro dalla tribuna della chiesa prima di dare fuoco all’edificio. ‘Ci siamo poi sdraiati attorno alla chiesa sotto il sole luminoso mentre la chiesa bruciava. Quelli che non erano usciti fuori urlavano, e poi la porta improvvisamente si aprì e un bambino piccolo venne fuori. Un ragazzo allora si alzò, rat-a-tat-tat, morto. [Essendo stato coinvolto in tutto questo] puoi immaginare che rimarrò qui?’. E poi, con il chiodo che gli era stato inserito nella gamba e nel gesso, si alzò e se ne andò. Mi disse anche cose che erano persino peggiori. Non voglio parlarne qui. Sono orribili” (p. 199).
A Stefan Reuter, di una famiglia della classe lavoratrice a Berlino, è stato chiesto se aveva sentito parlare di ciò che accadde agli ebrei durante la guerra. Ecco la sua risposta:
“No, per quanto assurdo sia. Certo, se ne parlava, ma non avevamo nessuna prova solida. All’epoca, quando mia moglie stava per essere arrestata, si sentiva in circoli comunisti che un certo numero di ebrei venivano gasati. C’erano queste dicerie, ma non c’era nessuna prova diretta. Dopo tutto, si può parlare molto. I miei pensieri erano più inclinati verso l’idea che poteva davvero essere possibile” (p. 203).
Poi abbiamo Ernst Walters, di una piccola città nella regione della Saar, che divenne capo di una cellula del partito nazista nel 1937, e dichiara che egli era già a conoscenza del destino degli ebrei nel 1935. Dopo di che fa la seguente dichiarazione:
“[Durante la guerra] i miei genitori [erano sfollati e] si trovavano a Hameln e io in qualche modo ricevetti la notizia che stavano lì. Poiché avevo la mia motocicletta, decisi di andare lì – avevo anche qualcuno che viaggiava dietro di me sulla moto insieme a me. E poi sulla via del ritorno, attraversammo la Turingia. Non sapevo che città era, e non me ne informai. Ma, comunque, facemmo una sosta lì e il posto era puzzolente: ‘Cos’è questo odore?’ ‘Lì c’è un campo di concentramento, dove i cadaveri vengono bruciati, dove viene fatto il sapone dagli ebrei’. Nei campi di concentramento, [c’erano] ebrei, e non solo ebrei. C’erano anche comunisti. E vi furono anche alcuni della nostra città che scomparvero. Vi furono alcuni che scomparvero che erano malati. [Tutto] questo venne eseguito dal partito. Il partito li fece scomparire” (p. 208).
Strani odori erano sufficienti a scatenare l’immaginazione. Ma alla fine tutto si rivela come un interminabile sentito dire. Effie Engel proviene da una famiglia della classe lavoratrice di Dresda con inclinazioni comuniste. Ecco come ella apprese degli stermini:
“Ne sentii parlare da mia madre, che ne aveva sentito parlare da un suo amico – non ne avrebbero dovuto parlare, perché era tutto strettamente confidenziale. Proprio prima della fine della guerra, gli fu data una licenza e venne a visitarci e disse: ‘Ascoltate, devo dirvi questo. Non posso sopportarlo più. È impossibile come queste persone vengono maltrattate lì. Vengono condotte in quei tunnel e costrette a lavorare sotto la supervisione delle SS, e una dopo l’altra cadono morte perché semplicemente non ricevono cibo sufficiente’. E poi proseguì dicendoci come erano state nei campi, e come erano così decimate che ce n’erano sempre di meno. Solo i più forti venivano inviati a lavorare; gli altri venivano annientati. Questo era qualcosa che lui sapeva già, e questo è come ne sentii parlare” (p. 218).
Winfried Schiller era della città di Beuten nella Slesia superiore. Suo padre era un dottore e aveva qualche legame con Auschwitz, che non era lontana da dove si trovavano:
“Ad ogni modo, Auschwitz distava meno di cento chilometri da noi. Ogni tanto, una cosa o un’altra ci arrivava su come i nazisti avevano numerose persone nel campo. Ma, sulle gasazioni effettive o sull’eliminazione degli ebrei, questo non si seppe fino agli ultimi giorni della guerra. Ma che i nazisti internavano delle persone lì, che il campo era pieno di persone, era risaputo” (p. 222).
Riguardo alle dicerie, egli aggiunge:
“Solo negli ultimi giorni della guerra filtravano le dicerie su cose come i detenuti del campo di concentramento torturati e che stavano morendo in modo atroce. Delle gasazioni, non ne sapevamo nulla. Poi, quando arrivò l’invasione sovietica e l’esercito tedesco dovette ritirarsi, il campo di concentramento venne evacuato. Quindi vi fu un grande flusso di detenuti dal campo di concentramento con i loro vestiti laceri. Affluì attraverso Beuten verso la Slesia. Fu solo allora che l’entità dei fatti divenne davvero nota” (p. 223).
Il testimone successivo, Adam Grolsch, era un operatore radio dell’esercito tedesco sul fronte russo. Interloquito sullo sterminio degli ebrei, parlò dapprima di una fucilazione di massa di 25,000 ebrei a Pinsk, perpetrata nell’arco di due giorni nell’ottobre 1942. Questa venne effettuata su ordine tedesco ma da cosacchi, lituani e lettoni. Sebbene le fucilazioni siano un fatto, il numero che egli sostiene è troppo alto per essere credibile.
Comunque, alla fine gli è stato chiesto se aveva sentito di resoconti della BBC sulle gasazioni, al che ha risposto:
“Sì, sentii anche di questo. Lo posso ricordare perché in seguito vidi questi camion [del gas]. Ma sentii anche di questo. Vidi per caso questi camion. Erano parcheggiati a Rowno [Rivne] e nessuno sapeva cosa fossero. Erano questi grandi e lunghi container mobili attaccati a camion. E cioè, erano camere a gas mobili per operazioni più piccole. Attrassero la mia attenzione a causa della BBC. Le vidi a Rowno. Rowno stava nel mezzo dell’Ucraina. Ma in precedenza avevamo sentito di tali cose dalla BBC, come sulle fucilazioni di massa di russi. Questo era quello che sapevo. Spiegarono anche come avevano fatto tutto ciò con piccoli gruppi [di persone] e con tali veicoli. Questo era ciò che bisognava ascoltare per capacitarsi se questo era davvero il caso. E poi finii per vedere due o tre di queste cose a Rowno, parcheggiate vicino al porto. Spesso dovevo andare a Rowno per ricevere pezzi di ricambio per la stazione radio. Questo può essere stato nel 1943” (p. 237).
Ma secondo la storia ufficiale, queste camere a gas mobili erano camion singoli, non i lunghi container attaccati ai camion. E naturalmente egli non li vide mai in azione. Fece solo il collegamento a causa della BBC.
Così infine arriviamo all’ultimo testimone, Walter Sanders, che fu un ufficiale di collegamento sul fronte russo. Egli conclude la sua intervista nel modo seguente:
“Per quelli che oggi dicono che non ne sapevano niente – una gran parte della popolazione lo sapeva. Forse [non sapevano] che fosse brutale come era in realtà. Ma sapevano che c’erano campi di concentramento. Sapevano che gli ebrei venivano tenuti lì. E in seguito, circolarono voci che venivano gasati. Non per nulla, in quegli anni si diceva: ‘Stai attento, altrimenti finirai su per il camino’. Questo era un modo di parlare familiare. Circolava dovunque in Germania. [Un’espressione come] ‘altrimenti, passerai per il camino’ non viene per caso” (p. 259).
No. non per caso. Ma era un modo di dire.
Riepilogo
Dal punto di vista revisionista, nessuna delle predette dichiarazioni è inaspettata o senza precedenti. Tutte quante confermano che le dicerie sugli stermini circolarono largamente, sebbene non tutti ne avessero sentito parlare o vi avessero creduto. Esse illuminano parimenti la mentalità di coloro che vi credettero, alcuni di loro quasi religiosamente. Naturalmente vi furono davvero duro lavoro e fucilazioni di massa. Ma dopo decenni di ricerche, può essere affermato con certezza che è la storia dello sterminio che è finita su per il camino.
[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: https://www.inconvenienthistory.com/10/2/5504
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