IL GRIDO DI MANNY STEINBERG[1]
Di Panagiotis Heliotis, 2018
Bentornati cari lettori per la nostra nuova inchiesta sulle memorie dell’Olocausto. L’ospite di oggi è Manny Steinberg e il suo memoriale è Outcry: Holocaust Memoirs (“Il grido: memorie dell’Olocausto”) (Amsterdam Publishers, 2015). Ottenere 1,400 recensioni con una percentuale di cinque stelle dell’81% su Amazon, merita una disamina.
Mendel “Manny” Steinberg nacque nel 1925 a Radom, in Polonia. Nel 1942 il suo ghetto venne liquidato e lui trascorse i restanti anni di guerra in vari campi inclusi Auschwitz, Vaihingen e Neckagerach. Dopo la liberazione nel 1946 si trasferì in America insieme al padre e al fratello. Prima di passare al contenuto, devono essere fatte notare due cose. La prima è che Steinberg inizia con questa dichiarazione:
“Le pagine seguenti raccontano le esperienze e le memorie della mia vita vera, ma i nomi nella mia storia sono stati tutti romanzati” (p. 2).
Di solito questo avviene per esigenze di protezione della privacy, sebbene egli non spieghi per quale motivo questo accorgimento sia necessario, o se c’è qualche altra ragione.
Secondariamente, vi sono problemi con la cronologia, per come viene esposta. Nato nel 1925, Steinberg doveva avere 16-17 anni nel 1942. Egli menziona questo anno della sua prima deportazione nel modo seguente:
“La nostra miserabile esistenza nel Ghetto si concluse nel giugno del 1942” (p. 63).
Ma dopo questa affermazione egli sostiene diverse volte di avere avuto 14 anni. Poi egli scrive:
“Tre lunghi anni vennero trascorsi in questo campo di prigionia e ora dovevo lasciarlo, destinazione sconosciuta. Avevo raggiunto l’età di diciassette, e sebbene venissi ancora considerato un ragazzino, l’esperienza di aver vissuto in questo inferno aveva accresciuto la mia età in modo considerevole” (p. 94).
Così arriviamo al 1945 e tuttavia dopo poche pagine leggiamo la seguente affermazione:
“Dopo diversi giorni, raggiungemmo finalmente la nostra misteriosa destinazione. Era Auschwitz, il più famigerato dei campi di concentramento. Qui si diceva che le camere a gas lavoravano giorno e notte per stare al passo con lo sterminio” (p. 100).
Ma questo è impossibile poiché il campo era stato evacuato nel gennaio di quell’anno. Se Steinberg avesse avuto davvero 17 anni quando venne inviato ad Auschwitz, sarebbe stato il 1942 e non avrebbe potuto trascorrere tre anni nel primo campo (vicino Radom) come afferma. La confusione continua con un’ultima osservazione:
“Avevo diciannove anni e per molti versi ero ancora un ragazzino” (p. 164).
Questo dopo che si trasferì a New York nel 1946, quando aveva 21 anni. Così sembra che come minimo Steinberg non abbia conciliato le sue date/età. Comunque, vediamo cosa ha da dire sulla storia dello sterminio.
La prima volta che ne sentì parlare fu nel modo seguente:
“Alcuni dei polacchi che lavoravano sui treni erano solidali con gli ebrei e passavano informazioni. Parlarono del modo in cui un agente chimico che odorava come il cloro veniva spruzzato all’interno dei vagoni. Quando i prigionieri urinavano, si formava un gas mortale, che li soffocava fino alla morte” (p. 74).
Questa è la storia dei “treni della morte” resa nota da Jan Karski[2] che non era altro che propaganda e che oggi è sparita dalla storiografia, sebbene lo stesso Karski compaia ancora qui e lì.
Dopo questa storia, Steinberg sentì da un amico che sua madre e il suo fratello più giovane erano stati uccisi a Treblinka. Quando egli chiese delle prove al riguardo l’amico gli disse quello che aveva appreso da un altro amico che lavorava sulle linee ferroviarie. Il treno era andato a Treblinka, dove solo il 40% delle persone arrivavano vive per essere consegnate “alle camere a gas e al crematorio” (p. 75). In breve, la prova veniva dall’informazione di un amico, di un amico, di un amico…
Così, quale fu l’esperienza personale di Steinberg?
“All’ingresso di Auschwitz c’era un gruppo di dottori tedeschi. Indossavano grembiuli bianchi macchiati di sangue. Assomigliavano a macellai, e questo è esattamente quello che erano. Solo che la carne ora era umana invece che di animale. Guardai le loro mani insanguinate e pensai al popolo ebraico che essi avevano torturato, ucciso, mutilato e fatto oggetto di esperimenti. Non avevano sentimenti riguardo a noi. Eravamo solo un altro gruppo di ebrei da smistare. I giovani separati dai vecchi, i sani dai malati. Poi un’altra leva del gas da tirare per gli sfortunati selezionati per la morte” (p. 100).
Dottori con grembiuli macchiati di sangue alle selezioni ricordano più un film horror, per non dire che un tale dettaglio non sarebbe passato inosservato da altri. Persino Elie Wiesel con le sue storie di geyser di sangue non ha mai scritto nulla del genere. Continua Steinberg nel paragrafo successivo:
“Ci venne detto di toglierci i vestiti e di metterli in una pila ai nostri piedi in modo da effettuare un esame fisico. Sentii che qualcuno veniva chiamato come Dr. Mengele e capii che questa era la fine”.
Anche della rimozione degli abiti durante le selezioni non si era mai sentito parlare. Inoltre se Steinberg venne deportato nel 1942 non poteva aver visto Mengele che fu a Birkenau dopo il maggio 1943. Ma Steinberg fornisce dettagli anche più fantasiosi. Dopo la selezione, per coprire le grida dei selezionati per la morte, un gruppo di donne zingare nude (!) battevano su tamburi (p. 101)! Ed ecco il seguito:
“Per la prima volta vidi gli alti camini con il fumo rossastro che fluttuava dalla cima. Erano i crematori. Non appena le persone arrivavano nei vagoni per il bestiame venivano portate alle camere a gas. I più vecchi che erano troppo deboli per camminare o i più piccoli che non avevano imparato a camminare venivano gettati su autocarri con montacarichi idraulici. Gli autocarri andavano al crematorio, facevano retromarcia, e poi usavano il montacarichi idraulico per far scivolare le persone in una morte fiammeggiante. Ai prigionieri veniva data una saponetta e veniva detto che potevano fare un bagno se volevano. Questo sarebbe stato un bel trattamento, ma naturalmente eravamo spaventati. Sapevamo che questo sistema era stato usato per attirare le persone nelle camere a gas. Sulla saponetta c’erano le lettere ‘RJF’. La ‘R’ stava per ‘Rein’, che in tedesco significa ‘puro’. La ‘J’ per ‘Jew’ [ebreo], e la ‘F’ per ‘Fett’, che in tedesco significa carne” (p. 102).
Egli aggiunge anche che aveva il compito di rimuovere i denti d’oro dai morti come pure di tagliare i capelli delle donne uccise ma si ferma proprio in questo punto senza fornire ulteriori dettagli.
Comunque, dopo queste affermazioni “discutibili”, ecco qualcosa di più credibile. È il gennaio 1945 e Steinberg si trova in un altro campo di prigionia:
“Un giorno un gruppo di ufficiali tedeschi arrivò al campo e iniziò a dirigere una speciale selezione di prigionieri. Venimmo sottoposti ad un esame medico e venni selezionato tra i circa seicento che vennero caricati su autocarri e portati via. Come al solito, non avevamo idea di dove stessimo andando. Sapevo una cosa: eravamo tutti malati. Alcuni di noi erano scheletri, altri avevano un aspetto gonfio e insalubre, ma tutti eravamo denutriti e cenciosi. Eravamo un triste spettacolo. Eravamo tutti sicuri che alla fine saremmo stati sterminati. Per cosa altro eravamo buoni? Ci dicemmo addio gli uni con gli altri e aspettavamo il male che stava per giungere. Fa che questa sentenza di morte sia rapida, pregavo. Durante questo viaggio, parlavamo di ciò che avevamo fatto prima della guerra, dove avevamo vissuto, delle nostre famiglie e delle nostre vite prima di essere internati. Ognuno parlava nella sua lingua, con le parole di ciascuno che si mescolavano. Ci tenevamo per mano e c’era molta commozione. Improvvisamente la lunga linea di autocarri si fermò improvvisamente. Cercai di sbirciare sotto il telone per vedere dove il nostro viaggio si era fermato” (p. 130).
Pensando che la camera a gas lo stesse aspettando, egli esitò. Ma:
“Il telone venne rimosso dall’autocarro. Il mio cuore batteva velocemente. Strinsi la mano del prigioniero che mi stava vicino e piangendo dissi addio. Mentre i miei occhi si abituavano alla luce rimasi a bocca aperta alla vista di ciò che mi stava davanti. Barelle! Una lunga fila di barelle con uomini che aspettavano di aiutarci! Mio Dio! Poteva tutto ciò essere vero? C’era un aiuto qui alla fine? Immediatamente venni sollevato, sì sollevato, dall’autocarro, collocato su una barella, coperto con una coperta; una coperta calda e portato verso baracche di legno che erano state approntate in un centro di soccorso. Mentre ci muovevamo, capii che avrei ricevuto un aiuto medico, forse più cibo, e che ora avevo la possibilità di vivere. Ringraziai Dio silenziosamente. Mentre venivo portato nelle baracche, i miei occhi videro le provviste e le attrezzature preparate per noi. C’erano file di letti a castello, e in ogni letto c’era un occupante coperto con la sua coperta. C’erano finestre, era pulito e addetti che stavano aspettando i prigionieri. Chiusi gli occhi per un minuto e pensai che forse ero morto e che ero andato in cielo. la sensazione di una vera coperta sul mio corpo, la prima in cinque anni, mi diede un senso di vero lusso. Mi accoccolai in essa e lacrime di gioia mi scorrevano sul viso. Un po’ di gentilezza umana dopo tutti gli anni di crudele trattamento. Questo era più di quanto potessi sopportare senza esprimere i miei sentimenti. Per la prima volta in tutti questi anni lunghi e torturanti mi sentivo al sicuro; tutto era buono e sarei sopravvissuto. Il pericolo dello sterminio e la paura erano scomparsi. Sicuramente non si sarebbero presi la briga di farmi stare bene per poi sterminarmi. Le mie possibilità di sopravvivenza sembravano migliori che in ogni altro momento. Provai un senso di grande felicità e mi addormentai” (p. 131).
Riepilogo
Libri come questo sono portati alle stelle e presentati sempre come prove dell’Olocausto. E tuttavia una semplice lettura di essi rivela passaggi che farebbero scappare via qualunque storico. Il solo fatto che nel 2015 la storia del sapone venga ancora presentata come una testimonianza oculare senza nemmeno un commento del curatore, prova la totale bancarotta della storia dell’Olocausto.
Nota dell’editor: Amsterdam Publishers non è una casa editrice nel senso tradizionale; è un fornitore di servizi editoriali agli autori che pubblicano le loro opere, spiega il suo sito web. Prima dell’avvento di Internet, queste operazioni venivano definite “editoria di vanità”. Invece di pagare i loro autori, gli autori pagano loro.
[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: https://www.inconvenienthistory.com/10/2/5505#_ftnref1
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