DALLA GRECIA A BIRKENAU
Di Panagiotis Heliotis, 2018
Senza dubbio i più importanti elementi di prova riguardanti l’Olocausto sono le testimonianze dei membri dei cosiddetti Sonderkommandos. Costoro erano i lavoratori dei crematori che presuntivamente prendevano i corpi dalle camere a gas per cremarli.
Entra Leon Cohen. Venne deportato ad Auschwitz alla metà di aprile del 1944. Venne poi trasferito a Birkenau dove ricevette il numero di registrazione 182,492 e poco dopo venne messo a lavorare nel Sonderkommando. Sostiene di essere rimasto lì per 11 mesi (il che è impossibile, poiché i crematori cessarono di essere operativi nel novembre 1944). Stranamente lui e i suoi colleghi non vennero uccisi, e dopo l’evacuazione, venne inviato a Mauthausen e in altri campi, dove fu liberato dagli americani il 5 maggio 1945. Ritornò in Grecia, e nel 1980 migrò in Israele.
Le sue memorie Dalla Grecia a Birkenau: La rivolta dei lavoratori dei crematori vennero pubblicate per la prima volta dal Salonika Jewry Research Center di Tel Aviv nel 1996 (edizione inglese). Egli è uno dei tre membri del Sonderkommando, insieme a Marcel Nadjari e a Filip Müller, ad aver scritto delle memorie. Vediamo cosa dice questo importantissimo testimone.
Le camere a gas e i crematori
Cohen fornisce una dettagliata descrizione dei crematori e delle relative procedure:
“C’erano quattro crematori nuovi di zecca. Erano numerati da 1 a 4 ed erano costruiti sui due lati degli edifici. Il numero 1 era di fronte al numero 2, e, similmente, il numero 3 era di fronte al numero 4. Tra di loro c’era una distanza di 250 metri. La loro configurazione era uniforme, tranne i Crematori 3 e 4 che erano ubicati al centro del campo, mentre i primi due stavano nel suo angolo. Ogni crematorio aveva il suo seminterrato, il pianterreno e il piano superiore”.
I primi due errori importanti. I Crematori 3 e 4 (IV-V) non erano al centro del campo ma nell’angolo nord-occidentale. Inoltre, non avevano un seminterrato o un piano superiore. Cohen sembra pensare che tutti e quattro avessero un design simile.
“Si poteva raggiungere il seminterrato percorrendo dodici gradini larghi quattro metri, che conducevano ad un’anticamera di 250 m2, circa 20×12 metri”.
La scala che conduceva al seminterrato aveva in realtà 10 gradini ed era larga 2 metri. Mentre l’anticamera (Leichenkeller o Morgue # 2), era lunga circa 50 metri e larga 8.
“Quando le persone arrivavano nel seminterrato, veniva detto loro che avrebbero fatto una doccia, per disinfettare loro e i loro vestiti. Poi entravano in una stanza con docce, in cui l’unica cosa visibile era un falso soffione di doccia attaccato sul soffitto. Dovevano tutti spogliarsi. Per ragioni di decoro, entravano prima le donne e i bambini, poi gli uomini. Quando un gruppo era pronto, la porta dell’anticamera veniva aperta. Questa stanza conduceva dalla doccia alla camera a gas”.
Questo resoconto contraddice totalmente la versione ortodossa. Si presume che la camera a gas fosse la stanza con la falsa doccia, ma secondo Cohen la stanza con la falsa doccia si trovava nello spogliatoio – e con un solo falso soffione di doccia!
“Questa camera diabolica era lunga circa 30 metri, larga 15 metri e alta 3.5 metri”.
Le vere dimensioni della Morgue # 1 identificata come la “camera”: 30x7x2.4.
“La sua capacità massima era di 500 persone, ma noi riuscivamo a stiparne fino a 750”.
Un’interessante divergenza rispetto alle solite stime che vanno da 2,000 a 3,000 persone. Cohen fornisce numeri più realistici, mettendo 750 persone in una camera di metri 30×15. Ovviamente, ha fatto i suoi conti.
“All’interno c’erano pilastri cavi, collocati ogni 8 metri. I pilastri erano coperti da lamiere di metallo traforato, che avevano fori di 15 millimetri e attraverso essi il gas entrava nella camera”.
Curiosamente, invece di limitarsi a dire il numero dei pilastri, colloca un pilastro ogni 8 metri. In una stanza lunga 30 metri, equivarrebbe a 3 pilastri in totale, ma solo se c’era una sola fila. Con una seconda fila, ci sarebbero stati 6 pilastri. E non sembra notare che c’erano anche 7 pilastri di cemento a sostenere il tetto.
Inoltre, ulteriore divergenza, sostiene che i pilastri erano coperti (probabilmente riferendosi ai loro lati) con lamiere di metallo che avevano piccoli fori, mentre essi erano – presuntivamente – fatti di diversi strati di ferro traforato con un inserto – parimenti traforato – per inserire e rimuovere i granuli di Zyklon B.
“I prigionieri rimuovevano la lastra dall’esterno e i soldati aggiungevano il gas congelato, che era in forma di cristalli liquidi che pesavano circa un chilo. Dalla chiusura al momento in cui i cristalli si trasformavano in gas, passava circa un’ora. In inverno dovevamo all’inizio preriscaldare la camera, accendendo il fuoco con carboni per accelerare l’evaporazione. Per essere sicuri che fossero tutti morti, dovevamo aspettare un’ulteriore ora prima di aprire la porta”.
Cohen sembra essere consapevole che sarebbero state necessarie alte temperature nella camera ma la sua descrizione dello Zyklon (che non nomina) è sbagliata. Essa presuppone che fosse nella forma di cristalli congelati che si scioglievano e si trasformavano in gas, mentre era costituito da granuli di gesso impregnati di cianuro di idrogeno che lentamente evaporavano dopo l’apertura del barattolo. Inoltre, stima in due ore piene la tempistica per un’esecuzione (seguite da altre due ore per la ventilazione): di nuovo una stima realistica, ma in totale contraddizione con tutti i testimoni che forniscono stime che vanno da pochi minuti a mezz’ora al massimo per l’intera procedura.
“Stranamente, i cadaveri vicino ai pilastri erano completamente coperti di lividi, quasi neri, mentre quelli più lontani erano rosa. Suppongo che questo fosse dovuto alla quantità di gas che avevano inalato ma poiché non sono uno scienziato né un dottore, non posso trarre una conclusione”.
L’avvelenamento da cianuro provoca uno scolorimento rosa, un fatto che quasi tutti i testimoni hanno mancato di notare. Cohen sembra aver visto giusto. Ma lo ha visto davvero? Altri membri del Sonderkommando come Dario Gabbai hanno sostenuto che i corpi erano neri e blu. L’affermazione di Cohen appare come un tentativo di conciliare queste affermazioni con la realtà.
La cremazione
Passiamo ora alla cremazione dei cadaveri (pp. 115-118):
“Per quanto riguarda la terza fase, la camera-fornace lunga 35 metri era divisa in due settori. I crematori stavano nel primo settore, che era il più grande. Il secondo settore, più piccolo, era lungo circa 10 metri ed era stato convertito in un lussuoso bagno cromato”.
Cohen non spiega qual era lo scopo di questo bagno. In realtà, non c’era un bagno del genere. Vicino alla fornace c’erano diverse stanze: il bunker del coke, l’ufficio del funzionario capo, una toletta, e gli alloggi dei lavoratori.
“Lavoravano lì due gruppi di lavoratori, ognuno con un turno di dodici ore, dalle sei alle sei. La cremazione, cioè, continuava incessantemente. I forni erano stati assemblati a gruppi di tre e distavano cinque metri l’uno dall’altro. Ogni forno poteva prendere cinque cadaveri. La capacità, cioè, era di 15 cadaveri per unità e 75 in totale. La procedura durava mezz’ora. […] In breve, potevano essere cremati 3,600 cadaveri in 24 ore se non c’erano interruzioni”.
Cohen descrive correttamente i forni (cinque fornaci a tre muffole, ma i rimanenti dati sono assurdi. Era fisicamente impossibile introdurre cinque cadaveri in una muffola, poiché erano state progettate per ospitare solo un cadavere ognuna. Ma anche se fosse stato possibile, la cremazione sarebbe durata diverse ore, perché così tanti cadaveri avrebbero ostruito la muffola e sovraccaricato i focolari, rendendo impossibile una cremazione appropriata[1].
“Sebbene i cadaveri maschili erano più [massicci] di quelli femminili con una proporzione di tre a due, quando il crematorio era pieno, il surplus del grasso femminile era assolutamente capace per sé stesso di mantenere il fuoco acceso”.
Questa è una totale assurdità. Il grasso è infiammabile, ma la quantità di grasso contenuta in un corpo normale non è sufficiente ad alimentare la cremazione nel genere di fornaci installate ad Auschwitz. Esse non erano né isolate né avevano il modo di recuperare il calore dai gas di scarico. Senza ulteriore combustibile, le muffole si sarebbero rapidamente raffreddate, e la cremazione si sarebbe interrotta.
Infine, secondo Cohen le ceneri prodotte dalla cremazione pesavano 700 grammi, una cifra vicina ai 640 grammi di Nadjari. Ma il loro peso effettivo varia da 2 a 3 chili.
Le fosse
La narrazione ortodossa afferma che durante la deportazione degli ebrei ungheresi nella tarda primavera e nell’estate del 1944, i crematori non potevano smaltire le migliaia di cadaveri. Così vennero scavate alcune fosse nel cortile settentrionale del Crematorio V per bruciarli, oltre ad analoghe fosse di cremazione scavate vicino al cosiddetto Bunker 2 fuori del campo vero e proprio. Cosa ha da dire Cohen riguardo a questo?
Ebbene, per cominciare non fornisce né il loro numero né la loro ubicazione. Inoltre, sostiene che delle fosse venivano regolarmente utilizzate:
“In circostanze normali, i cadaveri venivano bruciati nei crematori. Ma quando arrivavano troppi prigionieri contemporaneamente, era impossibile infilarli tutti nei crematori e la cremazione doveva essere effettuata all’interno delle fosse” (p. 119).
Egli aggiunge anche che le fosse e i crematori lavorarono per 10 mesi (p. 122). Ora, ecco la descrizione di una fossa:
“Una fossa era profonda cinque metri, con una larghezza che si restringeva gradualmente da circa sei metri ad un metro. Era piena fino alla cima di strati alternati di rami di abete e di pino e di cadaveri. Non appena era piena, versavano petrolio e davano fuoco. Per velocizzare il procedimento della cremazione, i Sonderkommando stavano su entrambi i lati della fossa attizzando il fuoco con lunghi pali. Il completamento del lavoro su ogni fossa di solito durava due giorni e due notti. Quando il fuoco si spegneva a causa della mancanza di combustibile, la fossa doveva venire ripulita dai resti, come i rami mezzi bruciati e il grasso accumulato” (p. 119).
Nella palude che era Birkenau, sarebbe stato impossibile scavare una fossa profonda cinque metri[2]. Inoltre il calore sarebbe stato così intenso (parla di fiamme alte da cinque a sei metri) che avvicinare il fuoco avrebbe causato gravi ustioni se non la morte. Infine, persino più ridicola è l’affermazione sul grasso accumulato. Lo stesso grasso che era presuntivamente sufficiente a mantenere la cremazione attiva nelle fornaci non avrebbe bruciato nelle fosse ma si sarebbe raccolto in modo tale da dover essere eliminato?
Camion a gas?
Ma le camere a gas, i crematori e le fosse fiammeggianti non erano sufficienti per Cohen, così egli scoprì camion a gas a Birkenau, di cui la narrazione ortodossa non sa nulla:
“I camion erano parcheggiati in permanenza al centro del campo, a circa 300 metri dalle fosse. Lì venivano ammassate fino a 100 persone, e mezz’ora dopo che le portiere venivano chiuse, il gas entrava attraverso una piccola apertura, che si chiudeva successivamente. Ascoltare quelle sfortunate persone urlare e colpire le pareti era insopportabile. Tutto questo durava da dieci a quindi minuti e poi, all’improvviso, c’era un silenzio terrificante. Quindici minuti più tardi, aprivamo la portiera posteriore del camion e caricavamo i cadaveri su speciali carrelli, che spingevamo su binari provvisori verso le fosse. Quando le avevamo raggiunte, rovesciavamo i carrelli e svuotavamo i cadaveri nelle fosse” (p. 121).
Il comandante Wire
Lasciando da parte per un momento le camere a gas e le fiamme, diamo uno sguardo ad un altro esempio che evidenzia il valore storico di questo libro. Prima della sua deportazione, Cohen venne detenuto in un campo di Haidari, un suburbio di Atene. Poiché essi non conoscevano il nome del comandante (in una nota a piè di pagina il curatore scrive che era Paul Radomski), essi lo avevano chiamato Wire (da un’espressione greca). In seguito, un giorno a Birkenau, venne ordinato [ai detenuti] di pulire il crematorio, perché il nuovo comandante del campo stava per arrivare. Diversi giorni dopo, arrivò una Mercedes nera e un ufficiale con un’uniforme piena di medaglie e un frustino in mano scese. E, quale sorpresa, era proprio Wire! Da quanto tempo…
La rivolta
Infine, vediamo cosa dice Cohen sulla famosa rivolta dei Sonderkommandos, che viene solitamente collocata il 7 ottobre 1944.
Innanzitutto, sembra molto confuso riguardo alla data. Nell’Introduzione afferma che avvenne il 7 luglio (p. 21). Poi scrive che avvenne il 7 ottobre (p. 128). Infine, quando inizia a descrivere l’evento (p. 151), lo colloca il 7 settembre! Ad ogni modo, ecco cosa presuntivamente accadde (pp. 155 ss.):
“Alle due ai prigionieri venne ordinato di radunarsi nella stanza della fornace e di sottoporre un rapporto all’Unità di Disinfezione. A quel punto, un greco urlò: contro di loro! Questo fu l’inizio della rivolta. Gli altri greci risposero immediatamente e attaccarono due guardie per prendere le loro armi. Tuttavia, l’aiuto che ci si aspettava dagli altri non arrivò mai. Al contrario, in realtà, alcuni prigionieri non greci cercarono di strappare le armi ai ribelli e di restituirle ai tedeschi. Ancora non posso capire il loro atteggiamento. Vi furono alcuni colpi di arma da fuoco nell’aria e in mezzo al panico un gruppo di 25 greci corse verso l’uscita. Percorsero una distanza di 50 metri in direzione del Crematorio 3 e tolsero le armi ad altri due tedeschi. Dopo di che lasciarono andare i tedeschi, si asserragliarono nel crematorio e attesero. Tutti i prigionieri, greci o no, aspettavano con loro. […] I tedeschi risposero velocemente. Dopo un minuto o due uno dei soldati del Crematorio 4 riprese coraggio, corse alle torrette di guardia e diede l’allarme. […] Nel giro di 15 minuti arrivarono dei camion pieni di soldati armati, che circondarono il crematorio e ordinarono ai ribelli di arrendersi. Essi risposero con una raffica di pallottole. Ovviamente, alcune delle pallottole dei ribelli avevano colpito il loro bersaglio, perché i nazisti cessarono di sparare e in pochi minuti arrivarono delle ambulanze. Presto ricominciarono a sparare di nuovo. […] La battaglia, tuttavia, non poteva proseguire in eterno. I tedeschi iniziarono a gettare granate e ad aprire buchi sui muri. […] La mossa successiva fu di incendiare il crematorio. Nel giro di pochi minuti, il Crematorio 3 era inghiottito dalle fiamme e tutti i greci perirono”.
Un certo numero di documenti tedeschi dell’epoca di guerra sono emersi nel frattempo a provare che un tentativo di fuga di massa accadde davvero il 7 ottobre 1944 e che venne frustrato dalle autorità del campo[3].
Questo conferma il tentativo di fuga di massa. La narrazione usuale di questo evento, tuttavia, afferma che i prigionieri fecero saltare in aria il Crematorio IV, e che la maggior parte dei partecipanti di questa tentata fuga vennero colpiti dalle armi da fuoco mentre cercavano di fuggire, o durante le successive rappresaglie[4].
Riepilogo
Il testimone manca ovviamente di qualunque credibilità. Il suo libro è molto simile a Testimone oculare di Auschwitz di Filip Müller: pieno di errori, contraddizioni, eventi fittizi e affermazioni indegne. Cohen scrive che una delle ragioni per le quali ha messo le sue esperienze sulla carta è a causa delle intense allusioni per le quali l’Olocausto è un mito. Purtroppo il suo libro fornisce ulteriore alimento a queste allusioni.
Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: https://www.inconvenienthistory.com/10/1/5285
[1] I focolari, concepiti per un solo cadavere alla volta per muffola, dovevano fornire il calore e i gas di combustione necessari per la cremazione. Sui dispositivi per la cremazione di Auschwitz, vedi C. Mattogno, F. Deana, The Cremation Furnaces of Auschwitz: A Technical and Historical Study, Castle Hill Publishers, Uckfield 2015.
[2] Su questo vedi Carlo Mattogno: Auschwitz: Open-Air Incinerations, 2nd ed., Castle Hill Publishers, Uckfield 2016, in particolare i tre contributi su questo problema nell’appendice.
[3] Vedi Carlo Mattogno, Miklós Nyiszli, An Auschwitz Doctor’s Eyewitness Account: The Bestselling Tall Tales of Dr. Mengele’s Assistant Analyzed, Castle Hill Publishers, Uckfield 2018, Sezione 3.6.2.
[4] Vedi Danuta Czech, Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945. Rowohlt Verlag, Reinbek bei Hamburg, 1989, pp. 899ss.
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