ALCUNE TESTIMONIANZE DA SALONICCO[1]
Di Panagiotis Heliotis, 2017
Riassunto
Testimonianze orali degli ebrei di Salonicco sull’Olocausto. Cos’è questo? Vi chiederete. Questo è il libro su cui ci concentreremo questa volta. Poiché le testimonianze dei sopravvissuti sono molto importanti per la versione ufficiale, è chiaro che più ne esaminiamo più ci avviciniamo alla verità. Le testimonianze sono anche un grande ostacolo per le persone che volessero esaminare il revisionismo dell’Olocausto, poiché costoro tendono a pensare che così tanti testimoni non possono aver mentito. Non possono essere biasimati per questo, e in effetti la maggior parte dei sopravvissuti certamente non hanno mentito. Il problema è che molte poche persone hanno davvero letto una singola testimonianza, e quelli che lo hanno fatto, non lo hanno fatto con molta attenzione. Così, mettiamoci al lavoro.
I numeri
Nel libro vi sono 51 interviste (26 donne, 25 uomini). Con l’eccezione di due, tutti gli altri sono stati ad Auschwitz-Birkenau. Ora, qui viene la parte interessante: 39 di queste 51 testimonianze non menzionano mai le camere a gas. Nemmeno una volta. D’altro canto, quasi tutti conoscono i crematori (45 su 51). Questo è un risultato decisamente inaspettato. Ma per ora ignoriamo tutto ciò e vediamo cosa i sopravvissuti dicono.
La fabbrica delle dicerie
Come sappiamo, all’arrivo al campo c’era una selezione, e molti prendevano strade separate. I sopravvissuti descrivono nei dettagli le numerose vicissitudini da loro sofferte, e come perdettero i loro parenti. Ma come sapevano questo? Quando cerchiamo una risposta, ci rendiamo conto che essi in realtà non li videro morire. Un testimone si esprime in questo modo:
“Lo venni a sapere nel campo. Chiedevamo dov’erano le nostre mamme, i nostri papà ed essi ci dicevano: sono morti…[…] Poiché non vedevamo nessuno, ci credemmo” (p. 58).
Un altro:
“Lo venimmo a sapere al campo dal blockälteste, che ci disse di badare a noi stessi, perché la nostra gente non era più viva” (p. 92).
Un altro:
“Non abbiamo ancora saputo nulla sui nostri genitori. Potevamo vedere il fumo che saliva da lontano e ci domandavamo cos’era. Fino a che una prigioniera, slovacca o polacca, in un francese stentato, ci disse: ‘Cosa state aspettando? Sono le vostre madri. Le hanno bruciate. Non ci sono più’. Questo è il modo in cui venimmo a sapere della grande tragedia. All’inizio non le credemmo. Pensavamo che fosse matta. Ma in seguito capimmo che era vero!” (p. 118).
Un altro:
“Lo scoprimmo quando entrammo al campo. C’erano altre donne greche più vecchie, che vennero davanti a noi. […] Ci dissero che li stavano bruciando nei crematori. […] Poiché esse, che stavano al campo da tanto tempo, ci dissero questo, naturalmente ci credetti” (p. 176).
Un altro:
“Dopo che andammo lì, chiedemmo ai polacchi che erano prigionieri politici, cos’era che stava bruciando. Per 5-10 giorni ci dissero che stavano facendo il pane di segale, e poi ci dissero che erano le nostre famiglie” (p. 242).
Un altro:
“All’inizio non ci credetti. ‘Impossibile’, dissi. ‘Siamo stati imbrogliati’. Ma quando dopo una settimana sentimmo altri prigionieri, francesi, polacchi, ebrei provenienti dalla Russia – la maggior parte dei quali detenuti da molto tempo – che lo confermarono, ci credemmo” (p. 289).
Un altro:
“Vedemmo i forni, ed essi ci dissero che erano andati ai forni. Gli altri prigionieri ci dissero questo” (p. 271).
E ancora e ancora. Quelli di noi che hanno fatto il servizio militare sanno molto bene che razza di fabbrica di dicerie un accampamento possa essere. Ogni sorta di cose vengono diffuse da una persona all’altra. Nessuno mette in dubbio quello che ascolta, e solitamente qualcuno chiede conferma a qualcun altro che è altrettanto all’oscuro. Ovviamente, il problema della disinformazione era molto peggiore in un campo di concentramento con i crematori nelle vicinanze, nel mezzo di una guerra, e i prigionieri non avevano modo di conoscere la verità.
Ora, la cosa più interessante qui è che vi sono due donne che videro davvero i loro padri dopo che era stato detto loro che erano morti. La prima parlò con lui per un po’ e in seguito ricevette da lui un biglietto prima di perdere alla fine tutti i contatti (p. 27). La seconda scoprì che il padre si trovava nella Buna e che perì durante la ritirata (p. 143).
Così, la maggior parte dei sopravvissuti non mentono. Sono caduti vittime delle dicerie che infuriavano nei campi. Ecco un’altra diceria ben nota:
“Poi ci diedero una saponetta e ci dissero che era stata fatta con le ceneri dei nostri genitori. Nemmeno le toccammo” (p. 29).
Le selezioni
Poi, abbiamo le selezioni. Le selezioni si succedevano tutto il tempo al campo. I prigionieri ne subirono molte, e naturalmente erano certi di trovarsi in pericolo di morte:
“In realtà, sapevamo molto bene allora che chiunque venisse giudicato inabile al lavoro, sarebbe stato bruciato; lo avevamo capito bene. Non solo lo dovemmo capire, ma eravamo certi che chiunque non fosse abile al lavoro sarebbe stato bruciato” (p. 27).
O più semplicemente:
“Se qualcuno si ammalava, veniva immediatamente mandato al crematorio” (p. 147).
E tuttavia nello stesso libro leggiamo che alcuni prigionieri che si erano ammalati seriamente non vennero “bruciati”. Per esempio, una donna dice:
“Contrassi il tifo a Birkenau. I tedeschi venivano ogni giorno per portare al forno. Non ero la sola all’ospedale. C’erano altri…” (p. 55).
Ciononostante, nessuno la mandò al forno. Al contrario, ella venne in seguito inviata ad Auschwitz dove trascorse altri due mesi al letto. Ella venne alla fine trasferita a Bergen-Belsen.
Un’altra donna soffrì di scabbia. Ella venne curata nell’ospedale di Auschwitz e lì ricoverata. E tuttavia ella sembra credere che:
“A Birkenau, non mi avrebbero mai dato delle medicine, mi avrebbero mandato al gas” (p. 196).
Infine, un prigioniero cadde accidentalmente vittima di un colpo di arma da fuoco da parte di un uomo delle SS. Ma non vi fu nessun gas per lui. Egli venne inviato all’ospedale, dove gli estrassero la pallottola. Egli fu anche operato per un’ernia allo stomaco. Stette quattro mesi all’ospedale (p. 392). Quanti problemi ebbero i tedeschi per un solo uomo, giusto? Ma i prigionieri erano così convinti che le loro vite fossero costantemente in pericolo che essi travisavano qualunque cosa:
“Se il tedesco portava la tua tessera con lui, la mattina dopo saresti stato bruciato. Dicevano che ti avrebbero mandato in un campo migliore per permetterti di recuperare le forze. Lo dicevano per ingannarci. Un trasporto che era partito per il crematorio, tornò indietro dopo un mese” (p. 329).
Così, era tutto solo un malvagio imbroglio dei tedeschi! Ma i prigionieri erano troppo intelligenti per questo. Eppure, qualche volta capivano di essersi sbagliati. Un prigioniero si sottopose volontariamente ad una selezione per essere trasferito in Germania. Egli pensava che quelli che si lasciava dietro sarebbero stati uccisi. Ma:
“Il resto non venne ucciso allora. Alcuni naturalmente morirono in seguito. Ma alcuni vennero liberati sei mesi prima di me. Non fu una selezione per i crematori, come avevamo pensato. Volevano solo che i più forti venissero inviati in Germania, mentre tenevano i più deboli al campo. Ma chi lo sapeva allora?” (p. 260).
Proprio così. E questo è il motivo per cui non dovremmo mai saltare alle conclusioni.
Riepilogo
Nella Prefazione, uno dei curatori scrive:
“Era l’anno 1989. Improvvisamente nel giro di una settimana due ‘ostaggi’ erano morti, e il numero dei sopravvissuti dei campi di Auschwitz e di Birkenau stava diminuendo velocemente. Allo stesso tempo, leggevo e ascoltavo un numero crescente di dispute sul numero delle vittime del genocidio degli ebrei, e persino sugli eventi stessi. Fu per me un’ossessione quella di mettere per iscritto, mentre erano ancora vive, le loro testimonianze. Nessuno aveva ‘parlato’ fino ad allora; nessuno voleva aprire la ‘scatola’ delle sue memorie più terribili, che aveva sepolto in profondità. E tuttavia, mentre vi sono ancora questi pochi sopravvissuti, altri osano contestare i fatti innegabili di quei tempi” (p. 7).
Così, lo scopo dei curatori era quello di preservare le memorie dei sopravvissuti per combattere i dubbi crescenti sui “fatti innegabili”. Dovrebbero essere ringraziati per i loro sforzi, naturalmente, ma nonostante ciò che credono, una lettura critica rivela che queste testimonianze fanno dei buchi nella versione ufficiale degli eventi. I sopravvissuti hanno sofferto molto, ma quando si tratta del progettato sterminio di massa, non solo vi sono molte incongruenze, ma persino le famigerate camere a gas compaiono molto raramente. Col tempo, quest’opera potrebbe rivelarsi un altro chiodo nella bara della versione ufficiale.
Se i curatori non fossero morti, il solo modo per mostrare la nostra gratitudine sarebbe di desiderare che essi non fossero in circolazione per constatarlo.
[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: https://www.inconvenienthistory.com/9/4/5146
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