DIECI ANNI DOPO…NON MI PARLATE PIÙ DI GELSOMINI![1]
Di Michel Raimbaud
Arrêt sur info — 30 gennaio 2021
Ex diplomatico e saggista, Michel Raimbaud ha pubblicato diverse opere, in particolare Tempête sur le Grand Moyen-Orient (2e édition 2017) e Les guerres de Syrie (2019).
Un decennio dopo gli avvenimenti della cosiddetta “primavera araba” che sconvolsero diversi paesi del Maghreb, del Medio Oriente e della penisola arabica, l’ex diplomatico francese e saggista Michel Raimbaud ci presenta la sua opinione sulle sue conseguenze.
Quando nel cuore dell’inverno 2010-2011 fanno la loro comparsa a Tunisi e poi al Cairo le prime “rivoluzioni arabe” frettolosamente ribattezzate “primavera”, godono di un pregiudizio favorevole, annunciando la libertà e il rinnovamento. Sbrigative, esse si sbarazzano all’istante di “tiranni” indesiderabili e fanno una forte impressione: la loro vittoria è ineluttabile e l’epidemia sembra destinata a conquistare tutti i paesi arabi.
Tutti? No di certo. Gli Stati toccati – Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Siria, e a partire dal gennaio 2011 l’Algeria e la Mauritania – hanno in comune di essere repubblicani, modernisti, sensibili al nazionalismo arabo, ad una laicità tollerante, e sorgerà una domanda: “Perché noi e non loro?”. L’avvenire lo dirà, il “loro” designando i re, i reucci o gli emiri che scampano miracolosamente alla primavera e sembrano destinati ad un’eterna estate ben climatizzata: l’Arabia di Salman e di Ben Salman, gli Emirati di Zayed e di Ben Zayed, il Qatar della famiglia Al Thani ecc. Invitiamo il Marocco e la Giordania ed ecco tutte le monarchie, dall’Atlantico al Golfo al riparo per predicare la “rivoluzione”. Nella bocca di uno sceicco wahabita o di un emiro, la parola sembra comica ma è sofficiente donarle il suo senso etimologico (movimento astronomico che conduce al punto di partenza) per trovare che si attaglia bene ad un movimento condotto dai fondamentalisti con l’appoggio dell’Occidente al fine di sabotare la retorica del movimento nazionale arabo: ciò che gli esperti delle “nostre grandi democrazie” autoproclamate rifiuteranno di ammettere.
Al contrario, nei paesi arabi e altrove, molti comprenderanno molto presto ciò che queste primavere invernali non erano, vale a dire delle rivoluzioni “spontanee, pacifiche e popolari”. Sebbene fioriscano le promesse di un avvenire lieto, non ci vorrà molto per disilludersi: nel vuoto creato dalla rimozione dei “tiranni”, è il disordine che subentrerà piuttosto che l’attesa democrazia. Il disorientamento subentrerà alla disillusione: il “caos creatore” dei neoconservatori e la barbarie degli estremisti risultano una cattiva combinazione con la dolce musica delle promesse.
Il caso talvolta fa bene le cose: l’attualità del dicembre 2020-gennaio 2021 ha registrato un ritorno di fiamma spettacolare della “rivoluzione” tunisina, la prima della saga, lanciata il 10 dicembre 2010 quando il giovane Bouazizi si immolò con il fuoco, protestando contro la corruzione e la violenza poliziesca. Dopo il disordine iniziale legato alla “rimozione” di Ben Ali, la patria di Bourghiba, focolare del nazionalismo arabo, aveva conosciuto elezioni e fasi di stabilizzazione, e persino dei passi avanti nella democratizzazione con il partito Nahda di Ghannushi o malgrado lui, prima di degenerare in una guerra civile tra i Fratelli Musulmani e i riformisti laici. Dieci anni dopo, il caos riprende il sopravvento. I progressi verranno sepolti?
In Egitto, la “primavera del papiro” non ha mantenuto le promesse che facevano balenare i suoi profeti. A parte la “rimozione” del vecchio Mubarak, il suo giudizio e la sua morte in prigione, il successo (temporaneo) dei Fratelli Musulmani e la presidenza rustica di Mohammed Morsi, è sfociata in una democrazia problematica e in un potere autoritario sottoposti a forti pressioni. Il generale al-Sisi non sembra padrone delle proprie scelte. In un paese diviso, dal prestigio intaccato, egli è combattuto tra le vestigia del nasserismo e la richiesta disperata di finanziamenti all’Arabia e ai ricchi emirati: l’Egitto ha superato il tetto dei 100 milioni di abitanti e crolla sotto il peso dei debiti, dei problemi, delle minacce (Etiopia, Sudan e le acque del Nilo). Lo slogan “nessuna guerra in Medio Oriente senza l’Egitto” è di attualità, ma non si temono più i Faraoni del Cairo…
Dopo dieci anni di guerra contro degli aggressori dai molteplici volti (paesi atlantici, Israele, le forze islamiste, la Turchia, il Qatar e l’Arabia in testa, i terroristi da Daesh a al-Qaeda), la Siria è in una situazione tragica, in cui paga per la propria fermezza sui principi, per la propria fedeltà alle alleanze, e per la carica simbolica di cui è portatrice: non è stata la prima a essere informata di un appello alla Jihad? L’America e i suoi alleati rifiutano “l’impensabile vittoria di Bashar al-Assad” e la loro “impensabile disfatta”. A causa delle sanzioni, delle misure punitive dell’Occidente, dell’occupazione americana o delle manovre turche, dei furti e dei saccheggi, la Siria non può ricostruirsi. La “strategia del caos” ha fatto la sua opera. È venuto il tempo delle guerre invisibili e senza fine che preconizzava Obama. Tuttavia, il futuro del mondo arabo dipende in parte, e in buona parte, dalla solidità del suo “cuore battente”. Non dispiaccia a coloro che fingono di averla seppellita, evitando anche di pronunciarne il nome, la Siria è indispensabile fino a cristallizzare le ossessioni: nessuna pace senza di essa in Medio Oriente.
Sperimentata la rivoluzione del Cedro nel 2005, subite la primavera autunnale del 2019, le tragedie del 2020 e i caos del 2021, il Libano ha avuto la sua rivoluzione. Sanzionato, affamato, asfissiato, minacciato dai suoi “amici”, esso condivide volente o nolente la sorte del paese fratello che è la Siria. Un terzo della sua popolazione è costituito da rifugiati siriani e palestinesi. La sua sorte sarà quella di precipitare, dopo cent’anni di “solitudine”, nel Grande Libano dei francesi?
In Palestina, la “primavera” è perpetua. Sotto il peso della “transazione del secolo”, del tradimento degli amici e del Covid, la questione palestinese sembra abbandonata, tranne che per la Siria che paga caro il suo attaccamento alla “causa sacra”. Martirizzati, imprigionati a vita, umiliati e vittime di un etnocidio, i palestinesi sapranno scegliere i propri alleati senza tradire quelli che non li hanno traditi? Tra l’inglese e il francese, bisogna diffidare dei falsi amici, ma costoro parlano talvolta il turco o l’arabo. Il re del Marocco, Comandante dei Credenti e discendente del Profeta, Presidente del comitato al-Quds, ha deciso la normalizzazione con Israele, consegnando l’Ordine di Maometto a Donald Trump. È il quarto a unirsi al campo dei liquidatori, dopo gli ineffabili Emirati Arabi Uniti, il Bahrein scampato a una primavera atipica e quello che un tempo era il Sudan. Quest’ultimo ha messo al fresco Omar al-Bashir, ma ha egualmente rinnegato i propri principi, ivi compresi quelli dei “tre no a Israele”. Ha fatto amicizia con lo zio Sam e muore d’amore per Israele, ma i due non hanno amici, soprattutto tra gli arabi.
L’Iraq non ha bisogno di “primavere arabe” per sapere cosa significano “democratizzazione” all’americana e pax americana. Il paese di Saddam, martirizzato da trent’anni, e suddiviso in tre entità, fa fatica a liberarsi dalla presa degli Stati Uniti di cui i suoi dirigenti sono tuttavia l’emanazione. Esso ha funto da test ai neoconservatori di Washington e di Tel Aviv in materia di “strategia del caos”, e lo paga.
Invasa illegalmente dalla NATO nel marzo 2011 in nome della “Responsabilità di proteggere”, la Libia ha versato un pesante tributo alle ambizioni occidentali. Gheddafi ha perso la vita in un episodio del quale Hillary Clinton, l’arpia del Potomac, si è indecentemente rallegrata. In fatto di democratizzazione, la Jamahiriya, i cui indici di sviluppo erano esemplari, aveva ereditato dall’estate del 2011 un caos che suscitò l’ammirazione di Juppé. Dietro le rovine libiche e le macerie del Grande Fiume [artificiale], ricordi dei bombardamenti umanitari della coalizione arabo-occidentale, giacevano le casseforti alleggerite dall’Asse del Bene di centinaia di miliardi di dollari della Jamahiriya, non persi per tutti. Il sogno di Gheddafi – un’Africa monetaria indipendente dall’euro e dal dollaro – è stato rubato. Quelli che amavano la Libia possono rallegrarsi: ve ne sono ormai diverse, da due a cinque secondo gli episodi.
Si potrebbe appesantire il bilancio parlando della tenace Algeria, dello Yemen martirizzato dall’Arabia Saudita e dall’Occidente, dell’Iran ecc.: le “primavere” sono state la peggiore delle catastrofi che potevano conoscere gli arabi. Tuttavia, per quanto presi a tenaglia tra l’impero americano e il blocco eurasiatico russo-cinese, la mutazione del contesto geopolitico gioca in loro favore.
Se non c’è niente da aspettarsi dagli Stati Uniti che, da Obama a Biden passando per Trump, vedono il mondo arabo solo attraverso gli occhi di Israele e in un fumo di petrolio, sarebbe saggio scommettere sul ritorno della Russia come riferimento politico e sull’arrivo della Cina attraverso le Vie della Seta. Sta a loro scegliere tra le guerre senza fine che offre loro la “potenza indispensabile” e il cammino della rinascita che l’alternativa strategica aprirebbe loro. I giochi non sono fatti.
[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: https://arretsurinfo.ch/dix-ans-apres-ne-me-parlez-plus-de-jasmin/?fbclid=IwAR0_5Cbz9xP_3qMhVaEeMCIgOkDGBXkkYSskl4vwM13N_f4Y-2nquTpLU9c
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