Da Bocage-Info ricevo e traduco:
“Ogni nome conta” per il memoriale digitale delle vittime di Auschwitz
INIZIO
Dei volontari partecipano, da un anno, alla digitalizzazione degli Archivi di Bad Arolsen nell’Assia (Germania), contribuendo al mantenimento della memoria delle vittime delle persecuzioni naziste. Circa undicimila persone hanno così contribuito alla digitalizzazione di più di due milioni di documenti.
Ebrei, lavoratori forzati, omosessuali, persone classificate come “asociali”…In totale, 50.000 nomi di vittime delle persecuzioni naziste saranno proiettati, mercoledì 27 gennaio, tra le ore 17 e le ore 22, sull’immensa facciata dell’ambasciata di Francia a Berlino, a qualche metro dalla porta di Brandeburgo.
Visibile in tempo reale su Internet, questa installazione è uno dei numerosi avvenimenti organizzati, in occasione di questa Giornata mondiale dedicata alla memoria delle vittime del nazismo, grazie al lavoro, l’anno scorso, di migliaia di volontari in tutto il mondo.
2.5 milioni di documenti digitalizzati
Originarie degli Stati Uniti, del Belgio, della Germania, più di 10.600 persone hanno contribuito alla digitalizzazione di 2.5 milioni di documenti degli Archivi di Arolsen. Questo centro internazionale di documentazione delle persecuzioni naziste con sede a Bad Arolsen, nell’Assia, conserva il fondo più completo sulle vittime e sui sopravvissuti di questo periodo ed è iscritto nel registro della memoria del Mondo dell’Unesco.
Denominata #everynamecounts (#ogninomeconta), questa iniziativa “mira a erigere un memoriale digitale per le vittime delle persecuzioni naziste”, come spiega la francese Floriane Azoulay, direttrice di questi archivi. “Il progetto tesse dei collegamenti tra la memoria del passato e l’impegno della popolazione odierna. Dei giovani che non hanno nessun legame personale con la Shoah sono riconoscenti per questa opportunità di contribuire personalmente e durevolmente, a fare in modo che i nomi delle vittime non vengano dimenticati, e che la loro storia venga raccontata”, ha aggiunto.
“Non voglio che la storia si ripeta”
Il lavoro dei volontari consiste nel trascrivere, dalle loro case e su un sito web specifico, le informazioni contenute nei documenti scansionati dei campi di concentramento. Tra questi volontari, alcuni lasciano in seguito dei commenti. Uno di essi, originario di Norimberga, in Germania, ammette di “aver sentito e visto molte cose sul periodo nazista” durante i suoi anni di liceo, prima di cambiare idea. “Oggi, ho trascritto la scheda di una persona nata il mio stesso giorno”, scrive. “Non voglio che la storia si ripeta. Partecipando a questa iniziativa, spero di ridare un po’ di dignità alle vittime”, aggiunge. Delle istituzioni scolastiche partecipano, come il liceo francese di Düsseldorf.
“Un segno di diversità e di democrazia”
“Noi lavoriamo da venti anni alla digitalizzazione dei nostri archivi, ma non siano riusciti a digitalizzare la metà dei 30 milioni di documenti che possediamo”, constata Anke Münster, portavoce degli Archivi di Bad Arolsen. “Il lavoro dei volontari è dunque molto importante. Queste persone sono attive, molto motivate, essi creano un legame diretto con le vittime. Imparano dove vivevano, quale professione facevano. Questo progetto è un segno di diversità e di democrazia, allorquando questo periodo della storia è spesso relativizzato e i sopravvissuti non potranno presto più parlare. I documenti parlano per loro”, nota ella.
Una volta digitalizzati, questi documenti sono messi in rete e accessibili a tutti, facilitando il lavoro dei discendenti delle vittime. 76 anni dopo la liberazione del campo di Auschwitz, il 27 gennaio 1945, l’interesse rimane forte. Gli Archivi di Bad Arolsen ricevono, ogni anno, più di 20.000 richieste di informazioni.
FINE DELL’ARTICOLO DI LA-CROIX.COM
IL PUNTO DI VISTA DI JOSEF GINZBURG
Sopravvissuto alla Shoah ed ebreo praticante, Josef Ginzburg (1908-1990) emigrò dopo la guerra in Israele, paese di cui non apprezzò molto la mentalità settaria e razzista. Finì per tornare in Germania, dove sperava di finire i suoi giorni in tutta tranquillità, ma dove fu aggredito fisicamente da una squadraccia sionista, mentre sostava in raccoglimento sulla tomba di sua moglie nel cimitero ebraico di Monaco. Egli denunciò Simon Wiesenthal per aver collaborato con la Gestapo e pubblicò con lo pseudonimo di JG Burg la testimonianza della sua visita subito dopo la guerra nel campo di Majdanek, in un’opera intitolata Majdanek in alle Ewigkeit. Vi fustigava l’impostura della Shoah e vi denunciava la truffa delle riparazioni finanziarie versate dalla Repubblica federale tedesca (RFA). Il suo libro venne proibito e tutti gli esemplari distrutti su ordine della magistratura tedesca per infrazione all’articolo 130 del Codice penale, in base alla seguente accusa: “Dichiarazioni odiose contro il sionismo e tentativo di riabilitazione dei criminali dei campi di sterminio”. Egli stesso fu dichiarato affetto da malattia mentale e costretto a seguire un trattamento psichiatrico.
Ecco un estratto eloquente della sua testimonianza:
“In qualità di membro di una commissione d’inchiesta governativa [delle forze alleate], ebbi, alla fine del 1944, la possibilità di visitare ufficialmente il campo di Majdanek. Nell’autunno 1945, questa volta a titolo privato, potei visitare i campi di Majdanek e di Auschwitz. Tutto mi venne aperto, ovunque, dentro e fuori. Ebbi delle conversazioni approfondite con delle persone che erano state internate per anni e che conoscevano il loro campo sotto tutti gli aspetti: nessuno di loro aveva visto né sentito parlare di una camera a gas o di vite umane che sarebbero state soppresse. Essi conoscevano solo delle camere di disinfestazione, come vi erano anche nel campo modello di Theresienstadt, per distruggervi i parassiti. Ebbi anche la possibilità di intrattenermi liberamente con degli ex membri del personale ausiliario: nessuno era al corrente di massacri e di camere a gas. Di stermini e di installazioni di gasazione ne sentii parlare per la prima volta a Breslau, nei centri di propaganda sionista. All’inizio del 1946, venni assegnato al campo profughi di Neufreimann, vicino Monaco. Vi esercitai le funzioni di magistrato e di capo della polizia. Feci anche parte dell’ufficio stampa e della Commissione d’inchiesta sui campi di concentramento nazisti presso il Comitato centrale che aveva sede in un edificio della via Siebert-Möhl a Monaco. Come inquirente, mi imbattei nuovamente in accuse di massacri e di gasazioni. Bisognava compilare dei questionari per l’Onu.
“Gli inquirenti provenivano generalmente tutti dalla Palestina e, se non si rispondeva secondo i loro voleri, era il terrore. Prendiamo l’esempio di un medico di mia conoscenza, originario del mio stesso paese. Egli rispondeva alle domande che gli venivano poste come gli veniva chiesto, vale a dire “secondo coscienza”. Alla domanda riguardante la sua lingua materna, che era l’yiddish – i suoi genitori non parlavano altre lingue – cominciarono le discussioni capziose. Nel formulario mancava la casella “yiddish” e si doveva scegliere tra l’ungherese, il polacco, il rumeno, ecc. il che, in questo caso, non corrispondeva alla realtà. D’altronde, il suo inquirente sollevò delle critiche con il pretesto che egli descriveva le condizioni della sua relegazione in Transnistria [territorio situato tra la Romania e l’Ucraina, dove degli ebrei vi furono trasferiti allo scopo di crearvi uno Stato ebraico autonomo] sotto una luce troppo paradisiaca. In seguito, i suoi questionari gli furono egualmente restituiti, però corretti, e lo si minacciò di impedire la sua emigrazione verso l’oltremare. Così, in quest’epoca, furono poste le basi del Memoriale dello Yad-Vashem, questo museo degli orrori situato a Gerusalemme e che doveva essere adornato con delle testimonianze di pura fantasia. Dopo la liquidazione di questi covi bavaresi di fabbriche di prove documentarie, si eresse a Tel Aviv il Centro mondiale di documentazione. A tutt’oggi, si trovano nello Yad-Vashem dei documenti concernenti più di tre milioni di vittime ebraiche. Al fine di aggiungere i tre milioni mancanti, è stato diffuso nel mondo intero un preteso “Formulario del Memoriale” dove, anche lì, si tratta di rispondere a delle domande ben orientate (vedi Jüdische Pressedienst, giugno 1978, pagina 19). A causa della sua importanza, questo formulario esiste anche in lingua tedesca, benché il tedesco, per ogni sionista che si rispetti, sia boicottato in quanto terefa (impuro).
“I sei milioni di false dichiarazioni devono essere costituiti costi quel che costi!”.
“Ma ritorniamo alle camere a gas. Ho ricevuto assicurazione da diverse persone che, sotto costrizione, avevano scritto dei rapporti sulle installazioni di gasazione, mentre costoro non avevano visto nulla del genere, benché il rumore circolasse alla metà del 1944. Nella mia qualità di addetto stampa del campo profughi, potevo assistere senza ostacoli alle udienze del Processo di Norimberga e, nel Grand Hotel, si tenevano sovente delle discussioni tra giornalisti ebrei non sionisti. In questa occasione, feci la conoscenza, tra gli altri, di un giornalista viennese che, lui pure, era stato internato per diversi anni ad Auschwitz e ne conosceva con precisione gli angoli più riposti. Egli mi assicurò alla presenza del poeta ebreo Ilya Ehrenburg di non avervi mai visto l’ombra di una camera a gas. Nemmeno Ehrenburg ne sapeva nulla. Il che è di per sé straordinario considerato che egli era, durante la seconda guerra mondiale, il responsabile della propaganda dell’URSS” (pagine 53-54).
Fonte: il predetto estratto è tratto dal libro di Ginzburg su Majdanek ed è citato nell’opera del prof. Robert Faurisson, Écrits révisionnistes, Edition privée hors commerce, 1999, volume I (1974-1983), pagine 269-271
Josef Ginzburg (a destra) in compagnia di Ernst Zundel
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