SILENZIO DI TOMBA
Di Vincenzo Vinciguerra, luglio 2001
Poche decine di spettatori hanno accolto con un applauso la lettura della sentenza di condanna nei confronti di Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi e Giancarlo Rognoni, ritenuti responsabili della strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 a Milano, insieme a Carlo Digilio, il pentito ‘graziato’ con il riconoscimento della prescrizione del reato. Un applauso che si è levato e si è spento all’interno dell’aula bunker della Corte di assise di Milano, mentre qualcuno rideva e qualcuno piangeva senza nemmeno sapere perché.
Fuori dell’aula, il silenzio che ha accolto la condanna dei quattro collaboratori degli apparati di sicurezza dello Stato, è stato rotto soltanto da qualcuno dei loro avvocati, oggi esponenti del governo e della maggioranza: il sottosegretario Taormina, per Maggi; il presidente della commissione Giustizia della Camera dei deputati, Pecorella, per Zorzi. Le interessate dichiarazioni dei due avvocati hanno suscitato la reazione dei loro avversari politici e di qualche magistrato che ha riscoperto, in questo caso, la difesa dell’indipendenza della magistratura contro le interferenze del governo.
Nessuno ha difeso la sentenza della Corte di assise di Milano. Nessuno ha osato affermare che questa sentenza rappresenta un contributo, sia pure parziale, alla verità. Hanno fatto di peggio: hanno preso le distanze dalla sentenza. L’ex comunista Piero Fassino ha dichiarato al quotidiano “La Repubblica”: “Non lo so se è stata fatta giustizia”…I giornalisti, in prima fila quelli de “La Repubblica”, hanno seguito l’esempio: dalla menzogna ‘sparata’ nei titoli (“Tre neofascisti condannati per la strage”) alla reticenza negli articoli, debitamente purgati da qualsiasi riferimento che potesse far comprendere ai lettori l’importanza della sentenza di condanna dei quattro informatori degli apparati segreti italiani e stranieri.
Non ci basta la pronuncia della sentenza di condanna che riconosce la responsabilità individuale di quattro individui, già noti per le loro attività al servizio della strategia del terrore varata dallo Stato negli anni Sessanta. Non può bastarci, perché se verità ha voluto affermare la Corte di assise di Milano, lo scopriremo alla lettura delle motivazioni che dovranno spiegare quale fu, secondo questi giudici, il movente che armò la mano degli stragisti il 12 dicembre 1969. Fino a quel momento è prematuro parlare di affermazione della verità: si potrà parlare di riconoscimento parziale della verità che, sempre, è servito alla magistratura per occultare – quindi negare – la verità sulle responsabilità dello Stato nella ‘strategia della tensione’.
Ultimo esempio, in ordine di tempo, ci proviene proprio dalla sentenza di condanna di Carlo Maria Maggi, Amos Spiazzi ed altri per concorso, con Gianfranco Bertoli, nella strage del 17 maggio 1973 alla Questura di Milano.
Riconosciuta la responsabilità della banda stragista, i giudici hanno scritto una pagina mendace per indicare il movente inventando, su suggerimento del pubblico ministero, un attentato contro il ministro degli Interni e presidente del Consiglio Mariano Rumor, ‘colpevole’ di aver decretato lo scioglimento del movimento politico ‘Ordine nuovo’. I silenzi, le reticenze sulla sentenza emessa il 30 giugno 2001 a carico di Carlo Maria Maggi e dei suoi complici mettono in crisi proprio questa impostazione giudiziaria che, nel migliore dei casi, processa e a volte condanna gli autori materiali di azioni stragiste e, contestualmente, stravolge il movente inventandone uno che scagioni da ogni responsabilità lo Stato ed i suoi apparati e, soprattutto, la sua classe politica.
Sono più di trent’anni che la magistratura italiana assolve questo compito, senza provare vergogna o rimorso. Anzi, proprio sulla menzogna sempre scritta e sottoscritta nelle sue sentenze la magistratura ha preteso di rappresentare la ‘parte sana’ dello Stato, quella che contro tutti ha cercato la verità e, sia pure parzialmente, è riuscita ad affermarla.
La pretesa che una parte dello Stato, che il potere repressivo dello Stato possa contrapporsi al potere esecutivo ed ai suoi apparati militari e di polizia, è una leggenda che è stata alimentata, in totale malafede, dagli stessi politici di governo e di opposizione, dai giornalisti, molti dei quali sul libro paga degli apparati dello Stato, dai magistrati stessi, alcuni dei quali hanno addirittura fatto carriera sulle interviste rese a centinaia a giornali e televisioni per raccontare il loro coraggio nell’affrontare le trame oscure dei servizi segreti, salvo poi ricevere in regalo un appartamento blindatissimo a spese del contribuente, proprio da quei servizi segreti che in televisione – e solo in quella – affermavano di aver combattuto. Tralasciamo queste figure meschine di omuncoli e magistrati dei quali ci occuperemo dettagliatamente quando scriveremo la vera storia dell’impegno giudiziario contro la verità, per tornare all’argomento trattato: il silenzio sulla sentenza del 30 giugno 2001.
Le ragioni già possono intravedersi in quello che abbiamo appena rilevato sulla sentenza, emessa sempre da una Corte di assise di Milano su suggerimento del rappresentante della Procura diretta da Gerardo D’Ambrosio, sulla strage del 17 maggio 1973 (sentenza 11 marzo 2000, presidente Ezio Siniscalchi). Cosa ha voluto affermare Gerardo D’Ambrosio, ed ha accettato supinamente ed acriticamente, la Corte di assise di Milano nel giudizio contro Carlo Maria Maggi, Amos Spiazzi ed i loro complici in quella strage? Che una ‘cellula stragista’ operante nel Veneto aveva inteso colpire in Mariano Rumor il responsabile dello scioglimento del movimento politico ‘Ordine nuovo’ diretto da Clemente Graziani. Una ‘cellula’ che poteva contare sull’infedeltà di qualche appartenente agli apparati dello Stato, addirittura alle forze armate italiane, come Amos Spiazzi, ma del tutto autonoma, svincolata dai suoi dirigenti romani – Pino Rauti, Giulio Maceratini, Paolo Signorelli – e ovviamente, non inserita organicamente – se pur non ufficialmente—nell’organigramma dei servizi segreti italiani, americani, israeliani. Insomma una banda ‘nazifascista’, assetata di sangue, capace di elaborare una strategia stragista per il gusto dell’orrore, che ha agito in odio alla democrazia e allo Stato.
Questa è la verità della Procura della repubblica di Milano e di Gerardo D’Ambrosio, fatta incautamente propria dai giudici della Corte di assise di Milano. Una ‘verità’ che si ritrova puntualmente, con qualche sfumatura di poco conto, in tutte le sentenze emesse dalla magistratura italiana in un trentennio.
Una ‘verità’ che equivale ad una menzogna di Stato. Una ‘verità’ che la condanna di Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi e Giancarlo Rognoni, per la prima volta, fa vacillare mettendo a nudo la consapevolezza con la quale la magistratura italiana, compatta, ha costruito, alimentato, imposto la sua menzogna, necessaria per coprire le responsabilità dello Stato e del regime, dei vertici politici, militari e di sicurezza e degli apparati di sicurezza della Nato e degli Stati uniti. Menzogna affermata, ricorrendo a tutti i mezzi, in nome della ‘ragion di Stato’.
La condanna di Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi e Giancarlo Rognoni e quella, sia pure virtuale, di Carlo Digilio è difatti suscettibile di scoprire quel filo rosso sangue che parte dal 12 dicembre 1969 e giunge fino al 2 agosto 1980, che collega la prima e l’ultima strage. Tante sono le caselle che lo Stato è riuscito, fino ad oggi, a lasciare vuote nel mosaico della strategia del terrore, prima, e in quella del depistaggio, ancora in corso, dopo.
Alcune, però, sono state riempite, nonostante tutto.
Fermo restando che al novero dei responsabili materiali della strage di piazza Fontana, mancano gli ‘avanguardisti’ del Sid e dell’ufficio Affari riservati del ministero degli Interni, confidenti vari, i personaggi ora conosciuti e la cui responsabilità è stata riconosciuta e ufficialmente affermata sono:
- Giorgio Freda, informatore del Sid;
- Giovanni Ventura, informatore del Sid;
- Carlo Maria Maggi, informatore di una molteplicità di servizi italiani e stranieri;
- Delfo Zorzi, informatore dell’ufficio Affari riservati;
- Giancarlo Rognoni, informatore del Sid e dei carabinieri;
- Carlo Digilio, informatore del Sid e dei servizi segreti militari americani.
Come depistatori delle indagini sulla strage del 12 dicembre 1969 emergono i nomi di: - Gianadelio Maletti, generale dell’Esercito italiano, responsabile del reparto ‘D’ del Sid;
- Antonio La Bruna, capitano dei carabinieri, in forza al servizio segreto militare.
La tentata strage contro i treni che portavano gli operai a Reggio Calabria il 20-21 ottobre 1972:
- Stefano Delle Chiaie, riconosciuto con altri colpevole ma prosciolto per prescrizione di reato, perché cercare di far saltare treni passeggeri non è ‘strage’, non in Italia quando si tratta di persone come Delle Chiaie, non per la magistratura italiana.
La mancata strage del 7 aprile 1973 sul treno Torino-Roma:
- Giancarlo Rognoni, confidente dei carabinieri;
- Nico Azzi, suo degno collega;
- Mauro Marzorati, suo degno collega;
- Francesco De Min, suo degno collega.
La strage del 17 maggio 1973:
- Gianfranco Bertoli, confidente del Sifar-Sid;
- Carlo Maria Maggi, vedi sopra;
- Amos Spiazzi, generale dell’Esercito italiano, in forza al servizio ‘I’ e poi confidente del Sisde;
- Francesco Neami, collega di Carlo Maria Maggi.
Fra i depistatori:
- Giancarlo Pajetta, componente della direzione nazionale del Pci;
- Carlo Malagugini, idem;
- magistrato di Milano non identificato.
(Referente del Pci al ministero degli Interni, in stretto contatto con Pajetta, era il prefetto Umberto Federico D’Amato, come doverosamente si segnala).
La strage di Bologna del 2 agosto 1980:
- Valerio Fioravanti, collegato a Carlo Maria Maggi;
- Francesca Mambro, collegata a Carlo Maria Maggi.
Depistatori: - Pietro Musumeci, generale dei carabinieri, in forza al Sismi;
- Giuseppe Belmonte, colonnello dell’Esercito italiano, in forza al Sismi;
- Licio Gelli, esponente dell’organizzazione atlantica denominata P2 e confidente del Sid-Sismi;
- Francesco Pazienza, agente del Sismi.
Conviene ricordare che indiziati di reato per la strage di Brescia sono Carlo Maria Maggi e, come depistatore, il generale dei carabinieri Francesco Delfino. E segnalare che la strage sul treno ‘Italicus’ fu l’esatta ripetizione della mancata strage organizzata da Giancarlo Rognoni sul treno Torino-Roma del 7 aprile 1973.
Questi i risultati raggiunti sul piano giudiziario, per quanto riguarda le responsabilità nell’esecuzione materiale delle stragi e nei depistaggi in oltre un trentennio di indagini e di processi. Pochi, ma sufficienti per scuotere le certezze di quanti consideravano chiuso il capitolo sugli ‘anni di piombo’ organizzati dallo Stato e dalla Nato, con la complicità dei servizi segreti israeliani, alla luce della condanna di Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi e Giancarlo Rognoni, per la strage di piazza Fontana.
E i primi a paventare le conseguenze di una condanna che è stata ottenuta solo per l’esclusivo impegno personale del sostituto procuratore della repubblica Massimo Meroni – non del procuratore della repubblica Gerardo D’Ambrosio – sono proprio i magistrati che in tutti questi anni si sono impegnati, talora con zelo, a ricercare gli autori materiali dei fatti di strage e a negare le responsabilità dello Stato e del regime, inventando moventi tanto più falsi quanto più propagandati dall’apparato di informazione e disinformazione dello Stato come rispondenti al vero. Ora, per Gerardo D’Ambrosio ed i suoi colleghi l’unica difesa è il silenzio. E, difatti, D’Ambrosio ha taciuto. Non ci sono state esternazioni, stavolta, per dire che ‘giustizia è fatta’ e per vantarsi di avere finalmente trovato la verità sull’attentato stragista del 12 dicembre 1969. Un silenzio rassicurante per gli imputati condannati, per i loro avvocati difensori, per lo Stato… perché sottolinea una volta di più quello che già sta agli atti di questo processo: il tentativo di bloccarlo facendolo trasferire a Catanzaro; il rifiuto di seguire gli atti; l’attacco ai testimoni che, nel caso di chi scrive, si è elevato ad autentico linciaggio che ha poi indotto, per aver oltrepassato i limiti della decenza, il sostituto procuratore Grazia Pradella a dismettere la veste di pubblico ministero nel processo di piazza Fontana, tanto evidente era il favore fatto agli imputati, al di là delle intenzioni…Il timore dei D’Ambrosio, dei Pomarici, dei Casson, delle Pradelle è dettato dalla consapevolezza che, questa volta, tutti i moventi di volta in volta inventati per spiegare ora questa strage ora quest’altra, devono confluire necessariamente in uno solo, quello che ha ispirato la strage di piazza Fontana e quelle mancate a Milano e a Roma il 12 dicembre 1969.
Cosa indusse queste appendici degli apparati segreti dello Stato e della Nato, da Ordine nuovo al Fronte nazionale al Msi, a partecipare all’operazione che nell’arco di 10 mesi, a partire dal febbraio 1969, sfocia negli attentati stragisti del 12 dicembre 1969? La risposta l’abbiamo sempre data, la verità l’abbiamo sempre affermata – ricavandone un linciaggio senza fine da parte, per primi, dei magistrati italiani – e che trova ancora una volta conferma: la necessità di giungere alla proclamazione dello stato di emergenza.
Dagli attentati rimasti senza colpevoli, verificatisi a Roma nel mese di marzo del 1969, a quelli dell’aprile del 1969 a Padova compiuti da Freda e dai suoi colleghi, alla mancata strage alla stazione ferroviaria di Milano ed alla Fiera campionaria il 25 aprile 1969, alla mancata strage delle bombe sui treni del 9 agosto 1969, in una escalation fatale e programmata, fino alla strage del 12 dicembre 1969 a Milano e a quelle mancate di Roma e di Milano, il fine era soltanto uno: consentire a Giuseppe Saragat, al presidente del Consiglio, Mariano Rumor, ai vertici militari, di proclamare lo stato di emergenza, di sospendere temporaneamente le garanzie costituzionali, di assumere quei provvedimenti legislativi necessari ad arrestare l’avanzata elettorale del Partito comunista, e quelli repressivi ritenuti indispensabili per cancellare i gruppi di ispirazione marxista dalla vita politica del Paese, per giungere alla formazione di una maggioranza governativa e parlamentare che andasse dai socialdemocratici ai missini, escludendo socialisti e comunisti.
Un programma conosciuto a livello politico. Su questo pericolo farà leva il ministro del Lavoro Carlo Donat Cattin, parlando con i sindacalisti il 19 novembre 1969 (giorno della morte dell’agente di Ps Annarumma a Milano) per spronarli a concludere le trattative relative ai contratti nazionali dei metalmeccanici: “Ci disse – ricorderà poi Giorgio Benvenuto – che eravamo ormai alla vigilia dell’ora X, che il golpe era alle porte, che bisognava affrettarsi a mettere un coperchio sulla pentola che bolliva se si voleva evitare l’arrivo dei colonnelli”. Al ‘golpe’ in atto, penserà il segretario nazionale della Democrazia cristiana Arnaldo Forlani, quando concorderà con il segretario provinciale del suo partito a Milano di sentirsi telefonicamente ogni mezzora, subito dopo la strage di piazza Fontana. Temeva, Forlani, che le truppe ed i carabinieri procedessero all’occupazione manu militari delle città, ecco perché la necessità di sentirsi ad intervalli di tempo brevissimi e regolari.
Una verità che la magistratura nega da 32 anni!
Una verità che la condanna di Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi e Giancarlo Rognoni rafforza nel momento stesso in cui i tre ed il ‘tecnico delle stragi’, Carlo Digilio, si palesano come confidenti dei servizi di sicurezza non solo italiani ma addirittura americani ed israeliani. E questa realtà, di conseguenza, induce anche il più sprovveduto degli italiani a chiedersi per quali oscure ed inspiegabili ragioni i servizi militari americani, quelli israeliani e quelli italiani non hanno fermato a tempo una banda di ‘nazifascisti’ assassini che complottavano contro la democrazia.
Una domanda che ha una sola risposta: che i Maggi, i Freda, i Rognoni, i Delle Chiaie, i Borghese, gli Almirante non costituivano un agglomerato di nostalgici del fascismo e del nazismo, ma i subalterni di regimi politici anticomunisti nei quali aspiravano ad assumere un rilievo sempre maggiore, inserendosi in maggioranze parlamentari ed occupando posti di responsabilità a livello governativo. Nella naturale suddivisione dei compiti e delle gerarchie, i quadri inferiori si impegnavano sul piano organizzativo ed operativo così che, in modo specifico, ‘Ordine nuovo’ si è configurato nel tempo come una vera e propria agenzia del terrore con compiti informativi ed operativi che non rispondevano a dettami ideologici, bensì alle esigenze dei servizi di sicurezza italiani e stranieri per i quali lavorava. Un’agenzia del tipo ‘Aginter Press’, guidata da Yves Marie Guillon, che aveva il suo capo indiscusso in Pino Rauti ed il centro operativo nel Veneto, affidato alla guida del fedelissimo di Rauti, Carlo Maria Maggi.
Per questa ragione, mentre gli esponenti ed i militanti di altri gruppi dell’estrema destra appaiono in certi episodi e non in altri, senza una linea di vera continuità nella storia del terrore organizzato, il gruppo veneto-lombardo che fa capo a Carlo Maria Maggi e risponde a Pino Rauti è presente lungo tutto l’arco di tempo nel quale si sviluppa la strage destabilizzante dello Stato che riesce in questo modo a stabilizzare il quadro politico. Non ‘cellule nere’ quindi, ma agenzia dei Servizi che opera nell’ambito di una strategia preordinata, sotto la supervisione dei servizi segreti italiani che ne seguono l’attività, la utilizzano, la proteggono.
Dinanzi a questa realtà sconvolgente, la magistratura italiana riesce ad inventare ‘cellule naziste’ slegate fra loro, ognuna delle quali agisce per fini propri e con moventi ogni volta diversi coincidenti solo nel fine ultimo di minare le basi della democrazia italiana. E questa colossale ‘bufala’, i D’Ambrosio ed i suoi colleghi sono riusciti a scriverla in tutte le loro sentenze ed ordinanze e requisitorie, cogliendo allori e complimenti, imperversando dalle pagine dei giornali e dei teleschermi, senza mai disturbare i vertici politici e militari italiani che della ‘verità’ di questi giudici hanno usato, abusato e riso.
Gerardo D’Ambrosio tace. E fa bene.
La strage di piazza Fontana a Milano accadde il 12 dicembre 1969. Lui le indagini le rivolse solo a Padova, alla ‘cellula nera’ indicata da Giancarlo Stiz, giudice istruttore di Treviso, amico di Giulio Andreotti. Democristiano l’ambiente nel quale maturò la strage, in Veneto, democristiano l’avviso che indirizzò sulla banda di Freda e Ventura le indagini della magistratura, a partire dalle dichiarazioni di Guido Lorenzon. Particolari troppo difficili da cogliere per Gerardo D’Ambrosio, al quale è sempre sfuggita una caratteristica tutta cattolica e democristiana che è la capacità di sfruttare, al proprio interno per le proprie faide ed i fini di poteri di questo o quell’esponente di partito, i propri stessi misfatti…Ma, conveniamolo, se troppo complessa era questa realtà per un piccolo giudice istruttore qual era Gerardo D’Ambrosio, non era difficile collegare la mancata strage del 7 aprile 1973 sul treno Torino-Roma, a quella del 12 dicembre 1969. Nella storia delle omissioni giudiziarie, delle ‘sviste’, dei depistaggi resi possibili o direttamente attuati dalla magistratura italiana, la cecità di Gerardo D’Ambrosio e del suo collega Emilio Alessandrini lascia sgomenti.
Quel 7 aprile 1973, viene colto in flagranza di reato, mentre è intento a far saltare un treno passeggeri, Nico Azzi, collega di Giancarlo Rognoni. Azzi tace il tempo necessario per constatare che, viste le circostanze del suo arresto (si era fatto esplodere il detonatore fra le gambe), nessun intervento dall’alto può salvarlo, così parla, rivela, accusa. Per la prima volta in Italia, una banda di stragisti può essere identificata e perseguita. Esponente di punta del Movimento sociale italiano, Giancarlo Rognoni è anche dirigente del gruppo ‘La Fenice’ e legatissimo a Pino Rauti, Paolo Signorelli e Carlo Maria Maggi.
Gerardo D’Ambrosio non vede, non sente, non comprende. Indaga sulla strage di piazza Fontana, annovera fra i suoi imputati Pino Rauti, sa che le stragi di Milano, il 12 dicembre 1969, avrebbero dovuto essere almeno due, una alla Banca dell’agricoltura e l’altra alla Banca commerciale. Dovrebbe immaginare che qualcuno a Milano aveva fornito indicazioni e appoggio logistico ai veneti Giorgio Freda e Giovanni Ventura, ma non riesce a vedere un possibile collegamento fra Giancarlo Rognoni e Pino Rauti, entrambi ex ordinovisti ora missini, entrambi accusati di strage, con chiamata di correità diretta il primo, indiziato di reato su chiamata di Marco Pozzan e Giorgio Freda, il secondo.
Gerardo D’Ambrosio non vede, non sente, non capisce. È troppo arduo evidentemente ritenere che sarebbe giusto indagare a fondo su un gruppo stragista individuato a Milano per scoprire le eventuali connessioni con la strage del 12 dicembre 1969. L’abituale frequentatore della caserma dei carabinieri di via Moscova, il ‘carabiniere onorario’ Giancarlo Rognoni che, insieme ad i suoi colleghi, si esercita nel varesotto con le tute mimetiche fornite dalla ‘Benemerita’, non attira l’attenzione di Gerardo D’Ambrosio.
A dire il vero, Rognoni, primo esponente di Ordine nuovo e del Movimento sociale italiano (quello di Almirante, Servello e Ignazio La Russa, attuale capo gruppo al Senato di ‘Alleanza nazionale’) ad essere condannato, con sentenza passata in giudicato, per strage, per aver tentato di compiere un massacro facendo saltare un treno passeggeri, gode di ottimi e solidi appoggi da sempre, anche oggi. I giornalisti di “Repubblica” ad esempio, non osano ricordare né il suo curriculum vitae né la frequentazione dei carabinieri né la condanna per tentata strage. Il lettore di “Repubblica”, l’ascoltatore dei telegiornali non deve sapere che il ‘carabiniere onorario’ Giancarlo Rognoni non è stato condannato per la strage di piazza Fontana solo perché lo ha tirato in ballo un pentito, trent’anni dopo, e perché è risultato che lavorasse come impiegato, il 12 dicembre 1969, alla Banca commerciale di Milano dov’era stata deposta una bomba poi inesplosa – e la strage era fallita miracolosamente – ma perché nel suo passato ha già una condanna per tentata strage e può essere definito per quello che è: uno stragista contiguo all’Arma dei carabinieri, allo Stato, non un ‘eversore nero’, ma uno dei tanti civili a disposizione del Comando generale dei carabinieri e dei Servizi segreti militari e civili.
Ma c’è di peggio.
Il piano predisposto nella primavera del 1973 per giungere alla proclamazione dello stato di emergenza era la mera, identica, testuale ripetizione di quello attuato il 12 dicembre 1969. La strage, prima, gli incidenti sanguinosi di piazza, dopo.
Nel dicembre 1969, la strage avviene il 12 dicembre 1969, ma i suoi frutti avrebbero dovuto essere raccolti dal Msi di Giorgio Almirante e Pino Rauti il 14 dicembre 1969, nel corso di una manifestazione a Roma destinata a degenerare in gravissimi incidenti. Nell’aprile del 1973, la strage doveva avvenire il 7 aprile sul treno Torino-Roma, attribuita a ‘Lotta continua’, e la manifestazione, organizzata dal Msi di Franco Maria Servello, Ignazio La Russa e colleghi, il 12 aprile, a Milano. E, difatti, i missini si presenteranno armati di bombe a mano e di tessere del Pci da abbandonare sul selciato, come scriverà il giorno successivo “Il Secolo d’Italia”, organo di stampa del Msi, nel tentativo di attribuire ai ‘rossi’ l’omicidio dell’agente di Ps Antonio Marino.
Il giudice istruttore milanese Gerardo D’Ambrosio non se ne accorge.
I gruppi sono sempre gli stessi: Ordine nuovo ed il Movimento sociale italiano; identici i piani operativi; il personaggio che in quel momento rappresentava una connessione tra i fatti e i gruppi era l’indiziato di reato Pino Rauti, ma D’Ambrosio non se ne dà conto. E l’agenzia del terrore di Stato può proseguire nella sua attività, protetta dalla cecità dei magistrati italiani impegnati a favoleggiare di ‘cellule nere’, di ‘nazifascisti’, di ‘servizi deviati’, di ‘ufficiali infedeli’. Naturalmente, questi magistrati faranno tutti una brillante carriera.
La strage di Bologna del 2 agosto 1980 è la mera ripetizione di un attentato fallito, sempre di tipo stragista, il 28 agosto 1970 alla stazione ferroviaria di Verona. La banda degli ‘spontaneisti’ del Sismi, i Fioravanti, Cavallini, Mambro, Soderini ecc. s’installa in Veneto, dove gode il sostegno logistico e la protezione di Carlo Maria Maggi e dei suoi colleghi. Il 2 agosto 1980, Fioravanti e Mambro s’incontrano a Padova con Carlo Digilio, il ‘tecnico delle stragi’, come riveleranno essi stessi, anni dopo, a scopo difensivo dopo aver constatato che il ‘pentito’ non li accusava.
Coincidenze? Forse no. Perché qualcuno aveva attivato l’agenzia del terrore, qualche mese prima, il 28 giugno 1980 per l’esattezza. Quel giorno, un ignoto telefona al “Corriere della sera” e racconta che il Dc-9 Itavia abbattuto sul cielo di Ustica la sera prima, era esploso per una bomba a bordo dove, fra i passeggeri, vi era anche il confidente di Questura e ordinovista Marco Affatigato. Per rendere credibile la sua verità, l’anonimo telefonista aggiunge che Marco Affatigato aveva al polso un orologio di marca ‘Baume & Mercier’.
Marco Affatigato su quell’aereo non c’era. La telefonata doveva servire esclusivamente a lanciare la tesi della bomba che sarebbe, poi, divenuta la verità del Sismi e dell’Aeronautica. Interrogato dai magistrati, Affatigato dirà che solo Marcello Soffiati poteva conoscere il particolare del suo orologio perché, poco tempo prima, in un incontro a Nizza lo aveva notato e glielo aveva chiesto in regalo. Chi ha attivato Marcello Soffiati, confidente del Sisde, dipendente di Amos Spiazzi, informatore dei servizi militari americani, e intimo amico di Carlo Maria Maggi? Chi ha mosso l’agenzia del terrore? Non potendo, questa volta, inventare complotti eversivi di stampo nazifascista, la magistratura italiana ha lasciato inevasa la risposta. Ma si può credere che nemmeno si sia posta la domanda.
D’Ambrosio tace. Per una volta non è apparsa una sua trionfalistica intervista su “Repubblica” e non ha rilasciato roboanti dichiarazioni al Tg3. E con lui hanno taciuto tutti, meno coloro che per onorari incassati e da incassare hanno tutto l’interesse a proclamare l’innocenza dei loro assistiti. Gli altri, quando hanno aperto bocca, hanno chiesto silenzio. Sì, silenzio nel rispetto delle sentenze della magistratura. Due giorni di gazzarra fra magistrati ed esponenti politici, senza mai entrare nel merito della sentenza della Corte di assise di Milano, un’intervista all’immancabile Valpreda che ha ironizzato sulla condanna dei tre, ed una a Carlo Maria Maggi perché potesse affermare la sua innocenza.
Nient’altro. I tromboni del ‘vogliamo la verità’ hanno taciuto. L’imbarazzo è palese, come evidente è l’attesa e la speranza che in appello la condanna si volga in assoluzione e, allora sì che parleranno tutti per dire che la verità su piazza Fontana non si potrà mai conoscere, perché i ‘servizi segreti deviati’ hanno cancellato le tracce, perché il segreto di Stato non è stato abolito, e bla bla bla.
Non parla Gerardo D’Ambrosio. Lui e il suo sostituto, Grazia Pradella, hanno proceduto al linciaggio morale di chi scrive, ribadito senza vergogna dai giudici della Corte di assise di Milano che ha condannato Maggi, Spiazzi, Neami e Boffelli per la strage del 17 maggio 1973, solo perché ha affermato che la volontà di uccidere Mariano Rumor, il 17 maggio 1973, derivava dalla necessità di eliminare l’uomo che, il 12 dicembre 1969, si era rifiutato di proclamare lo stato di emergenza facendo fallire i piani accuratamente predisposti, sul piano interno ed internazionale, da chi aveva vagheggiato di creare una democrazia autoritaria che fermasse l’avanzata del Partito comunista e fosse affidabile per gli Stati uniti e la Nato.
Una verità bruciante per magistrati che hanno fatto carriera e colto allori, affermandone una sempre contrapposta, quella dei nazifascisti che hanno ucciso in odio alla democrazia. Alla verità di chi scrive, il D’Ambrosio e la Pradella hanno contrapposto la ‘verità’ miserrima di un progetto omicidiario per punire Mariano Rumor di aver decretato lo scioglimento del movimento politico Ordine nuovo. La sentenza di condanna di Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi e Giancarlo Rognoni ripropone, invece, la fondatezza della verità affermata da chi scrive, solo e contro tutti. D’Ambrosio se ne rende conto, anche se spera che la motivazione della sentenza non recepisca il movente della proclamazione dello stato di emergenza al quale pervenire, mediante le stragi ed i morti in piazza, il 12-14 dicembre 1969, ed escluda quindi una corresponsabilità nel piano (non nella strage) di Mariano Rumor. Se così sarà, Gerardo D’Ambrosio parlerà, farà interviste, commenterà compiaciuto la capacità della sua Procura di giungere alla verità. E parleranno tutti gli italici ed abituali tromboni.
In caso contrario, se per un evento eccezionale ed irrepetibile la Corte di assise di Milano affermerà la verità anche sul movente della strage, dovrà continuare a tacere almeno fino all’appello ed a una sentenza assolutoria.
Da quanto tempo, in Italia, è scomparsa ogni forma di opposizione? Forse, da quando i vertici del Partito comunista italiano, informati dal conte Pietro Loredan, seppero in anticipo dell’attentato a Mariano Rumor programmato per il 17 maggio 1973, e lasciarono che si compisse. Fecero di peggio: continuarono a depistare le indagini e… ricevettero il segretissimo onore, nell’autunno del 1973, di poter avere i sospirati contatti con i funzionari della Cia distaccati presso l’Ambasciata degli Stati uniti a Roma. Da quel momento, i vertici del Partito comunista assaporarono il gusto del doppio gioco e del tradimento. Scoprirono che sostenere e coprire le responsabilità dello Stato, della Nato, degli americani e degli israeliani pagava in termini politici perché garantiva della loro affidabilità atlantica. Patrioti in Russia, fedeli a Mosca, poco gli è sempre interessato, anche in passato degli italiani i cui interessi non stavano a cuore a chi aveva sempre ritenuto prevalenti quelli dell’Unione sovietica.
L’area giudiziaria che al Partito comunista si rifaceva, l’apparato propagandistico del partito, quello politico e parlamentare portano intera la responsabilità di aver coperto la verità, di aver inventato i ‘servizi deviati’ e le ‘infedeltà’ individuali di questo o quell’ufficiale (tanto che oggi è rimasto quasi il solo… Armando Cossutta a cianciare di ‘servizi deviati’), nella speranza di ricevere dagli Stati uniti e dalla Nato il piatto di lenticchie rappresentato dalla loro partecipazione al governo…Hanno utilizzato i familiari delle vittime delle stragi, suggerendo loro i comportamenti da tenere, le richieste da fare, le ‘ricostruzioni’ storico-giudiziarie alle quali attenersi, imponendo soprattutto il rispetto per le sentenze della magistratura.
Non per tutte. Sarà proprio Walter Veltroni a guidare la carica di coloro che affermeranno l’innocenza di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro per la strage di Bologna del 2 agosto 1980, certi che l’associazione dei familiari delle vittime non avrebbe avuto il coraggio di contestare l’operato suo e dei vertici dei Ds. Così, difatti, è stato. Quindi, il rispetto per le sentenze della magistratura è limitato a quelle che fanno comodo. Le altre si possono anche contestare, o svilire, come nel caso della condanna di Maggi, Zorzi e Rognoni, dalla quale i Ds prendono le distanze affermando, con Piero Fassino, che non sanno “se è stata fatta giustizia o no”.
Maggi, Zorzi e Rognoni possono ben sperare. Questa è la linea assunta dall’opposizione, quella stessa che a furia di mentire, depistare, portare sugli altari i magistrati che fanno lo stesso, calunniare chi dice la verità, ha finito per ridare il governo a Silvio Berlusconi, condannato per corruzione. L’inesistente, fasulla ‘opposizione’ del Pci, poi Pds, quindi Ds, e di tutta la sinistra – anche quella che si è autodefinita ‘antagonista’—ha determinato la creazione della leggenda di un potere giudiziario che si contrappone agli altri poteri dello Stato nello specifico campo della ricerca della verità sulla strategia del terrore e delle stragi. Quello che un tempo, questa stessa sinistra definiva come ‘il cane da guardia’ del sistema democristiano e clericale, quell’Ordine giudiziario che intasava i tribunali di operai e studenti imputati di tutto che si poteva loro imputare, tanto da suscitare perfino la reazione sdegnata dell’allora ministro del Lavoro Carlo Donat Cattin, dal 1973 ne ha fatto il potere giusto, illuminato, che bisogna sostenere nella sua battaglia per la verità ostacolata dai poteri ‘cattivi’, che gli oppongono il ‘segreto di Stato’ e gli negano la collaborazione per smascherare i nazifascisti stragisti.
Una menzogna che ha finito per rivolgersi contro coloro che la sostengono, perché lo stesso schema applicato alla lotta per la corruzione ha messo in evidenza, viceversa, la parzialità di una magistratura che, come al solito, ha visto la corruzione da una sola parte, ed anche in quella parte solo in alcuni settori, così che il sistema è rimasto immutato; anzi si è rafforzato per reazione naturale, comprensibile pur se non giustificabile, dinanzi ad ‘eroi’ giudiziari alla Antonio Di Pietro ed ai suoi metodi di inquisizione che prevedevano la galera ad oltranza per chi non ‘parlava’, la violazione sistematica del segreto istruttorio, le ‘soffiate’ ai giornalisti e, di converso, l’appariscente rifiuto di indagare sul conto dell’ex Partito comunista, sui suoi finanziamenti, sulle tangenti da esso percepite, sulla corruzione di cui era impregnato alla pari degli altri partiti. A poco a poco, sono cadute le illusioni sul potere giudiziario in quei cittadini che alla fine hanno mandato in Parlamento i corrotti e gli imputati di associazione mafiosa ma hanno trombato il Di Pietro; meno che nel campo della ricerca della verità sul ‘terrorismo’ nero e rosso, sul terrorismo, senza virgolette, di Stato. Qui, la leggenda creata dal Partito comunista e gruppi di sinistra ancora resiste. Ancora, si crede che il ‘cane da guardia’ si possa rivoltare e mordere la mano del padrone.
Il Partito comunista che aveva creduto di poter divenire Stato e si è ritrovato ad essere una sagrestia, che ha gestito il potere governativo per fare quello che hanno sempre fatto i democristiani, forse peggio, è ormai cancellato dalla storia e dalla memoria. Il regime si è rafforzato. Oggi esibisce un plurinquisito, condannato per corruzione come presidente del Consiglio, al quale gli ‘oppositori’ si rivolgono con deferenza promettendo di essere bravi in questi cinque anni, di non fare opposizione preconcetta e, intanto, hanno votato a favore del documento sul G8.
Il regime non ha più oppositori: questa è la vera tragedia dell’Italia.
È normale quindi, che i servi di ogni livrea si affannino a coprire ogni verità che possa far vacillare il sistema, e la prima, la più significativa è quella relativa agli anni del terrore, alla strategia della destabilizzazione per stabilizzare, alla vera questione morale del Paese.
Togliere alla magistratura e ad un branco – nemmeno numeroso – di giornalisti specializzati il monopolio della ‘verità’ sulla strategia della tensione, leggere le sentenze senza rispetto, cogliendo quello che di vero e di falso in esse è contenuto, convincersi che mai la magistratura italiana oserà affermare la responsabilità dello Stato italiano e dei suoi alleati atlantici nella ‘guerra politica’ che hanno condotto sul nostro territorio, limitandosi nel migliore dei casi ad affermare la responsabilità degli autori materiali e mentendo, spesso spudoratamente, sulle motivazioni, rappresenterebbe il primo passo per giungere alla verità. Fare tabula rasa delle favole, delle leggende, dei luoghi comuni che si sono stratificati in tutti questi anni sulla volontà dell’Ordine giudiziario di ridare al Paese verità e dignità, costituisce il prologo indispensabile per accettare una verità che oramai, nonostante tutto, molti italiani riconoscono come l’unica vera, quella che vede sul banco degli imputati la classe politica e dirigente dagli anni Sessanta ad oggi…
Avere la capacità di collegare il passato al presente è la premessa per proiettarsi verso il futuro. Non basta contestare i partecipanti al G8 per le infamie che stanno perpetrando oggi, dimenticando quelle passate, quasi che riguardassero altre storie, altri paesi, altri popoli. Il servile ossequio della classe dirigente italiana, sia essa di centrodestra o di centrosinistra, nei confronti degli Stati uniti d’America va contestato anche sulla base di ciò che il predominio americano ed il servilismo italiano hanno prodotto in questo Paese. Piazza Fontana non è lontana. I genocidi dei popoli, in modo vario e differenziato attuati dagli Stati uniti e dai loro alleati della Nato, in varie parti del mondo con la distruzione dell’ambiente, l’inquinamento, le sanzioni economiche, le guerre aperte, non deve far dimenticare quella che, tecnicamente, hanno definito ‘guerra a bassa intensità’ scatenata in Italia negli anni Sessanta e protratta per oltre un ventennio.
Guerra non ancora conclusa, perché ancora priva di verità, perché la verità continua ad essere negata dal potere politico e giudiziario, uniti come sempre nella difesa dei propri privilegi e ben deciso a mantenere il silenzio sulle proprie colpe. Non ci saranno Tribunali internazionali per i crimini commessi in Italia nell’arco di un ventennio, perché questi sono riservati ai nemici dell’America e della Nato, ma la giustizia potrà egualmente essere fatta riscoprendo che ribellarsi ad un regime liberticida è un diritto e, prima ancora, un dovere.
Vincenzo Vinciguerra
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