12 DICEMBRE 1969: STATO D’EMERGENZA
Di Vincenzo Vinciguerra, ottobre 2000
La notizia è ufficiale. La Nato ha autorizzato l’Italia a costruire una portaerei con una spesa di migliaia di miliardi e con finalità che nessuno ha spiegato. La ragione è semplice: si avvicina il giorno in cui gli Stati uniti e la Nato avranno bisogno di italiani da far ammazzare per i loro interessi, fuori dal bacino del Mediterraneo. E, previdenti come sono, si sono preoccupati di fornire ai contingenti militari italiani quel supporto aeronavale che gli è sempre mancato. Con magnanimità hanno quindi ‘concesso’ ai nostri imbelli governanti di sinistra il compito di spendere una fortuna per costruire una portaerei che all’Italia non serve, ma a loro sì. Ora ci paghiamo la portaerei, domani le bare per i nostri soldati morti per Washington. È sangue italiano quello che si preparano a versare. E non è la prima volta, anzi si può dire che è vecchia consuetudine questa di far pagare agli italiani un tributo di sangue da parte di Stati uniti ed Alleanza atlantica.
Cominciarono, ricordiamolo, sparando sui militanti ed i simpatizzanti del Pci che manifestavano la loro disapprovazione verso la Nato negli anni Cinquanta. La ‘Celere’ di Alcide De Gasperi e di Mario Scelba ne ha mietute di vittime pur di affermare la legittimità della Nato e della nostra adesione all’alleanza che doveva garantire il regime democristiano per i secoli a venire. Tanti sono stati i morti, ma non abbastanza per essere ricordati oggi da Walter Veltroni e Massimo D’Alema.
Poi ce ne sono stati altri di morti. Tanti, ma non sufficienti per indurre qualcuno a cercare verità e giustizia. Sono i morti della ‘strategia della tensione’. Questi non dimenticati, ma vilipesi da un regime che è impegnato ancora oggi a spacciarli come vittime del ‘terrorismo’ che, però, non è stato eversivo bensì atlantico, colorato a stelle e strisce.
Mentono già sulla data d’inizio della ‘strategia della tensione’. Raccontano che iniziò il 12 dicembre 1969, con il massacro di piazza Fontana, all’interno della Banca dell’agricoltura. Invece, il 12 dicembre 1969 rappresentò solo una tappa, fondamentale è vero, di una strategia che si concluderà solo agli inizi degli anni Ottanta, sul piano operativo, ma continuerà ad essere attuata sul versante del depistaggio e della negazione della verità fino ad oggi. E continuerà ad esserlo fino a quando non si riuscirà a tagliare i fili con i quali i burattinai del mondo fanno muovere le italiche marionette di destra, di centro e di sinistra.
Sulla strage di piazza Fontana si indaga ufficialmente da trent’anni. La prima pista fu quella ‘anarchica’, seguita dalla magistratura romana; la seconda fu quella rappresentata dalla ‘cellula nera’ di Padova, percorsa dalla magistratura veneta; la terza fu quella del connubio ‘nazi-anarchico’, esaminata nel processo di Catanzaro; la quarta fu quella limitata alle sole persone di Stefano Delle Chiaie e Massimiliano Fachini, conclusasi con le loro assoluzioni con formula ampia; la quinta e ultima, è quella del gruppo ordinovista veneto dei Maggi e dei Zorzi.
La certezza, sempre affermata dalla magistratura, è stata quella dell’attacco eversivo allo Stato, una strage contro lo Stato. Solo nell’istruttoria diretta dal giudice Guido Salvini ha fatto la sua apparizione la contrapposizione fra i blocchi, la ‘guerra fredda’, il ruolo dei servizi segreti americani ed israeliani, il problema greco, la tesi insomma che la strage del 12 dicembre non fu fatta contro lo Stato ma fu il frutto di una logica bellica internazionale che, in definitiva, lascia comunque lo Stato italiano ed il suo regime al di fuori dell’azione, colpevole di omissione resa obbligata dal suo stato di sudditanza nei confronti degli alleati atlantici e statunitensi.
È un passo in avanti. Una verità parziale che, forse, è il massimo che si poteva avere da un magistrato della repubblica che, per forza di cose, le sue indagini le deve svolgere con ufficiali e funzionari che appartengono a quegli apparati di sicurezza e di polizia che da sempre occultano la verità e che sono quindi anch’essi limitati nella loro azione investigativa, circoscritta alla ricerca degli autori materiali degli attentati stragisti. Un passo più in là e cambiano ufficio o, se occorre, mestiere.
Ma la verità sulla strage di piazza Fontana è stata detta, ormai, più volte ma è stata seppellita sotto montagne di documenti processuali, rapporti di polizia, memorie difensive, dichiarazioni di politici e articoli giornalistici tutti concentrati sugli autori materiali la cui identificazione e condanna dovrebbe rappresentare il raggiungimento della verità. Così dicono, anche se la realtà li smentisce.
Gli attentati del 12 dicembre 1969 sono stati il punto di arrivo di una operazione che doveva concludersi con la proclamazione dello stato d’emergenza, la sospensione delle garanzie costituzionali, la posta fuorilegge del Pci o comunque la imposizione di pesantissime restrizioni alla sua azione politica tali da precludergli per sempre la possibilità di allargare ulteriormente i propri consensi elettorali. L’operazione parte, cioè, dallo Stato e dalla sua classe politica anticomunista, attestata su uno schieramento che andava da frange del Partito socialista al Msi e gruppi ad esso collegati, sostenuti da forze internazionali rappresentate dalla Nato, dagli americani e dagli israeliani.
Si è sempre affermato che il convegno organizzato dallo Stato maggiore dell’Esercito e dal Sid, a Roma nel maggio 1965, dall’istituto ‘Alberto Pollio’ rappresenta la visualizzazione della strategia anticomunista, il preannuncio della ‘strategia della tensione’ dato dai tecnici, tutti legati al servizio segreto militare, della controrivoluzione; ma non si è indagato su quanto costoro, quelli politicamente più impegnati, hanno fatto successivamente, se cioè le affermazioni teoriche sono state seguite dai fatti, come difatti è avvenuto.
Nel giugno 1965, un mese dopo la conclusione del convegno dell’istituto Pollio, a Roma si riuniscono Nicola Romeo, Piera Gatteschi, Pier Francesco Nistri, Nino Del Totto, Stefano Delle Chiaie, Pino Rauti e ‘Lillo’ Sforza Ruspoli che costituiscono il ‘Comitato italiano per l’Occidente’ che si propone di “approntare elenchi di combattenti e giovani pronti a fornire un italiano anticomunista per ogni comunista italiano che vada a rafforzare i rossi in qualsiasi parte del mondo”. Ci sono tutti, come si vede: i rappresentanti del Msi, quelli di Ordine nuovo ed Avanguardia nazionale, ‘moderati’ ed ‘estremisti’. È il volto di una destra unita, compatta, che lancia un segnale preciso sul piano internazionale, ad interlocutori intuibili sebbene non ancora smascherati, per porre al loro servizio i ‘camerati’ italiani da contrapporre ovunque ai ‘compagni’ che militano nel Pci. Sono gli anni della parola d’ordine “La mia patria è la mia idea”. Uno straniero anticomunista, sia esso americano, negro, israeliano è un amico, l’italiano comunista è il nemico da combattere. La destra supera così il nazionalismo, lo ripudia nei fatti, occultando la svolta dietro la suggestiva invocazione di “Italia, Italia” che rimane come un mero slogan capace di entusiasmare la massa dei simpatizzanti ignari.
Ma se la destra presenta un volto unitario ai suoi interlocutori esteri, all’interno rimane ufficialmente frammentata, impegnata com’è a contrastare la leadership del segretario nazionale del Msi, Arturo Michelini, per favorire l’ascesa di Giorgio Almirante. Una frammentazione sui generis, perché nei fatti le varie componenti della destra italiana si sostengono a vicenda e insieme partecipano a manifestazioni e provocazioni. Ancora il 12 aprile 1965, a Roma, contestano tutti insieme, missini ordinovisti ed avanguardisti, Ferruccio Parri che era stato chiamato a svolgere una conferenza nella facoltà di Storia contemporanea all’Università. I volantini li distribuisce Avanguardia nazionale per i giovani a “dire basta ai rinnegati che ancora oggi celebrano la vittoria di quegli eserciti che permisero d’instaurare il più infausto sistema di governo che la nostra storia ricordi!…”. La firma però è congiunta “Avanguardia nazionale. Iniziativa rivoluzionaria. Msi (via del Pantheon, 57)”.
Poi, per meglio servire gli interessi di quegli “eserciti stranieri”, la destra attua una manovra diversiva e fa ufficialmente scomparire dalla scena pubblica la formazione ‘oltranzista’ guidata da Stefano Delle Chiaie. Avanguardia nazionale si inabissa in ossequio alle direttive ricevute lasciando campo libero a Ordine nuovo ed al Movimento sociale. Organizzazione di servizio, Avanguardia nazionale passa a compiti operativi occulti, lasciando alle altre due lo svolgimento di attività ufficiali e palesi. Fallito, per il solito voltafaccia di Giorgio Almirante, l’obiettivo di riconquistare la leadership del Msi spodestando Arturo Michelini dalla segreteria nazionale durante il congresso di Pescara (12-14 giugno 1965), si passa ad una ‘guerra di lunga durata’ da condurre in modo clandestino. Il piano è unitario. Lo prova una nota riservata della divisione Affari riservati del ministero degli Interni, datata 3 agosto 1965: “I gruppi della sinistra del Msi (quelli che fanno capo ad Almirante, ndr) d’intesa con le Federazioni combattenti della Repubblica sociale italiana e delle associazioni d’arma della ‘Milizia’ e degli ‘Arditi’, sarebbero intenzionati a dare vita ad organismi cosiddetti occulti, costituiti da gruppi composti da 5 elementi denominati ‘Giovani arditi’…La strutturazione frazionistica dei ‘gruppi’ ha, appunto, lo scopo di evadere la vigilanza della polizia. La presidenza di tale organizzazione dovrebbe essere affidata al principe Borghese”.
Siamo nel 1965, ma il moderato principe Junio Valerio Borghese, amico di James Jesus Angleton e di Umberto Federico D’Amato, si pone già a capo di quel movimento sotterraneo che gli apparati di sicurezza dello Stato, in collaborazione con quelli alleati, stanno attuando a destra, per creare i presupposti di un intervento politico-militare visto come l’unico mezzo in grado di bloccare la politica di centrosinistra e, con essa, la sicura avanzata elettorale del Pci. Lo conferma un appunto inviato dal colonnello Adriano Magi Braschi, relatore al convegno organizzato dall’istituto ‘Alberto Pollio’, al generale Giuseppe Aloja, il 2 ottobre 1965, riferendo le conclusioni alle quali è pervenuta l’Associazione del trattato atlantico (Ata): “Se la minaccia militare si è attenuata, è cresciuta per contro quella della sovversione interna” e quindi alla minaccia sovversiva va contrapposta un’azione unitaria ordinata ed efficace di tutta l’Alleanza atlantica”.
E in questo ambito, con questo fine, si muove compatta la destra italiana.
Gli informatori trasmettono agli apparati di sicurezza dello Stato le notizie che raccolgono, forse non del tutto consapevoli che l’azione unitaria della destra italiana è coordinata proprio dai loro interlocutori istituzionali, le trasmettono agli uffici di competenza. E i dirigenti di questi ultimi fanno la cosa più logica: archiviano. Non hanno difatti movimenti sovversivi sui quali indagare e contro i quali scatenare la forza repressiva dello Stato. Hanno fedeli esecutori di ordini da coprire perché possano agire indisturbati nella loro battaglia contro la “minaccia sovversiva”. Così, cade nell’oblio la nota informativa del 3 ottobre 1967 sul conto di Avanguardia nazionale che “all’inizio del 1966 cessò ogni attività, per asseriti movimenti finanziari e per l’uscita da esso di numerosi elementi. Successivamente Stefano Delle Chiaie – continua la nota – che ne era stato il presidente, ha continuato però a riunire attorno a sé un gruppo di giovani fidati, adoperandosi in ogni modo per ingrossarne le file onde attuare un suo vecchio proposito di dar vita ad un’organizzazione nazionalistica clandestina”. E segue una lista di nomi che ritroveremo puntualmente negli anni a venire negli oscuri eventi della ‘strategia della tensione’, insieme al preannuncio di attentati che “dovrebbero essere effettuati, contemporaneamente, in vari centri come Roma, Firenze, Genova, Milano, Bolzano, Trieste e Napoli”. Viene sepolto in fretta anche un promemoria del 18 dicembre 1968 che, sempre su Avanguardia nazionale, dice che i suoi esponenti “sarebbero stati in contatto con Ufficiali dell’Arma dei carabinieri ed avrebbero preso accordi che in caso di necessità l’A.n.g.[1] avrebbe dovuto costituire la cosiddetta protezione civile…Verso la fine del 1964 – prosegue la nota – l’A.n.g. fu sciolta per riformarsi dopo brevissimo tempo in maniera totalmente diversa” con lo scopo di “far scomparire ufficialmente un’organizzazione estremista e nello stesso tempo ricostituirla segretamente con persone selezionate e veramente fidate”. Con corsi di addestramento teorici e pratici all’uso delle armi e degli esplosivi, “nell’estate del 1965” condotti “da un ex ufficiale francese della legione straniera”.
La strage del 12 dicembre 1969 è ancora lontana, ma i presupposti sono stati creati.
La destra italiana supera le beghe interne fra i vari dirigenti derivanti da smania di protagonismo personale e divergenze tattiche, per condurre innanzi la sua strategia unitaria. Il principe Junio Valerio Borghese s’impegna pubblicamente nella difesa dell’italianità dell’Alto Adige, mentre i vertici del Msi mettono a disposizione del Sifar uomini per fare attentati in Austria, Borghese parla a Roma ad una manifestazione del ‘Comitato tricolore’ in difesa dell’Alto Adige, presenti numerosi ufficiali delle Forze armate, il 26 settembre 1966, e il confidente Armando Mortilla può segnalare alla divisione Affari riservati del ministero degli Interni qualche settimana più tardi, il 17 ottobre 1966, che Arturo Michelini lo ha “mobilitato” per favorire il rientro nel partito delle formazioni extraparlamentari, possibilità che Pino Rauti non respinge ma subordina a “una pubblica presa di posizione dell’esecutivo nazionale” del Movimento sociale, come un’altra nota informativa del 18 ottobre 1966 sottolinea.
Le nette divergenze, addirittura le contrapposizioni che gli storici italiani hanno visto nella destra italiana, fra Movimento sociale e le formazioni extraparlamentari non sono mai esistite. Ci sono state questioni di forma non di sostanza, contrasti personali, lotta per la leadership mancando una figura carismatica in grado di imporsi su tutti, ma l’azione politica è concorde in tutti i suoi aspetti, soprattutto in quelli clandestini dove l’interesse della destra si salda con quello dello Stato e dei partiti anticomunisti contro i quali fa pubblicamente politica di opposizione.
Non si può prescindere dalla valutazione della strategia unitaria della destra in tutte le sue componenti, se si vuole accertare la verità sull’operazione che si è conclusa a Milano e a Roma il 12 dicembre 1969. Le formazioni politiche extraparlamentari sono collegate fra loro e tutte insieme con il Msi che, a sua volta, garantisce le coperture istituzionali, e cura in parallelo i rapporti con i partiti esteri compresi gruppi operativi come l’ ‘Aginter Press’ di Yves Guerin Serac.
Se dal 1965 Avanguardia nazionale scompare come formazione politica, un suo dirigente, il calabrese Antonio Benefico è stabilmente inserito nel direttorio nazionale di Ordine nuovo, a conferma di un patto fra i due gruppi che rende, inoltre, quello diretto da Stefano Delle Chiaie subalterno a Pino Rauti. E le ragioni sono evidenti visto che è Pino Rauti l’uomo che ha libero accesso allo Stato maggiore dell’Esercito e della Difesa, nonché ai vertici del Sifar-Sid. Non mentiva quindi, l’avanguardista Paolo Pecoriello quando nel suo memoriale indirizzato al giudice istruttore di Torino Luciano Violante, affermava che Ordine nuovo ed Avanguardia nazionale “non operano mai in posizione di rivalità, anzi si può dire senz’altro che quasi sempre collaborano”.
I rapporti fra Ordine nuovo e Movimento sociale italiano sono costanti, nonostante i contrasti e le divergenze con il segretario nazionale Arturo Michelini. Abbiamo visto come Ordine nuovo non sia rientrato nel Msi nel 1966 solo perché l’invito non venne fatto pubblicamente dall’esecutivo nazionale del partito. Anche in questo caso emerge la figura di un agente di collegamento, in grado di mediare fra la segreteria nazionale del Msi e i vertici di Ordine nuovo: Giulio Maceratini. Il 14 gennaio 1967, Maceratini partecipa ufficialmente ad un convegno organizzato dal Fuan, l’organizzazione universitaria del Msi, a Perugia. Del resto ne fa parte. Nessun provvedimento di espulsione è mai stato assunto nei suoi confronti. A Maceratini viene affidato il compito di appianare i contrasti che insorgono ogni tanto e sempre a lui, Pino Rauti affida il compito di mantenere i collegamenti con Junio Valerio Borghese, altro esponente del Msi, partito di cui è stato presidente.
Perfino, dopo che in opposizione ad Arturo Michelini, Pino Rauti, Junio Valerio Borghese e la Federazione nazionale combattenti della Rsi hanno organizzato per le elezioni politiche del 19 maggio 1968 una ‘campagna per la scheda bianca’ e che, il 13 settembre 1968, è stato ufficialmente costituito il Fronte nazionale, il Movimento sociale italiano non ritiene opportuno allontanarlo dal partito. Il 28 ottobre 1968, difatti, il comitato centrale del Msi decide di non adottare provvedimenti disciplinari a carico del comandante della Decima Mas ma di svolgere opera di propaganda interna per neutralizzare la sua influenza sulla base giovanile del partito.
È, quindi, un militante del Msi che guida il Fronte nazionale, non un estraneo e tantomeno un nemico del partito di Giorgio Almirante. E naturalmente, il rapporto tra il missino Junio Valerio Borghese ed i vertici di Ordine nuovo viene in quel periodo formalizzato con l’inserimento di Giulio Maceratini e Rutilio Sermonti nel direttivo del Fronte nazionale, come informa premurosamente il Viminale una ‘fonte confidenziale’ ben introdotta nell’ambiente ‘golpista’ il 25 novembre 1968.
Un sodalizio quello tra il Fronte nazionale e Ordine nuovo, fra Junio Valerio Borghese e Pino Rauti che s’interromperà solo nell’autunno del 1970, a causa di contrasti sulla spartizione dei finanziamenti che giungevano al gruppo. Nel dicembre 1969 il rapporto Borghese-Rauti era solidissimo e pienamente operante, specie dopo che la segreteria nazionale del Msi era tornata nelle mani di Giorgio Almirante e che, quindi, Pino Rauti aveva potuto compiere il passo del rientro, reso necessario a suo dire dalla previsione che “bisognava aprire l’ombrello” (ottobre 1969) per cautelarsi dinanzi agli eventi che stavano maturando, con il suo concorso ovviamente.
Nell’autunno 1969, a destra esistono solo due grandi gruppi politici: una formazione parlamentare rappresentata dal Msi di Giorgio Almirante, ed una formazione extraparlamentare diretta dal missino Junio Valerio Borghese, il Fronte nazionale. Il dualismo è perfetto: la struttura legale e quella clandestina. Ordine nuovo è rientrato ufficialmente nel partito il 14 novembre 1969, Avanguardia nazionale non esiste più dal 1965, le piccole formazioni esistenti ancora, tipo ‘Europa Civiltà’ fanno comunque riferimento al Fronte nazionale, come la ‘Costituente nazional rivoluzionaria’ di Giacomo De Sario.
Ma non c’è solo il volto unitario della destra italiana, in quell’autunno del 1969 da riscoprire e rivalutare oggi, c’è anche il raccordo con gli apparati dello Stato che costituiscono la cinghia di trasmissione fra il potere politico nazionale ed internazionale e la stessa destra.
Pino Rauti, è noto, è ben inserito negli ambienti militari e di sicurezza italiani. Meno noto è il fatto che Edgardo Beltrametti, altro protagonista della ‘strategia della tensione’ inserito come e forse meglio di Rauti negli ambienti militari e dei servizi segreti era un ex componente del comitato centrale del Msi e, quel che più conta, era amico di famiglia di Massimiliano Fachini, esponente del Movimento sociale italiano a Padova, che poteva così contare su un rapporto diretto con i vertici del Sid per i quali Beltrametti lavorava.
E, poi, c’è Guido Giannettini. Dirigente del Movimento sociale italiano, l’‘agente Zeta’ del Sid è un altro elemento di raccordo fra i vertici del Msi e quelli dei servizi di sicurezza. Sarà con la qualifica di corrispondente del “Secolo d’Italia”, il quotidiano del Msi, che Giannettini potrà recarsi in Jugoslavia al seguito di Giuseppe Saragat per assolvere compiti assegnatigli dal Sid, il 6 ottobre 1969. L’operazione che porterà a piazza Fontana è ormai sulla dirittura d’arrivo e il giornalista missino Guido Giannettini è elemento di raccordo fra l’alto e il basso, fra gli ideatori dell’operazione ed i suoi esecutori materiali. È lui a conoscere Giorgio Freda, già nel 1964, lo stesso anno in cui fa la conoscenza con Yves Guerin Serac, l’interlocutore preferito sul piano internazionale di Pino Rauti. È Giannettini che porta ordini, compila falsi rapporti informativi per facilitare l’infiltrazione a sinistra, che gira per conto del Sid in lungo e in largo con la copertura offertagli dal Msi. Ma non è il solo a manovrare il gruppo padovano di Freda e Fachini.
Un buon rapporto con loro ce l’ha anche Adriano Romualdi, figlio di Pino Romualdi, punto di riferimento stabile di Avanguardia nazionale all’interno del Msi. Lo prova la lettera, intestata al “caro Ventura”, che Adriano Romualdi invierà il 6 giugno 1970 all’editore trevigiano a conferma di un rapporto diretto e personale preesistente al 12 dicembre 1969. Un altro punto di riferimento, questo per l’organizzazione di Stefano Delle Chiaie, è il parlamentare missino Cesare Pozzo, ottimo amico dei fratelli De Felice, felicemente dimorante a Padova e ancora più felicemente escluso a priori da ogni indagine giudiziaria sugli eventi del 12 dicembre 1969. Mentre è agli atti la deposizione del missino Dario Zagolin, confidente dei servizi segreti italiani, resa il 29 giugno 1983, sui rapporti tra Freda e Ventura da un lato, e Delle Chiaie e Merlino dall’altro.
Al vertice come alla base, quindi, sono riscontrabili i rapporti intercorsi dalla metà degli anni Sessanta fra tutti coloro che saranno i protagonisti della ‘strategia della tensione’ di cui la strage della Banca dell’agricoltura è stata il fatto più clamoroso ma non il solo. Solo che nessuno, sul piano giudiziario come su quello giornalistico e politico, ha mai voluto prendere in esame la sola, logica spiegazione degli eventi del 1969, e cioè che le stragi previste per quel giorno e fortuitamente ridotte a una sola dovevano servire per giungere alla proclamazione dello stato di emergenza. L’avessero almeno valutata, questa ipotesi, si sarebbero accorti che la ramazzaglia dei Freda e Ventura, a Padova, Delle Chiaie e Merlino a Roma, Maggi e Zorzi a Venezia, lo stesso Guido Giannettini non avrebbero avuto una sola motivazione valida per compiere gli attentati del 12 dicembre 1969.
Il sospetto più che fondato è proprio quello che invece, specie i magistrati, hanno ben compreso cosa si nasconde ancora dietro la strage di piazza Fontana e da 31 anni sono impegnati a non far emergere la verità, certi che nessuno vorrà mai contraddirli e porli dinanzi alle incongruenze clamorose delle loro inchieste.
Il Fronte nazionale del missino Junio Valerio Borghese nasce ufficialmente il 13 settembre 1968. I suoi rapporti con Ordine nuovo diretto dal giornalista del quotidiano democristiano di Roma “Il Tempo”, Pino Rauti, risalgono a prima, alla primavera del 1968, quando insieme conducono la campagna per la ‘scheda bianca’.
Cos’è il Fronte nazionale? Lo dice a chiare lettere una nota informativa del Sid del 9 agosto 1970: “Il Fronte nazionale è stato più volte segnalato come organizzazione per attuare un colpo di Stato; ha delegati provinciali in diverse città; è collegato con Ordine nuovo e Avanguardia nazionale; è ritenuto il sodalizio più idoneo per influenzare in proprio favore le forze armate e di polizia”. Sono trascorsi otto mesi dalla strage di piazza Fontana, ma sono passati quasi due anni dalla data della sua ufficiale costituzione, e il Sid può scrivere che il Fronte nazionale è stato “più volte segnalato” come gruppo predisposto per attuare “un colpo di Stato”. Sarebbe ingenuo pensare che le altre segnalazioni, precedenti al 9 agosto 1970, siano pervenute al servizio segreto militare solo a partire dal 1 gennaio 1970, quasi che fino a quella data il gruppo eterogeneo diretto da Junio Valerio Borghese non avesse svolto alcuna attività politica.
E, difatti, cosa fosse e cosa intendesse fare il Fronte nazionale, espressione eterogenea di una destra omogenea al servizio del potere democristiano ed atlantico, era noto da tempo.
Il 19 marzo 1969 si svolge a Viareggio, preso l’hotel Royal la prima manifestazione pubblica del Fronte nazionale. Il Sid annota che “l’unico accenno di interesse è quello fatto da Borghese in merito alle Forze armate che, secondo il presidente del Fronte, non avrebbero fatto mancare il loro appoggio nella lotta al comunismo”.
L’11 maggio 1969, il Sid relaziona sulla riunione fra Borghese e gli armatori genovesi, il 12 aprile 1969: “Il comandante Borghese, nel corso di una riunione con esponenti del mondo armatoriale genovese, ha deciso la costituzione di ‘gruppi di salute pubblica’ per contrastare – anche con l’uso delle armi – l’ascesa al potere del Pci”.
Il 16 giugno 1969, ancora il Sid registra: “Un esponente del Fronte nazionale ha informato alcuni dirigenti della Società metallurgica italiana (Smi) che il movimento ha in programma di attuare nel periodo da giugno a settembre 1969 un colpo di Stato per porre fine alla precaria situazione politica che travaglia la vita del Paese. L’uomo di Borghese vorrebbe trattare l’acquisto di munizioni prodotte negli stabilimenti della Smi ma riceve un netto rifiuto”.
Il 30 settembre 1969, il Sid registra il discorso fatto da Prospero Colonna ad un ufficiale al quale “nel dirsi certo della riuscita del colpo di Stato”, aggiunge che Junio Valerio Borghese ha studiato un piano di “provocazione” con una serie di grossi attentati dinamitardi per fare in modo che l’intervento armato di destra possa verificarsi in un clima di riprovazione generale nei confronti dei criminali ‘rossi’ e che “le vittime innocenti in certi casi sono purtroppo necessarie”. È la tragica fotografia di piazza Fontana.
E, questa volta, il Sid si premunisce dichiarando poco attendibili le affermazioni fatte dal principe Colonna. Una giustificazione preventiva perché i suoi uomini insieme a quelli della divisione Affari riservati del ministero degli Interni hanno già in mano i timer necessari per provocare le “vittime innocenti”, ordinati telefonicamente tale è la certezza della loro impunità.
Nel mese di ottobre del 1969, poi, Junio Valerio Borghese dopo aver partecipato ad una manifestazione pubblica a Fiesole, dirige una riunione “più ristretta presso il circolo forze armate di Firenze”.
Cala quindi il sipario sull’attività del Fronte nazionale. Per fortunata coincidenza ai servizi segreti italiani non pervengono più note informative sul conto di Junio Valerio Borghese nei mesi di novembre e dicembre 1969. Solo nel mese di gennaio del 1970, il questore di Lucca informa il Viminale che il principe Junio Valerio Borghese il 14 dicembre 1969 era a Lucca dove, presente fra gli altri Raffaele Bertoli, ha parlato di costituire “una forza apartitica, in grado di affiancare le forze dell’ordine e della giustizia nell’eventualità che si verificassero gravi perturbamenti dell’ordine pubblico”.
Il principe Borghese, dopo che il governo aveva vietato la manifestazione indetta dal Movimento sociale a Roma il 14 dicembre, contava evidentemente su quello che avrebbe potuto succedere il giorno successivo, 15 dicembre, a Milano dove erano previsti i funerali delle “vittime innocenti” della strage di piazza Fontana.
L’anno finisce con un episodio clamoroso. Il 25 dicembre 1969 scompare a Roma Armando Calzolari, dirigente del Fronte nazionale il cui cadavere verrà ritrovato solo il 28 gennaio 1970, annegato in mezzo metro d’acqua insieme al suo cane. Tutti collegheranno, al di fuori dei magistrati inquirenti, l’assassinio di Calzolari agli eventi del 12 dicembre 1969, ma nemmeno dinanzi a questa certezza oseranno proporre un collegamento fra il Fronte nazionale, organizzazione predisposta ai “colpi di Stato” e la strage della Banca dell’agricoltura di Milano.
Sanno che collegare il Fronte nazionale alla strage significa indirizzare le indagini verso il potere politico nazionale ed internazionale di cui il principe Junio Valerio Borghese è espressione. E non lo faranno mai, preferendo ripiegare su una organizzazione ufficialmente inesistente, Avanguardia nazionale, e sul suo capo, Stefano Delle Chiaie, che fingeranno essere un indipendente, anzi ‘il capo’ che tutto dirige e dispone salvo, in un secondo tempo, preferirgli nel ruolo Giorgio Freda, così da occultare i volti dei capi dietro le maschere dei gregari.
Non si trattava ovviamente di un ‘colpo di Stato’ ma di creare le condizioni per la proclamazione dello stato di emergenza. È ormai certo che fu il ministero degli Interni a creare ‘Ordine nero’ negli anni Settanta, ma non fu quella la prima ‘diversione strategica’ attuata dai vertici politici e di polizia perché ad un mese di distanza dalla intenzione preannunciata dal principe Junio Valerio Borghese agli industriali genovesi di creare ‘comitati di salute pubblica’ per opporsi al comunismo, il confidente della divisione Affari riservati, amico fraterno di Umberto Federico D’Amato, Mario Tedeschi, direttore di “Il Borghese” e futuro senatore missino, annuncia la costituzione dei ‘Gan’, ‘Gruppi di azione nazionale’ che nei loro punti programmatici prevedono il sabotaggio “con tutti i mezzi possibili” degli scioperi “organizzati dai comunisti e dai clerico-comunisti” e soprattutto la necessità di “organizzarsi per essere vicini ai soldati in ogni momento, nel momento tranquillo e nel momento non tranquillo” e, ad uso e consumo degli ingenui, conclude che “ormai chi vuol fare dell’anticomunismo sul serio deve porsi fuori del sistema e contro il regime”. Parola d’ordine del ministero degli Interni!
Il 7 giugno 1969, a Padova, la polizia perquisisce l’abitazione di Eugenio Rizzato, altro ‘fascista’ di regime democristiano, che insieme ad una pistola automatica calibro 7,65 per il cui possesso verrà denunciato, conserva la documentazione relativa al ‘Carn’, ‘Comitato d’azione risveglio nazionale’ che oltre ad avere una significativa assonanza nel nome con i ‘Gan’ di Mario Tedeschi e Umberto Federico D’Amato, si propone gli stessi obiettivi. Fra i suoi scopi, difatti, vi è “la formazione di gruppi d’assalto, pronti a qualsiasi evenienza e disposti a qualsiasi impiego, che saranno a tempo opportuno attrezzati in pieno assetto di guerra”. Non desta meraviglia quindi, che il commissario di Ps Saverio Molino, dirigente dell’ufficio politico della Questura di Padova, abbia denunciato Eugenio Rizzato per il solo possesso illegale di un’arma ed abbia, viceversa, inviato la documentazione sul ‘Carn’ alla divisione Affari riservati che l’ha subito conservata in un cassetto, perché non si poteva interferire, provocando un’azione giudiziaria che fatalmente sarebbe finita sui giornali di sinistra, con i piani in atto, bruciando uomini propri e dei servizi segreti ‘cugini’.
Formazioni segrete (il Carn), palesi (i Gan), extraparlamentari (il Fronte nazionale), non sono le sole a predisporre piani per l’ora X e ad agire perché questa possa finalmente scoccare. Il Movimento sociale italiano recita difatti la sua parte. Il 25 maggio 1969, Pino Romualdi scrive su “L’Assalto”: “Crediamo nell’olio di ricino e nel santo manganello. Crediamo nella guerra civile. Poiché prima che il comunismo arrivi al potere è chiaro che si troveranno mezzo milione di uomini capaci di procurarsi le armi e di usarle. Nessuno deve dimenticarlo: oggi, mutati i tempi, l’olio di ricino e il santo manganello non basterebbero più”.
Giorgio Almirante, raggiunta l’agognata segreteria nazionale del Msi per la morte di Arturo Michelini, è ancora più esplicito del suo collega di partito. Ad un convegno svoltosi presso l’albergo ‘Cavallino bianco’ di Monte Terminillo dice ai convenuti che è venuto il momento di “rovesciare l’attuale classe dirigente italiana, incapace di garantire la sicurezza nazionale, la pace sociale e il progresso civile”. Si potrebbe scambiarla per una terminologia ‘golpista’ se il personaggio non fosse conosciuto come frequentatore del ministero degli Interni.
Non c’è solo la destra ad agitare lo spettro della guerra civile e a predicare l’urgenza e la necessità di agire per restituire all’Italia un regime anticomunista. Il 18 luglio 1969, il sindaco comunista di Bologna, Fanti, “rende noto il testo di una circolare diffusa negli ambienti militari dell’Anca (Associazione ufficiali combattentistici attivi) con sede a Bologna, secondo cui ‘la situazione interna ci fa pensare all’eventualità che le forze armate debbano entrare in azione per difendere la libertà democratica e la Costituzione impedendo violenze, distruzioni, sovvertimenti…Si tratterà di collaborare con le forze dell’ordine e di agire anzi con quelle, se necessario, alle dipendenze di un’unica autorità”. Parole chiare, esplicite sugli intendimenti e i propositi che animano gli ambienti politici anticomunisti, e che hanno solo il torto di essere pronunciate da ufficiali in congedo. Ma il 31 luglio 1969, intervengono anche quelli in servizio permanente effettivo. Lo fanno con una lettera inviata al generale Enzo Marchesi, capo di Stato maggiore dell’Esercito, pubblicata sulla rivista amica del ministero degli Interni “Il Borghese”, diretta da Mario Tedeschi. Gli ufficiali sollecitano al loro superiore gerarchico l’ordine di “reagire singolarmente e collettivamente, con i fatti e se necessario con le armi, a qualsiasi aggressione, a qualsiasi offesa alla Bandiera, all’uniforme, all’essenza spirituale e materiale dell’organismo militare”. Parole gravi, pronunciate da ufficiali in servizio che, però, sanno di poterle indirizzare pubblicamente al capo di Stato maggiore dell’Esercito perché quello che sta accadendo nei fatti è molto più grave.
Non ci sono, difatti, solo le note informative, le riunioni, le lettere aperte, gli incitamenti a combattere con ogni mezzo il comunismo e a rovesciare la classe dirigente perché troppo imbelle per farlo, ci sono anche i gesti concreti, quelli che l’allarme nell’opinione pubblica lo generano effettivamente.
Il primo attentato si verifica a Roma il 28 febbraio 1969, il giorno successivo alla visita di Richard Nixon, al quale il Msi ha dedicato un’intera pagina del suo giornale, “Il Secolo d’Italia” per dirgli: “Attenzione Nixon! L’Italia si prepara a tradire gli impegni atlantici sottoscritti con gli Stati uniti e a portare i comunisti al potere”. Le violente manifestazioni di piazza sembrano avvalorare, agli occhi del presidente americano, questa previsione sul possibile cedimento democristiano al Pci probabilmente confermata dal presidente della repubblica Giuseppe Saragat nel corso dei loro colloqui. Qualcosa accade, quel giorno. Una direttiva viene impartita insieme ad una rassicurazione che rende certi gli operanti sull’avallo della Casa bianca al cambiamento interno in Italia, alla formazione di un governo e di un parlamento in grado di neutralizzare una volta per tutte, la lenta ma progressiva avanzata elettorale del Pci.
E a Roma, proprio quel 8 febbraio 1969, viene compiuto un attentato dinamitardo contro un ingresso secondario di Palazzo Madama, in via della Dogana vecchia. Il 27 marzo successivo, un ordigno similare viene fatto esplodere, sempre a Roma, presso il ministero della Pubblica istruzione. Quattro giorni più tardi, il 31 marzo, ancora nella capitale, viene compiuto un attentato contro il Palazzo di giustizia, questa volta rivendicato con un volantino che ne attribuisce la paternità agli anarchici. Ma non tutti ci credono. Non l’organo di stampa del Vaticano, ad esempio, “L’Osservatore romano” che scrive: “Il commercio degli esplosivi non è come il commercio di ortaggi. E poiché la polizia non sta certo inattiva e non manca di collegamenti e controlli, si deve concludere che le iniziative sciagurate contano su una immancabile complicità o connivenza ed omertà”. Una denuncia esplicita nei confronti degli esecutori degli attentati e dei loro mandanti.
Anche a Padova iniziano gli attentati: contro la casa del questore, lo studio del rettore dell’Università eccetera. Il 23 agosto 1969, quando il pregiudicato Livio Juculano conferisce con il sostituto procuratore Anna Maria Di Oreste rivelandole quanto sa sul conto del gruppo padovano afferma: “…Il mandante degli attentati a Roma è il già menzionato avvocato Freda di Padova”. Tutti hanno pensato che si riferisse agli attentati ai treni dell’8-9 agosto 1969, ma il pregiudicato missino sa perfettamente che non sono avvenuti a Roma, si riferisce quindi ad altri attentati, solo che nessuno si prenderà mai la briga di accertare quali.
Il 21 marzo 1969, Armando Cossutta responsabile dell’organizzazione del Pci, invia alle federazioni provinciali 4 circolari per invitarle “ad assumere misure straordinarie di sicurezza e a tenere presente che i telefoni sono sotto controllo”. Cossutta non ha mai spiegato le ragioni dell’allarme imposto all’apparato del partito che aveva ragioni ben più valide che non gli attentati che, fino a quel momento, erano stati di carattere dimostrativo ed erano diretti contro le sedi di organismi istituzionali non contro quelle del partito. È il primo segnale, non ancora pubblico, che i vertici del Partito comunista italiano temono che stia accadendo qualcosa di grave nel Paese, che avvertono in modo distinto la minaccia che si sta profilando. Il secondo segnale lo lancia il quotidiano del Pci, “l’Unità” il 7 settembre 1969 quando scrive che in Italia, dal 6 luglio 1969, è scattato l’allarme Nato con “l’approntamento di un piano segreto, che prevede in caso di necessità la mobilitazione delle basi militari e l’occupazione di ministeri, partiti, giornali da parte di unità speciali dell’esercito e dei carabinieri”.
Prima del quotidiano comunista, era stato Giangiacomo Feltrinelli a lanciare l’allarme pubblicando proprio nel mese di luglio un libretto dal titolo “Estate 1969” con sottotitolo “La minaccia incombente di una svolta radicale e autoritaria a destra, di un colpo di stato all’italiana”. Non denunciano, come si vede, colpi di stato fascisti bensì l’approntamento di piani Nato e svolte autoritarie a destra. Nell’imminenza del pericolo, il Partito comunista italiano non è disponibile ad inventare congiure nazifasciste contro la democrazia degli Andreotti e dei Fanfani in concorso con i servizi ‘deviati’ ma afferma la verità che conosce e la pubblicizza nella speranza di evitare in extremis che l’Italia segua la sorte della Grecia dove la Nato ha applicato, il 21aprile 1967, il ‘piano Prometeo’ generando un regime militare anticomunista e fidato.
Ma per un partito politico che a giusta ragione si allarma e si cautela, ce n’è un altro che predispone il proprio apparato alla partecipazione al ‘golpe’ istituzionale con motivazioni ovviamente opposte. Il segretario nazionale del ‘Raggruppamento giovanile studenti e lavoratori del Msi’ invia ai propri dipendenti periferici, il 29 ottobre 1969, un “foglio disposizioni straordinario”: “La drammaticità – scrive – della situazione presenta chiari sintomi pre-insurrezionali, impone la mobilitazione generale e costante di dirigenti e gregari per l’approntamento dei mezzi e delle misure corrispondenti. Inviati del centro prenderanno contatto diretto con i responsabili dei coordinamenti regionali per concordare iniziative e programmi. Intanto si dispone tassativamente: che i dirigenti provinciali siano a disposizione delle federazioni in continuità; che stabiliscano contatto con i coordinatori regionali e con la direzione nazionale giovanile; che nessuna iniziativa attivistica in loco o in trasferimento deve essere intrapresa senza preavviso o consenso della direzione nazionale giovanile, avuto riguardo al rapporto di forze con l’avversario, all’ambiente, agli impegni attivistici in atto altrove. Esprimendo e disciplinando tutte le nostre energie, saremo certamente in grado di replicare duramente all’offensiva dei sovversivi e dare un alt al comunismo”.
Pochi giorni dopo, il 5 novembre 1969, il ministero degli Interni e in prima persona il suo titolare, Franco Restivo, registrano che appartenenti al ‘Raggruppamento giovanile’, alla ‘Giovane Italia’, al ‘Fuan’ e al ‘settore volontari’ del Msi stanno rassegnando in massa le dimissioni, ufficialmente, per organizzarsi fuori dal partito allo scopo di ‘reagire’ alle provocazioni dei ‘cinesi’ e dei comunisti senza coinvolgerlo. In realtà, Armando Mortilla, il noto confidente ‘Aristo’ fa notare che queste dimissioni vengono inviate “tutte allo stesso modo, vale a dire trasmesse con lettere raccomandate”. È un eccesso di prudenza da parte del vertice missino che mette la sua manovalanza a disposizione degli apparati dello Stato ma, a scanso di futuri equivoci, ne fa risultare i componenti fuorusciti dal partito. E l’unico modo per avere un riscontro è fargli presentare le dimissioni con lettere raccomandate, le sole per le quali è possibile conservare le ricevute da esibire un domani a ipotetici inquirenti.
Due giorni più tardi, il 7 novembre 1969, a Viareggio si svolge presso lo studio dell’avvocato Giuseppe Gattai una riunione che raccoglie altri ‘salvatori della Patria’ del calibro di Adamo Degli Occhi, Carlo Fumagalli, il presidente del tribunale di Monza Giovanni Sabalich, l’ammiraglio della riserva Giuseppe Biagi, il missino Franco De Ranieri, Raffaele Bertoli ed altri ancora che ritroveremo puntualmente nelle tappe successive della ‘strategia della tensione’. La riunione è patrocinata, dirà Adamo Degli Occhi al giudice istruttore di Brescia Giovanni Simoni, alcuni anni più tardi, da Amintore Fanfani e Randolfo Pacciardi ai quali, evidentemente, una manovalanza solo missina non basta, gliene serve altra qualificabile di centro e magari con un passato di partigiano ‘bianco’ come Carlo Fumagalli, notorio terrorista legato al ministero degli Interni. Nasce così la ‘Lega Italia unita’ che rappresenta il parallelo organismo di centro del Fronte nazionale a destra, ambedue ufficialmente apartitici. Di cosa si è parlato nel corso della riunione, lo rapporta una ‘fonte confidenziale’ alla polizia il 24 marzo 1970: “Si sarebbe esaminata l’opportunità di compiere azioni di forza, non esclusi attentati” e Carlo Fumagalli si sarebbe attivato impegnandosi a raccogliere armi “appoggiandosi ad un deposito militare della zona”.
Quella di fare attentati è evidentemente ritenuta una necessità imperiosa se il 15 novembre 1969, a Roma, durante una riunione a piazza Tuscolo ad Evelino Loi, un dirigente del Fronte nazionale ed ex ufficiale della Decima Mas, si propone di compiere azioni terroristiche suscettibili di provocare anche dei morti.
Non a caso, nello scorrere la lunga lista di testimonianze e note informative degli apparati dello Stato che tutto registrano e parte archiviano, in questa valanga di attentati fatti e proposti non ce n’è uno solo che riguardi l’odiato Partito comunista italiano e gli aborriti ‘filocinesi’, ma tutti invece sono indirizzati a provocare ‘vittime innocenti’ e colpire sedi istituzionali (non uomini delle istituzioni) e simboli del capitalismo. La logica si rintraccia in un documento dell’agenzia della Cia che opera da Lisbona, l’ ‘Aginter Press’ diretta dal francese Yves Guerin Serac, dal titolo “La nostra azione politica”, edito nel 1968 in forma riservatissima, nel quale si afferma esplicitamente che bisogna procedere al compimento di “azioni di forza che sembreranno fatte dai nostri avversari comunisti” così che si “creerà un sentimento di antipatia verso coloro che minacciano la pace di ciascuno e della nazione…”.
Un piano perfetto per giungere alla proclamazione dello stato di emergenza con il generale consenso dell’opinione pubblica, ben lieta di rinunciare temporaneamente ad alcune libertà fondamentali pur di riavere pace e sicurezza.
E questo era l’obiettivo.
La prima autorevole conferma, sia pure in una forma dissimulata e reticente, viene dal prefetto Angelo Vicari, capo della polizia dal 1960 al 1973, che nell’aula della Corte di assise di Roma, durante la sua deposizione al processo per il cosiddetto ‘golpe Borghese’ afferma: “La Questura conduceva indagini sul Fronte nazionale, per una serie di tentativi di colpi di Stato messi in atto prima e dopo la famosa notte del ‘Tora Tora’. Di questi episodi, ripeto, se ne sono verificati più d’uno. Il più grave, quello che destò maggior allarme, avvenne nel luglio 1969”.
Un ‘avvertimento’, quello lanciato dall’ex capo della polizia a quell’ambiente andreottiano che il processo per il ‘golpe Borghese’ aveva voluto, ma pur sempre una verità che gettava luce nuova su quanto era accaduto nel 1969. Il processo di piazza Fontana era ancora in corso, ma nessuno raccolse quell’ammissione troppo scottante per farne la base di indagini finalizzate a chiarire la motivazione della strage del 12 dicembre 1969.
Il 23 settembre 1982, il pentito ordinovista Paolo Aleandri rivela ai magistrati romani che lo interrogano sul ‘golpe Borghese’ che, fra i coautori del piano che doveva consentire, l’8 dicembre 1970, di instaurare in Italia “un regime militare sostenuto da alcune forze istituzionali che avevano dato il loro tacito assenso all’intera operazione”, vi era Guido Giannettini. Il coordinatore dei gruppi operativi romani e veneti, avanguardisti e ordinovisti nel 1969, sarebbe stato quindi presente con un ruolo di primo piano anche nel secondo tentativo di giungere ad una soluzione politica della crisi italiana il 7-8 dicembre 1970. Gli uomini erano gli stessi: Borghese, Delle Chiaie, Giannettini, Almirante, il piano praticamente identico con qualche variante resa necessaria dal fallimento del primo, quello del 12 dicembre 1969 ma, benché il processo di piazza Fontana fosse ancora in corso, nessuno se ne dette per inteso.
La conferma delle dichiarazioni di Paolo Aleandri giunge più tardi. Il pentito ordinovista Sergio Calore, altro elemento dell’entourage di Paolo Signorelli, dichiara al giudice istruttore di Milano Guido Salvini il 21 ottobre 1991: “In merito a quel periodo posso dire che mi fu riferito un discorso relativo al significato degli attentati del 1969 in relazione ai progetti di golpe. Mi fu detto – quando ero ancora libero – che secondo il programma del cosiddetto golpe Borghese, che fu tentato nel dicembre 1970, doveva in realtà [avvenire] un anno prima, e che la collocazione delle bombe, nel dicembre 1969, aveva proprio la finalità di far accelerare questo progetto comportando nel Paese una più diffusa richiesta d’ordine e il discredito delle forze di sinistra in genere, che sarebbero state additate come responsabili e corresponsabili dei fatti”.
È l’attuazione concreta del programma esposto d Yves Guerin Serac, il rinnegato francese agli ordini della Central Intelligence Agency.
Il 28 febbraio e il 14 marzo 1990, alle precedenti si aggiunge la testimonianza di Enzo Generali che fissa già al gennaio 1969 il piano per giungere alla dichiarazione dello stato di emergenza in Italia. A parlargliene era stato Otto Skorzeny, amico di Junio Valerio Borghese e da questi informato di quanto si stava preparando “con la partecipazione di militari di alto grado e personalità politiche di centro – centrodestra” fra i quali citò l’ammiraglio Gino Birindelli, spalleggiato da tutto lo Stato maggiore della Marina militare, il servizio segreto militare diretto allora dall’ammiraglio Eugenio Henke. “Il progetto – ricorda Generali – era quello di far cessare autoritativamente l’esperienza del centrosinistra in Italia e di riassestare l’ordine interno privilegiando l’industria”.
La testimonianza di Enzo Generali, persona ben informata per le attività svolte negli anni Sessanta, giunge con 21 anni di ritardo, aggiungendosi alle precedenti e non suscitando anch’essa l’interesse primario della magistratura italiana impegnata a individuare qualche portatore di valigia oltre a quelli identificati, e puntualmente assolti per insufficienza di prove.
Eppure, era trascorso poco tempo dalla strage del 12 dicembre 1969 e la verità era già nei verbali giudiziari a disposizione della magistratura italiana. Ruggero Pan aveva dichiarato al giudice istruttore di Treviso Giancarlo Stiz, che nel pomeriggio del 19 aprile 1969, Giorgio Freda gli aveva parlato “di una serie di attentati che stava conducendo, in particolare quello da lui commesso il 15 aprile nello studio del rettore dell’Università di Padova, e di avere in mente un ampio programma di attentati per la cui esecuzione gli occorreva l’appoggio di altre persone, estremisti sia di destra che di sinistra, che non era il caso di prendersi cura della massa né di proporsi subito il problema della qualificazione politica del nuovo regime…”
Quale significato poteva attribuirsi alle parole di Giorgio Freda, riportate da Ruggero Pan, diverso da quello che esse esprimevano? Che dalle bombe, dai morti, dal sangue sarebbe emerso un nuovo regime che non sarebbe stato ‘fascista’ ma semplicemente di centrodestra o più genericamente anticomunista ad oltranza. Per questo, Freda spiega al suo adepto che non bisogna “proporsi subito il problema della qualificazione politica del nuovo regime”, apparendogli difatti contraddittorio operare in modo sanguinario (“non era il caso di prendersi cura della massa”) per appoggiare un regime che si collocava ideologicamente all’antitesi del fascismo e del nazionalsocialismo di cui si presentava come fanatico assertore.
Ma la testimonianza di Ruggero Pan cade nel vuoto. E identica sorte venne riservata a quella, altrettanto fondamentale, di Franco Comacchio. Costui aveva testimoniato che il 10 dicembre 1969 Angelo Ventura, al ritorno dall’aeroporto di Venezia dove aveva accompagnato il fratello Giovanni diretto a Roma, gli aveva confidato che “tra poco sarebbe avvenuto qualcosa di grosso; in particolare una marcia di fascisti a Roma e qualcosa sarebbe avvenuto nelle banche”.
Il collegamento fra gli attentati nelle banche e la manifestazione indetta dal Msi a Roma per la data del 14 dicembre non poteva essere più diretto, fatto da Angelo Ventura che tutto sapeva dell’attività del fratello. Proprio quel 10 dicembre 1969 appariva sulla rivista tedesca “Der Spiegel” una intervista di Giorgio Almirante che spiega come sia giunto, in Italia, il momento di non fare più distinzioni fra mezzi politici e militari per definire una volta per sempre la situazione nel Paese bloccando l’avanzata del comunismo.
Sempre il 10 dicembre 1969, l’avvocato Vittorio Ambrosini partecipa ad una riunione a Roma in via degli Scipioni, presente un deputato del Msi, dove si parla di andare a Milano “e buttare tutto all’aria”.
Il giorno successivo, 11 dicembre 1969, una rivista anticomunista ma non certo catalogabile come ‘fascista’, “Epoca”, compare nelle edicole con una vistosa copertina tricolore ed un articolo nel quale Pietro Zullino, giornalista vicino al socialdemocratico Italo De Feo, scrive che se si giungerà ad elezioni politiche anticipate e le sinistre non dovessero accettare il responso delle urne “le Forze armate potrebbero essere chiamate a ristabilire immediatamente la legalità repubblicana”.
Ma questa poteva essere anche ripristinata se, subito dopo le stragi del 12 dicembre le opposte fazioni si fossero affrontate sanguinosamente nelle piazze e nelle strade. Ed è quanto si proponevano gli organizzatori della manifestazione fissata per il 14 dicembre 1969. Il piano non era nuovo, risaliva difatti alla primavera del 1964 ed era stato approntato dagli stessi ambienti politici e militari che, cinque anni più tardi, portavano a compimento quanto all’epoca avevano ipotizzato.
Una nota informativa americana del 25 giugno 1964, basata su notizie pervenute entro il 28 maggio, affermava che in Italia in futuro poteva avvenire un colpo di Stato il cui pretesto sarebbe stato fornito da una manifestazione pubblica che, se avesse provocato “una contromanifestazione dell’estrema sinistra, i carabinieri sarebbero immediatamente chiamati ad agire, rinforzati dalle Forze armate”.
Un piano che riecheggia nelle parole dette alla moglie dal generale Giovanni De Lorenzo, il 16 luglio 1964, dopo aver partecipato alla riunione con i vertici della Democrazia cristiana in casa di Tommaso Morlino: “Vogliono farmi diventare un altro Bava Beccaris. Ma non ci riusciranno”. E il generale Bava Beccaris è passato alla storia per aver massacrato a cannonate decine di operai milanesi ed essere stato, per questa ragione, decorato da Umberto I, il cosiddetto ‘re buono’.
Questo piano, maturato all’interno dei vertici democristiani, avrebbe visto come protagonista il solito Movimento sociale italiano che avrebbe prestato i suoi militanti, i suoi simpatizzanti, per un’operazione sanguinosa come quella che avevano programmato per il 12 e 14 dicembre 1969. Un piano che ritroveremo applicato alla lettera il 7 e 12 aprile 1973, sempre a Milano, con la strage fortuitamente mancata sul treno Torino-Roma e la successiva manifestazione organizzata da Franco Maria Servello ed accoliti nel corso della quale il lancio di una bomba ucciderà l’agente di Ps Antonio Marino. Un piano che aleggia dopo ogni strage, da Brescia a Bologna, e che è fallito per una sola ragione: che è venuta a mancare la risposta violenta di piazza della sinistra, forse perché i vertici del Pci erano venuti a conoscenza dei progetti di quanti volevano arrestare la sua avanzata elettorale erigendo una barricata di cadaveri.
Il dopo piazza Fontana è, quindi, una storia di depistaggi senza fine, intervallati qua e là da qualche luce, subito attenuata o spenta perché il regime ha ancora oggi paura della verità sul 12 dicembre 1969, e che noi invece continueremo a raccontare e a provare perché un giorno, non importa quanto lontano nel tempo, i colpevoli e i complici possano rispondere di quanto hanno compiuto contro il loro popolo e la sua libertà dinanzi al tribunale della Storia.
Vincenzo Vinciguerra
[1] Nota di Andrea Carancini: A.n.g. sta per Avanguardia nazionale giovanile.
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