Separatismo
Opera, 21 agosto 1998
Premessa
Il documento che segue non persegue fini di carattere personale né segna una svolta nella mia posizione nei confronti di uno Stato e di un regime che disprezzo. Il volto cristiano della giustizia rappresenta solo un pro-memoria per coloro che hanno finto di dimenticare come, in passato, hanno chiuso capitoli ancor più sanguinosi della nostra storia solo perché le responsabilità di vertice non potevano essere diversamente occultate.
Mettere a confronto, quindi, la ‘clemenza’ degli Scalfaro e C. per i duchi, i principi, i mafiosi protagonisti della ribellione separatista siciliana, con la ‘faccia feroce’ che oggi stabiliscono nei confronti di quanti non si sono proposti di vendere agli Stati Uniti una parte del territorio nazionale ma, al contrario, di liberarsi della tutela opprimente e liberticida degli americani – e con essa dei loro servi italioti – ci è parso doveroso.
Altrettanto doverosa ci appare la risposta a quanti dagli Scalfaro e compari attendono il condono condizionato al loro ravvedimento ed al riconoscimento dei loro ‘crimini’ con conseguente condanna di un passato che, contrariamente al loro presente, è dignitoso e andrebbe difeso e rivendicato. Non è l’attesa della ‘grazia’ che devono attendere ma, eventualmente, un provvedimento di giustizia, non dettato da pelose clemenze, che si basi sul riconoscimento della responsabilità dello Stato e del regime nella guerra politica.
Un provvedimento che riapra – non chiuda – il capitolo sugli ‘anni di piombo’ per concluderlo solo dopo che esso sarà interamente chiarito.
La scarcerazione dei detenuti politici deve quindi rappresentare il primo passo verso un chiarimento storico definitivo, facendo saltare gli accordi presi da democristiani e pidiessini, con la complicità dell’immancabile magistratura italiana, per cancellare le loro responsabilità e i servigi resi a Stati Uniti ed Unione Sovietica sulla pelle degli italiani tutti. Perché coloro che sono ancora in carcere servono ancora oggi a questa classe dirigente senza dignità per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica dal tradimento da essa perpetrato nei confronti degli interessi nazionali da oltre mezzo secolo.
Depongano le illusioni quanti potrebbero intravedere in queste pagine un invito, implicito od esplicito, fatto da chi scrive a promulgare un decreto di indulto ovvero a compiere un gesto di clemenza nei confronti suoi e di quanti come lui sono ancora in carcere. È un’illusione che possono coltivare gli sciocchi e i disonesti, non coloro che comprendono come la ‘clemenza’ dei servi suoni ad offesa per coloro che, al pari di chi scrive, sono signori di sé stessi e dei loro destini.
“Onorevoli senatori. Il disegno di legge sul quale, d’incarico della Commissione da me presieduta, ho l’onore di riferirvi, ha la sua prima origine nelle dichiarazioni che il Presidente del consiglio faceva al Senato il giorno 19 agosto u.s. Egli dichiarava allora che il governo, mentre intendeva riaffermare la esigenza di difendere la maestà della legge, accogliendo tuttavia l’invito da varie parti ad esso rivolto, avrebbe presentato un provvedimento di clemenza, ispirato a sensi di larga umanità, nell’intento anche di contribuire ancora di più alla distensione degli animi e nella persuasione che la clemenza è il volto cristiano della giustizia”.
Corre l’anno democristiano 1953. A pronunciare queste alate parole è Adone Zoli, relatore di un disegno di legge per la promulgazione di un decreto di amnistia e indulto nei confronti di coloro che hanno commesso “reati… per fine politico” fino al 18 giugno 1946 (varato con legge 18 dicembre 1953 n.920).
La guerra è finita il 25 aprile 1945 ma il parlamento, compatto, avverte la necessità di promulgare una legge che allontani lo spettro del carcere o determini il ritorno a casa di quanti sono detenuti per fatti compiuti fino alla data del 18 luglio 1946, oltre un anno e due mesi dalla cessazione del conflitto. È il riconoscimento ufficiale di uno stato di guerra non dichiarato che aveva continuato ad insanguinare il Paese anche dopo che le armi avevano taciuto e i ‘liberatori’ avevano conquistato l’intero territorio nazionale. Nell’Italia tornata alla pace, dopo il 25 aprile 1945 era difatti esploso con virulenza lo scontro tra anticomunismo e comunismo ma, parallela alla guerra politica, in Sicilia era divampata la ribellione separatista.
Erano i protagonisti di quest’ultima quelli che i partiti politici, solidali fra loro, dal Movimento sociale italiano al Partito comunista, sorretti dalla benedizione vaticana, hanno allora inteso salvare con un decreto di amnistia e indulto che l’opportunismo, non il tempo trascorso, hanno fatto dimenticare in anni in cui sarebbe stato più che necessario, doveroso, rammentarlo.
La rivolta separatista siciliana non fu un moto spontaneo di popolo ma in esso, provato e sfinito dalla guerra, trovò molti consensi ed alimentò le speranze di quanti nell’infame casa Savoia vedevano il simbolo di un’oppressione brutale che durava da oltre ottant’anni; da quel 1860 che aveva visto un avventuriero di pochi scrupoli sbarcare a Marsala per sostituire una tirannide indigena con quella straniera del regno di Piemonte e Sardegna. Nell’estate del 1943 sprazzi di rivolta avevano illuminato la tormentata terra di Sicilia insanguinandone le contrade già segnate dolorosamente dalla guerra. Provocati dal desiderio legittimo di una popolazione che non voleva partecipare alla ‘guerra di Badoglio’ che nella libertà della propria terra vedeva quel tempo della pace che lo Stato italiano le aveva sempre negato furono soffocati con l’usuale durezza dall’esercito di Vittorio Emanuele III. Nella sola Comiso vi furono, secondo i reticenti dati ufficiali, fra i rivoltosi 19 morti e 63 feriti (F. Gaja, L’esercito della lupara, Milano Maquis 1990, p.166), senza contare gli arrestati, i torturati nelle caserme, i condannati. Ma in una terra in cui la dignità è più preziosa della vita non si uccide impunemente, così l’esercito di Badoglio contò 18 morti.
Se la ribellione separatista, che traeva forza e ragion d’essere da un anelito di libertà, fosse stata fomentata dal basso, e avesse trovato in sé stessa e per suo esclusivo conto i propri condottieri, sarebbe stata scritta una pagina di storia sanguinosa ma onorata. Invece, così non fu.
Alla testa del movimento separatista, a strumentalizzare quel sogno di libertà, vi erano difatti i complici degli oppressori, quelli che dallo Stato sabaudo in versione ‘democratica’ prima, fascista dopo, avevano ottenuto privilegi e benemerenze e che ora, con l’arrivo degli angloamericani, avevano intravisto la possibilità di divenire i padroni dell’isola, facendosi umili servi dei vincitori. Politici emarginati ma mai perseguitati durante il Ventennio, tornati alle loro lucrose professioni cumulando denaro e rancore; mafiosi rientrati dal confino con l’odio nel cuore; nobili che sognavano il ritorno all’antico potere non importa come e al servizio di chi. Durante la guerra avevano contribuito a ‘liberare’ dalla vita migliaia di siciliani falciati dai bombardamenti terroristici su città e paesi, collaborando segretamente coi loro massacratori; con lo sbarco ‘concordato’ fra questi ultimi, casa Savoia e lo Stato maggiore delle Forze armate italiane videro la prossima concretizzazione delle loro aspirazioni.
Fra loro vi fu chi salvò faccia ed apparenze, inneggiando al “diritto alla libertà e all’indipendenza della Sicilia” (ivi, p.133) fin dal 22 luglio 1943; e chi, invece, distribuì senza ritegno e senza vergogna migliaia di distintivi “recanti il semplice numero 49, ad indicare la Sicilia come quarantanovesima stella degli Stati uniti d’America” (ivi, p.136), rendendo in tal modo esplicite le sue intenzioni di passare da un padrone all’altro. I nomi dei capi separatisti più noti appartenevano alla politica: Antinio Varvaro, Antonio Canepa, Andrea Finocchiaro Aprile, Concetto Gallo. Poi vi era la melma mafiosa dei Calogero Vizzini e dei suoi compari e comparielli, picciotti e quaquaraquà. Ma a tirare i fili, c’erano i rappresentanti di una nobiltà più che avida, ricca e disonorata: il duca di Carcaci ed i suoi rampolli, i baroni La Motta, Cammarata, Di Benedetto, Bordonaro, Bonanno di Linguaglossa etc., solo per citare i più noti.
La truppa era altrettanto composita. Vi erano i ‘volontari’ e i ‘banditi’. I primi attratti dall’ideale separatista, i secondi richiamati da Concetto Gallo per conto di principi, duchi e baroni. E furono proprio i banditi il braccio armato del movimento separatista. Banditi lo erano certamente anche se in molti avevano una parvenza di ideali come, ad esempio, due degli esponenti più rappresentativi della banda dei niscemesi, Rosario Avila senior e Rosario Avila junior, padre e figlio che si erano iscritti, rispettivamente, l’8 marzo 1944 e il 28 aprile 1945 alla sezione del Movimento separatista di Niscemi. Gli altri “guidati ed infiammati –scriveva l’ispettore generale di P.S. Ettore Messana – dalla diabolica esaltazione di Concetto Gallo, agivano nella illusione di rifarsi la perduta verginità morale camuffandolo con il sacrificio per un ideale…” (ivi, p.229).
Senza di loro, il separatismo siciliano non avrebbe avuto storia né peso politico. I niscemesi guidati da Salvatore Rizzo erano stati arruolati, senza molti problemi, nel luglio del 1945. Più difficile era stato l’avvicinamento di Salvatore Giuliano con il quale il primo contatto ufficiale si ebbe il 15 maggio 1945 con esiti positivi (E. Magrì, Salvatore Giuliano, Mondadori, Milano 1987, pp.50-51), tanto che il bandito di Montelepre nel mese di luglio poteva essere considerato un militante separatista a tutti gli effetti.
L’arruolamento dei banditi trovò sanzione definitiva il 15 agosto 1945, nel corso di una riunione svoltasi a Palermo in casa del barone Stefano La Motta. Vi parteciparono tutti quelli che contavano: “Muniti di regolari deleghe, intervennero – scrive Filippo Gaja – don Lucio e Giuseppe Tasca, i fratelli duchi di Carcaci, Attilio Castrogiovanni, il barone Stefano La Motta, Sirio Rossi, il barone Cammarata, Concetto Gallo Nicotra, Antonino Varvaro e Finocchiaro Aprile. Intervenne anche, disdegnando qualsiasi delega e accompagnato da due guardie del corpo, don Calogero Vizzini, capo della mafia siciliana” (F. Gaja, L’esercito…cit., p. 197).
Con la sola opposizione di Antonino Varvaro, respinta da Lucio Tasca con l’obiezione che “anche Garibaldi si era rivolto ai criminali” e l’assicurazione di Calogero Vizzini che “garantì di poter assumere in qualsiasi momento il controllo dei fuorilegge, dicendo esplicitamente che contro questi ultimi nulla avrebbe potuto la polizia senza l’aiuto della mafia” (ivi, p.198), i banditi divennero soldati dell’unico ideale al quale, in fondo, potevano aderire con la speranza che il giorno della vittoria avrebbe coinciso con quello della loro redenzione.
Si ingannavano e venivano ingannati, ma erano importanti per la corrotta nobiltà siciliana. E pur di poterli avere qualcuno fra i capi del separatismo siciliano aveva provveduto a far liquidare fisicamente Antonio Canepa, legato non agli americani ma all’Intelligence service britannico, contrario ad ogni ipotesi di inquinamento della purezza dell’armata separatista con l’immissione di criminali comuni e, quel che era peggio, dotato di un carisma in grado di annullare quello di Concetto Gallo. Era Antonio Canepa il capo militare e politico dell’Evis, fino a quel 17 giugno 1945 quando, a Randazzo in provincia di Catania, i carabinieri aprirono il fuoco senza preavviso e senza motivazioni sul furgone sul quale viaggiava insieme ad alcuni suoi compagni. I carabinieri, si sa, sono coscienziosi. E anche quella volta fecero un lavoro accurato: su sei separatisti ne morirono tre, due dissanguati per le ferite ed uno sul colpo: Antonio Canepa.
L’esercito da lui creato si sgretolò: “Oltre alla brigata Canepa accampata a Cesarò – ricorda Gaja – al momento dello scontro a fuoco di Randazzo erano già in formazione in tutta la Sicilia i sedici gruppi di guerriglieri previsti da Canepa i quali, rimasti senza capo, si sciolsero” (ivi, p.196). Ora si poteva costituire un nuovo esercito separatista con a capo Concetto Gallo.
Il primo attacco, i miliziani separatisti e niscemesi insieme, lo sferrarono il 16 ottobre 1945 attaccando, in località Ape nei pressi di Niscemi, una pattuglia di carabinieri, quattro dei quali furono uccisi e un quinto ferito. La guerra contro l’Italia era iniziata.
Una guerra all’italiana, con trattative segretissime fra i capi del movimento separatista siciliano e Giuseppe Romita, ministro degli Interni, per conto del governo che giunse a ricevere una delegazione di ‘rivoltosi’ al Viminale, facendola accompagnare da un aereo militare appositamente inviato a Catania; e l’esercito ribelle che si concentrava apertamente in località San Mauro di sopra da dove avrebbe dovuto iniziare la sua marcia ‘liberatrice’ conquistando Caltagirone, patria del non compianto don Luigi Sturzo.
Nell’attesa che sorgesse l’alba del giorno fatale, i separatisti, con e senza banditi, procedettero a compiere requisizioni forzate per procurarsi viveri e sequestri di persona per autofinanziarsi. Principi, duchi e baroni non sborsavano che spiccioli: prima – ovvio – il patrimonio, poi l’ideale.
Il secondo attacco lo sferrò Salvatore Giuliano. Fallite le trattative col governo di Roma, le truppe italiane si erano disposte attorno a San Mauro, pronte ad attaccare. Era necessaria una diversione nella speranza, poi rivelatasi vana, che una parte delle forze militari italiane fosse spostata dalla Sicilia orientale a quella occidentale. Così venne impartito a Giuliano l’ordine di attaccare. Il bandito ubbidì assalendo la caserma dei carabinieri di Bellolampo, il 26 dicembre 1945, e facendo prigionieri i quattro militi che la difendevano. Troppo tardi e troppo poco.
Il 29 dicembre 1945, le truppe italiane attaccarono il campo separatista di San Mauro, impegnandosi in uno scontro a fuoco impari per la evidente sproporzione di mezzi e di uomini proprio confrontati con quelli dei rivoltosi. Lo sprovveduto ed inetto capo militare, Concetto Gallo, si auto-eliminò subito dalla scena andando con cinque uomini a catturare una pattuglia di soldati italiani, senza accorgersi che “era fiancheggiata da altri reparti, e si trovò improvvisamente sotto il fuoco” (ivi, p.239). Obbligato a rintanarsi in una buca, Gallo sparò fino all’esaurimento delle munizioni per essere poi catturato, insieme a due giovanissimi volontari, alle quattro del pomeriggio.
Ad assumere le redini del comando fu Salvatore Rizzo, il capo dei niscemesi, che diresse “la manovra di sganciamento. Fece la rapida ispezione di un sentiero e – scrive Gaja – appena la notte fu caduta, il silenzio, e in fila indiana, tenendo i cavalli per le redini, i guerriglieri si addentrarono nel bosco di San Pietro” (ivi, p.240).
La guerra guerreggiata dichiarata dal separatismo siciliano all’Italia si conclude qui, con la cosiddetta ‘battaglia di San Mauro’ che suddivise equamente le perdite: un morto e due feriti, fra i separatisti; un morto e cinque feriti fra i militari italiani. Iniziò, quindi, la guerriglia vera e propria affidata alle capacità militari dei banditi che scrissero una pagina sanguinosa, intrisa di uccisioni di appartenenti alle forze di polizia e dell’esercito, di assalti ad installazioni militari e caserme, di sequestri di persona per finanziare il movimento e poter continuare a combattere.
La storia politica del movimento separatista poté così proseguire poggiandosi sulla determinazione feroce con la quale Salvatore Giuliano e la sua banda, i niscemesi ed altri continuarono a battersi per un ideale ormai definitivamente tradito, restando soli quando gli ultimi volontari rimasti furono mandati a casa con la garanzia che la polizia non li avrebbe arrestati, pur restando a tutti gli effetti dei latitanti. La svolta, che segna anche l’inizio della manovra di sganciamento dei banditi, era stata determinata dall’ingresso in scena di Umberto II, consapevole di quanto fosse vacillante il suo trono nella primavera del 1946, ed alla ricerca di una soluzione che ponesse rimedio a quella che già si profilava come una sconfitta nelle elezioni del 2 giugno 1946.
La nobiltà separatista, in questa contingenza, dimentica degli ideali, si propone di affidare la ‘libera Sicilia’ all’erede di chi della sua libertà l’aveva privata, offrendo a Umberto II il trono dell’isola, con l’entusiastico consenso delle gerarchie militari. È l’ennesima pagina di fango, scritta con la complicità dei vertici politici, militari ed ecclesiastici, con latitanti di alto rango ricevuti al Quirinale, patti stipulati con i mafiosi, generali che fomentavano ‘movimenti rivoluzionari’ monarchici, soldi elargiti senza risparmio da casa Savoia agli ‘amici’ ed agli ‘amici degli amici’.
Ad una distanza siderale da questo mondo di operetta tragica e dai suoi burattinai, sul terreno arido e pietroso dei contrafforti montuosi della Sicilia, si consumava intanto la tragedia autentica dei banditi-separatisti. I niscemesi di Salvatore Rizzo avevano catturato, il 10 gennaio 1946, otto carabinieri, un’intera pattuglia che si era subito arresa senza sparare un colpo. Obbedivano ancora una volta agli ordini del comando separatista di Palermo che esigevano l’attacco alle forze militari e di polizia italiane, ma questa volta non disarmano i loro prigionieri, neanche li uccidono, se li portano invece appresso, benché braccati da migliaia di uomini dell’esercito e dei carabinieri, per ben diciotto giorni, senza torcere loro un capello.
Filippo Gaja nota che “a rigor di logica, un gruppo di guerriglieri in continuo spostamento non prende prigionieri, che possono rallentare la marcia, se non è costretto dalla necessità, o se non ha uno scopo ben definito, oppure se non ha l’ordine di farlo. Né è possibile – continua Gaja – attribuire l’iniziativa ai banditi per puro desiderio di vendetta, poiché questa sarebbe stata consumata subito. Tanto meno è naturale che dei banditi si portino dietro otto carabinieri legati per diciotto giorni, come in effetti avvenne” (ivi, 244-245).
Diverse sono state le ipotesi avanzate per spiegare la logica del comportamento dei niscemesi in questo frangente e comprenderne il fine, mancando in assoluto elementi di certezza. La più vicina alla verità appare essere quella di uno scambio di prigionieri: gli otto carabinieri in cambio di Concetto Gallo, arrestato a San Mauro, come abbiamo visto, il 29 dicembre 1945. Se questa è la verità – e non può non esserlo a rigor di logica – Salvatore Rizzo ed i suoi uomini obbedivano con disciplina e a rischio della propria vita agli ordini dei dirigenti del Gris (Gioventù rivoluzionaria per l’indipendenza della Sicilia). Ammette Filippo Gaja che, effettivamente, “molti anni dopo si seppe che vi fu effettivamente un principio di trattativa fra lo Stato e la guerriglia, sotto forma di colloqui segreti fra Guglielmo Carcaci e l’ispettore Messana”; e rileva come “dall’andirivieni di messaggeri sembrava che i capi dei banditi stessero discutendo con i responsabili della rivolta sul cosa fare dei prigionieri” (ivi, p.248).
Poi, come in ogni oscuro mistero, sulla vicenda e la sua tragica conclusione cala la nebbia del silenzio. Da Rosario Avila jr. si sa solo che “…un giorno verso la fine di gennaio furono raggiunti da un giovane sui vent’anni che indossava un impermeabile chiaro, il quale dopo aver salutato i presenti, parlando aveva accennato a macchine già pronte per portar via i carabinieri” (ivi, p.249), ma è doveroso dubitare della parola di un uomo incarcerato, facilmente condizionabile dai suoi carcerieri interessati ad addossare ogni responsabilità ai niscemesi sollevandone il comando separatista.
Salvatore Rizzo aveva sempre obbedito agli ordini dei dirigenti del Gris e non si comprende perché avrebbe dovuto fare eccezione in quella sola ed unica occasione, così che di certo c’è solo la visita di un emissario del duca di Carcaci e dei suoi complici. Poche ore più tardi, Salvatore Rizzo “a notte fatta ordinò a sei dei suoi uomini di fare uscire i carabinieri dalla stanza dove erano rinchiusi, legandoli a due a due con le loro stesse manette. Quindi tutti si avviarono nell’oscurità. Li fecero camminare un’ora e mezzo nella notte, poi fu dato l’alt davanti a una miniera di zolfo abbandonata in contrada Bubbonia. L’ex ergastolano Francesco Saporito disse ai carabinieri che sarebbero stati liberati e li invitò a spogliarsi senza far rumore, con la scusa che gli indumenti servivano a loro. Ma dopo che furono nudi, nel gelo della notte – ricorda Gaja – cominciò l’esecuzione. Il brigadiere aveva ancora la panciera e due carabinieri i calzini di cotone bianco d’ordinanza. Furono fucilati uno alla volta. Il più giovane, un ragazzo di vent’anni, si calò la bustina sugli occhi per non vedere, e morì così. Il costume delle stragi politiche era entrato nella storia d’Italia. Questa fu la prima” (ivi, p.195).
Fu anche la prima i cui mandanti e responsabili organizzativi vennero lasciati impuniti dalla magistratura italiana su ordine del potere politico. Agguati a pattuglie di polizia e militari, sequestri di persona a scopo di auto-finanziamento, requisizioni forzate, omicidi individuali, rivolte collettive, rastrellamenti, arresti, torture. La misconosciuta – ancora oggi – guerriglia separatista siciliana fu la prima guerra civile che sconvolse l’Italia ‘liberata’. Guerriglia che aveva come fine dichiarato il distacco di una parte del territorio nazionale per un’indipendenza da burla o, più realisticamente, il suo passaggio sotto l’amministrazione degli Stati Uniti d’America. E Stati uniti ed Inghilterra appaiono come i veri responsabili di una tragedia che il regime ed i suoi storici asserviti hanno, poi, fatto dimenticare.
Ha raccontato il prudentissimo e inetto Concetto Gallo: “Il 17 giugno (1945 nda), mentre sto per lasciare Catania, ricevo una telefonata da Guglielmo duca di Carcaci, comandante della Lega giovanile e comandante generale dell’Evis. Mi dice: ‘Hanno ammazzato Canepa. Non ti muovere. Ti verrò a prendere io’. Partimmo insieme verso Cesarò e ci rifugiammo nella ducea di Wilson, presso Bronte. Trascorsi alcuni giorni, arriva un’automobile. Alla guida c’è un ammiraglio degli Stati Uniti. Accanto, una bella signora. Dietro, Guglielmo di Carcaci con un cappello da commodoro. Entro in fretta e furia nell’automobile, mi infilo una giacca da ammiraglio degli Stati Uniti, metto in testa un berretto da commodoro e l’automobile si avvia. La città è circondata da polizia e carabinieri. Un vero presidio con posti di blocco ovunque. Ovunque uomini e barriere che si alzano solo dopo che la polizia ha controllato i documenti di chi vuole lasciare la città. Noi – prosegue Concetto Gallo – arriviamo al posto di blocco di Ognina. L’ammiraglio si fa riconoscere e la pattuglia dei carabinieri ci fa un perfetto saluto aprendo la barriera. Questo episodio mi diede personalmente – conviene il protettissimo dalla magistratura italiana Concetto Gallo – la misura della simpatia che il Movimento godeva presso gli alleati. E infatti la sera stessa, dopo una sosta con colazione a Taormina, giungemmo a Palermo dove, insieme col duca di Carcaci, fummo ospiti a villa Wittinger, che era la sede del comando alleato in Sicilia…” (ivi, p.445).
È più di un indizio, come lo stesso Filippo Gaja lo presenta: è una prova, inconfutabile e pesante come un macigno che avrebbe dovuto pesare sulla coscienza di quanti politici, militari e magistrati l’hanno rimossa in nome di una ragion di Stato che appare, viceversa, come l’ennesimo atto di servilismo nei confronti dei vincitori della seconda guerra mondiale. I lacchè seppellirono la verità sulla sanguinosa guerriglia separatista in Sicilia, e presentarono gli ‘alleati’ (di chi non lo hanno ancora spiegato) come i difensori dell’unità nazionale minacciata dall’accordo fra il partito comunista italiano e la Jugoslavia di Tito per privarci di Trieste e di qualche altro lembo di terra sul confine nord- orientale. Con il complice assenso-silenzio dei comunisti italiani hanno rimosso dal ricordo una guerriglia vera in Sicilia rimpiazzandola con un’altra, solo ipotetica, dalla parte opposta della penisola.
Ma a motivare questo processo di rimozione-sostituzione non fu la presenza esclusiva degli anglo-americani. Ad eseguire un piano accuratamente elaborato, ad arruolare uomini capaci di combattere, a fornire loro le motivazioni per farlo in modo determinato e duraturo nel tempo non potevano essere stranieri ma indigeni per di più, come abbiamo visto, fra i più facoltosi ed influenti dell’isola: nobili, politici, preti e mafiosi.
L’Ispettorato generale di P.S. della Sicilia, in un suo rapporto del 7 marzo 1946, ne aveva indicati alcuni: “Promotori ed organizzatori: Guglielmo Carcaci, Giuseppe Tasca, Rosario Cacopardo, Stefano La Motta, Concetto Gallo. Capi: Salvatore La Manna, Cammarata inteso Pippi, da identificare, Antonio Velis, Giovanni Li Mandri, Giuseppe Calabrò, Francesco Tornabene, Salvatore Giacomo Maria Graziano, don Ciccio da Caltagirone, da identificare, Pasquale Sciortino, Bordonaro, da identificare, altro Bordonaro, da identificare, Pietro Franzone…” (ibidem). Ma, in quel rapporto, di rilievo non c’erano solo i nomi, c’era anche il riconoscimento esplicito di un’unità di comando che aveva reso possibile lo sviluppo coordinato ed armonico della guerriglia in Sicilia: “All’unità di comando – scriveva difatti l’ispettore generale di P.S. Ettore Messana – delle due formazioni ribelli operanti nella Sicilia orientale e occidentale si credette contrapporre la unicità di indirizzo e di coordinamento nelle indagini che andavano svolgendo i vari organi di polizia dell’isola…” (ivi, p.284). E la conferma giunge dall’interno della stessa organizzazione separatista, come diretta conseguenza dei “primi arresti dei responsabili dalle cui dichiarazioni emergeva subito la colpa dei dirigenti del Gris tra cui troneggiano le figure del duca di Carcaci, di Giuseppe tasca e del barone La Motta” (ibidem).
Vi erano tutti i presupposti per fare un processo clamoroso, alla cui conclusione la verità sarebbe necessariamente emersa in ogni suo risvolto, anche il più oscuro e recondito. Ma a chi poteva convenire l’accertamento della verità e la sua proclamazione in sede giudiziaria e storica? A nessuno. Tutti, semmai, avevano l’interesse opposto: soffocare la verità, distruggerne financo i frammenti sia per evitare che venisse riconosciuta la responsabilità degli ‘alleati’ e dei vertici politici, militari ed ecclesiastici italiani che con la gerarchia separatista avevano trattato, brigato, preso accordi rendendosene complici, sia perché i capi e una parte dell’esercito separatista si erano avviati a divenire la milizia politica e militare della Democrazia cristiana, dell’anticomunismo trasformandosi nel braccio armato dello Stato.
La polizia, consapevole di questa realtà, aveva proceduto subito a salvare i propri complici e confidenti in coppola e lupara. Nel citato rapporto del 7 marzo 1946, l’ispettore generale di P.S. Ettore Messana, uno dei protagonisti di questa ignobile pagina di storia, si era premurato di specificare che “nessuna responsabilità concreta è stata accertata a carico del Calogero Vizzini, il quale pur separatista, nulla avrebbe avuto a che fare con il Gris…” (ivi, p.266). E con il riconosciuto pubblico capo della mafia siciliana “nessun altro elemento di spicco della mafia – rileva Filippo Gaja – ebbe l’onore della citazione nei rapporti di polizia“ (ibidem).
Lo stesso accadde con i capi separatisti. “…Lucio Tasca barone di Bordonaro – scrive ancora Gaja – rimase tranquillamente nella sua sontuosa villa in attesa degli avvenimenti…In definitiva, furono perseguiti quali ispiratori ed organizzatori della guerriglia soltanto il duca Guglielmo di Carcaci, Giuseppe Tasca, l’avvocato Rosario Cacopardo, il barone Stefano La Motta e Concetto Gallo; ma solo gli ultimi due raggiunsero il carcere, in attesa dell’amnistia, e dopo pochi mesi riottennero la libertà” (ibidem).
Le ragioni ufficiali di tanta benevolenza le spiega il comandante dell’Arma dei carabinieri, Brunetto Brunetti, in una relazione inviata il 18 febbraio 1946 ad Alcide de Gasperi: “A loro carico – scrive – non sono affiorati convincenti elementi di diretta partecipazione all’organizzazione del Gris e delle bande armate, per cui finora non sono state raccolte prove sufficienti a giustificare il loro arresto e la conseguente denuncia all’autorità giudiziaria. Al loro fermo si è anche soprasseduto perché, da quanto ha riferito il commendator Messana, il ministero dell’Interno non intenderebbe allargare troppo le repressioni, che verrebbero limitate alle sole persone direttamente coinvolte nelle azioni criminose, e ai loro fiancheggiatori…” (ivi, p.267).
Ministro degli interni, all’epoca, era il socialista Giuseppe Romita, ministro di Grazia e giustizia il comunista Palmiro Togliatti. Con questi ‘rappresentanti del popolo’, nobili e nobilastri sarebbero rimasti fuori dalle inchieste, e a pagare per tutti sarebbero stati i proletari che li avevano ingenuamente seguiti in nome di un ideale di libertà che, per loro, significava anche la fine dell’oppressione economica e dello sfruttamento. Nell’ipocrita distinzione operata dal socialista Giuseppe Romita in concorso con il comunista Palmiro Togliatti fra coloro che possono essere ‘repressi’ perché ‘direttamente coinvolti nelle azioni criminose’ e coloro che lo devono essere, c’è una filosofia politica e giudiziaria che, da allora, è rimasta inalterata: gli esecutori pagano, i mandanti e gli organizzatori no.
In quanto alle ‘prove’ si nega con estrema disinvoltura che esistano o che siano sufficienti, come ha fatto il comandante Brunetti che ha ignorato bellamente quanto gli aveva messo per iscritto il suo subalterno, generale Branca, responsabile dei carabinieri in Sicilia: “l’idea di aggregare ad elementi di fede separatista malfattori comuni è una trovata di Lucio Tasca, capo del Gris – aveva scritto Branca – specificando che capi del Gris e promotori delle violenze sono: don Guglielmo Carcaci, Giuseppe Tasca, figlio di Lucio Tasca, barone Cammarata, barone Stefano La Motta, avvocato Silvio Rossi, avvocato Di Benedetto” (O. Barrese – G. D’Agostino, La guerra dei sette anni, Rubbettino, Messina 1997, p.83).
Dopo polizia e carabinieri, a completare con precisione chirurgica l’ingiustizia salvando i forti e condannando i deboli interviene la magistratura italiana, da sempre gelosa custode della sua dipendenza da ogni potere politico, non importa quale purché garantisca carriera e stipendio. Inizia la Procura generale di Palermo a compiere l’opera di divisione fra i volontari del Gris, da salvare, e i banditi, da condannare, applicando il 9 marzo 1947 l’amnistia Togliatti a 183 imputati e inviando “alle Corti d’assise competenti secondo criteri territoriali i giudizi per fatti che non potevano rientrare nell’amnistia” (F. Gaja, L’esercito… cit., p. 446). La frammentazione del processo in tanti rivoli è, difatti, la premessa indispensabile per non fare emergere il disegno unitario del separatismo siciliano, coordinato da un unico vertice che aveva avuto ai suoi ordini non bande separate ma un solo esercito.
Una realtà, questa, che era presente negli atti processuali come nei rapporti di polizia e carabinieri nei quali la ‘banda Avila’ e la ‘banda Giuliano’ erano inserite nell’organico del Gris. Ma cosa vale la verità, quand’anche conosciuta dall’intera popolazione, per l’arrogante magistratura italiana? Nulla. Dopo aver salvato i capi del separatismo, i ‘promotori delle violenze’, bisognava chiudere il capitolo concedendo ‘clemenza’ ai ‘volontari’ per riservare ai soli banditi un trattamento feroce e vendicativo.
Un esempio emblematico e significativo di una disparità di trattamento, che non può che definirsi ignobile, viene fornito dal raffronto di quanto hanno scritto i magistrati nelle sentenze emesse, rispettivamente, a carico di Concetto Gallo e dei superstiti della ‘banda dei niscemesi’. Sul conto del primo, i giudici della Corte d’assise, rievocando la ‘battaglia di San Mauro’, non esitarono a scrivere: “…L’ambiente è quello della battaglia che vede contrapposti due piccoli eserciti, il regolare comandato da tre generali e quello dei ribelli contro l’ordine costituito comandato da Concetto Gallo che agiva per un ideale, sia pure condannevole per il sovvertimento che si proponeva, ma pur sempre un ideale…” (ivi, p.288). Sui secondi, in tutto quattro imputati fra i quali Vincenzo Milazzo, i giudici della Corte d’assise di Caltanissetta, territorialmente competente per la strage di Feudo nobile, risolsero così il problema rappresentato dalla milizia degli accusati nell’esercito separatista: “…la predetta banda (composta tutta di avanzi di galera, di evasi e di pregiudicati) successivamente si aggregava (al Grsi, nda) al solo intimo proposito di mascherare e rafforzare il raggiungimento delle proprie finalità, rivolte unicamente alla consumazione dei più gravi delitti…” (ivi, p.286).
Giustizia era fatta.
Se questi furono i giudici, non migliore di loro fu il codardo Concetto Gallo che dei niscemesi era stato l’arruolatore ed il capo, e per la cui liberazione erano stati prima fatti prigionieri, poi uccisi, gli otto carabinieri di Feudo nobile. Non una parola o un gesto sprecò Concetto Gallo in loro difesa. Assistette in silenzio allo spettacolo miserando del massacro giudiziario di quel che restava dei suoi uomini cumulando i benefici che a lui venivano concessi in nome della sua complicità con il potere politico. La storia giudiziaria di Concetto Gallo è difatti quella di un salvataggio sistematico e sfacciato.
In relazione alla costituzione ed all’attività dell’Evis il 19 settembre 1946 il giudice aveva rinviato a giudizio quaranta persone riuscendo nell’impresa di accusare i subalterni di essere i capi e i capi di essere i vivandieri, tanto che il duca di Carcaci e Concetto Gallo vennero ritenuti colpevoli “solo di ‘aver fornito informazioni e viveri’ “(ivi, p.441). Nel processo, svoltosi a Catania, contro la banda dei niscemesi “inizialmente – ricorda Filippo Gaja – era imputato anche Concetto Gallo, esattamente per undici capi di imputazione. Ma poi fu prosciolto” (ivi, p.285).
Nel processo per l’uccisione del brigadiere dei carabinieri Giovanni Cappello, avvenuta a San Mauro il 29 dicembre 1945, la Corte d’assise giunse al punto – fatto di eccezionale rarità in un tribunale italiano – di disattendere la testimonianza di un ufficiale dei carabinieri, ritenendola meno attendibile di quella dell’imputato Concetto Gallo, pur di evitargli il carcere. Riuscirono, così, quei giudici a condannarlo per omicidio preterintenzionale il 28 ottobre 1950, e “il reato – annota Gaja – fu dichiarato estinto per amnistia e il mandato di cattura contro Gallo revocato” (ivi, p.288). La famiglia del sottufficiale dei carabinieri ucciso si ribellò ad una sentenza che le apparve scandalosa. Propose appello e chiese ed ottenne il trasferimento del processo ad altra sede per legittima suspicione. Questa volta, la Corte d’assise di appello riconobbe Concetto Gallo responsabile di omicidio volontario e, il 18 novembre 1954, lo condannò a quattordici anni di reclusione. Ma, per effetto del decreto di amnistia e indulto promulgato dal Presidente della repubblica il 18 dicembre 1953, la pena venne interamente condonata.
Giustizia era fatta.
Dopo la discriminazione fra i capi e i gregari del separatismo siciliano, quella fra questi ultimi e i banditi, ve ne fu una terza fra banditi e banditi. Risparmiati dai mitra dei carabinieri e dalle lupare dei mafiosi, Salvatore Giuliano ed i suoi uomini vennero graziati anche dal bisturi giudiziario che su di loro non intervenne. Anzi, il procuratore generale di Palermo, Emanuele Pili, risulta documentalmente provato che incontrò almeno una volta Giuliano recandogli “grande conforto” (ivi, p.333). “Un bandito inseguito da centinaia di ordini di arresto, che incontra privatamente il capo della giustizia – commenta Filippo Gaja – è un fatto oggettivamente molto insolito, spiegabile solo con motivazioni straordinarie che però non sono mai state spiegate” (ivi, p.336). Negli anni Settanta e successivi si sarebbe visto anche di peggio, perché gli anni passano ma la magistratura resta.
A parere di Filippo Gaja, l’impunità di Salvatore Giuliano derivò dal fatto che “se fosse comparso in Corte d’assise forse avrebbe potuto documentare la sua alleanza con i finanziatori e dirigenti del Gris e avrebbe fatto delle chiamate di correo, poiché non aveva una natura remissiva. Era uno che non perdonava. Difficilmente avrebbe acconsentito di essere il solo a pagare per i delitti dei quali si era macchiato in nome dell’indipendentismo, se era convinto, come era convinto, d’essere stato indotto a compierli per uno scopo politico” (ivi, p.288.289). Noi siamo meno ingenui perché riteniamo che mai, nemmeno per un momento, a politici, magistrati e uomini delle forze di polizia è venuto in mente di condurre Salvatore Giuliano vivo dinanzi ad una Corte d’assise. A nostro giudizio, quindi, la discriminazione fra Salvatore Giuliano e Salvatore Rizzo non derivò dalla maggiore capacità di ricatto del primo rispetto al secondo, quanto dal fatto che il bandito di Montelepre, dopo la causa separatista, aveva abbracciato quella anticomunista, mentre il secondo non aveva compreso la realtà che si era determinata in Sicilia e nel paese o, più semplicemente, non gli interessava.
“Uccidetemi se per caso diventassi comunista”, aveva ordinato Giuliano ai suoi gregari Pisciotta e Ferreri. Si comprende – scrive Gaja – perché alle elezioni del 2 giugno 1946 si ebbero solo 21 voti comunisti e socialisti a Montelepre” (ivi, p.301). Si comprende anche perché a Salvatore Giuliano e alla sua banda venne concessa una proroga sulla vita e piena libertà di azione, culminata nella strage di Portella delle ginestre il 1 maggio 1947. La Democrazia cristiana, la Chiesa di Roma, le forze anticomuniste italiane e straniere avevano bisogno di uomini come lui per imporre con il terrore il nuovo ordine che in Sicilia si rappresentava, in quegli anni, con la croce e la lupara. Poi, anche Salvatore Giuliano divenne un subalterno scomodo, da uccidere. E gli ammazzati rappresentano l’altra faccia della giustizia italiana, altrettanto efficiente di quella ufficiale.
“Ho già riferito all’inizio della presente relazione – scriveva il 28 aprile 1947 l’ispettore generale di P.S. Ettore Messana al capo della polizia – che gli ultimi tre componenti della banda, fra cui il capo di essa, il pericoloso pregiudicato Salvatore Rizzo, sono stati eliminati con l’ultima decisa azione del 19 febbraio scorso. Il bandito Rizzo, ferito, ha continuato a fare fuoco fino agli estremi contro i carabinieri ed è morto addentando la canna rovente del suo mitra, mentre in una mano teneva stretta una bomba a mano, a cui aveva già tolto la linguetta di sicurezza… Prego codesto ministero – concludeva Messana – perché la taglia di L. 500 mila promessa per la cattura del capo della banda dei niscemesi sia concessa al confidente che è riuscito a far cogliere il bandito Rizzo Salvatore, capo della banda stessa durante tutte le vicende dell’Evis, in occasione dell’eccidio dei militari della stazione di Feudo nobile e in tutte le altre imprese criminose” (O. Barrese – G. D’Agostino, La guerra…cit., p. 92).
Rosario Avila senior era stato già eliminato, come altri componenti la banda, da sicari mafiosi; Rosario Avila junior morirà in carcere senza che si conoscano la data né le circostanze. In poco più di un anno la ‘banda dei niscemesi’ era stata così annientata, fisicamente liquidata, dall’azione congiunta di carabinieri, polizia e mafia. I pochi superstiti vennero sepolti all’ergastolo.
Non diversa fu la sorte riservata a Salvatore Giuliano ed ai suoi uomini. Il 27 giugno 1947, informati dalla solita ‘fonte confidenziale’, i carabinieri tendono ad Alcamo un’imboscata ai banditi-confidenti dell’ispettore generale di P.S. Ettore Messana, colpevoli di conoscere qualche particolare di troppo sulla strage di Portella delle ginestre ed i suoi mandanti. Vengono uccisi sul colpo Caraci Antonio, Giuseppe e Fedele Pianello, mentre Salvatore Ferreri, conosciuto come Fra’ Diavolo, viene trascinato nella caserma e liquidato con due colpi di pistola in fronte sparati dal capitano Giallombardo.
Il 24 novembre 1948 tocca a Giuseppe Passatempo cadere sotto il fuoco dei carabinieri. Lo seguono, nei primi mesi del 1950, Salvatore Pecoraro, il 24 gennaio, e Rosario Candela, il 14 marzo. Passatempo Giovanni, Di Maria Emanuele e Giammone vengono eliminati dalla mafia. Il 5 luglio 1950 tocca a Salvatore Giuliano essere eliminato dalla scena; il 9 febbraio 1954, viene chiusa per sempre la bocca di Gaspare Pisciotta mentre il 6 marzo 1954 l’avvelenamento di Angelo Russo, sempre nel carcere dell’Ucciardone permette la scarcerazione del secondino Selvaggio accusato di aver avvelenato Pisciotta.
Per gli altri fu la morte civile.
“La clemenza – aveva detto con voce ispirata il democristiano Adone Zoli – è il volto cristiano della giustizia”. Ma rivolta verso chi?
Non passeranno molti anni e, a metà degli anni Sessanta, la guerra politica ridiviene guerreggiata perché tanto esigeva lo Stato di Portella delle ginestre. Questa volta la Sicilia rimane esclusa, affidata al controllo della mafia, mentre il centro-nord del Paese conosce il volto di una guerra nella quale si ritrovano gli stessi, identici elementi di ambiguità, misteri e complicità fra lo Stato presunto ‘aggredito’ ed i suoi presunti ‘aggressori’.
Le bande del neofascismo atlantico e di regime assumono il ruolo che fu di Salvatore Giuliano e dei suoi uomini. Delinquenti, e non politici, conosceranno però durante e dopo la guerra la ‘clemenza’ ed il ‘volto cristiano della giustizia’ in misura proporzionale ai servigi resi allo Stato ed al regime. Come già i dirigenti separatisti eletti all’Assemblea costituente, i ‘promotori delle violenze’ sono sempre stati seduti – e ancora oggi siedono – sui banchi della Camera dei deputati e del Senato, fanno parte delle Commissioni parlamentari d’inchiesta e ostentano indignazione al solo sentir parlare di ‘clemenza’ nei confronti dei ‘terroristi’ ancora in galera, avendo già provveduto a far concedere ai propri stragisti quei benefici che la legislazione penitenziaria riserva, appunto, ai delinquenti.
A sinistra, la situazione è storicamente diversa ma non eticamente migliore.
La corsa ai benefici di legge, ottenuti e da ottenere ripudiando ideali e passato, rinnegando compagni vivi e morti, umiliandosi dinanzi a secondini e magistrati di sorveglianza, ha visto tagliare il traguardo, tra i primi, i capi, secondo una tradizione italiana che pesa come una maledizione su un popolo dove pure dignità non è parola di ignoto significato. Ne sono testimonianza alcune decine di ragazzi e ragazze, divenuti uomini e donne in carcere, che nulla hanno mai chiesto e niente vogliono. Non ai ‘semiliberi’, ai ‘lavoranti esterni’, ai ‘permessanti’, a quanti invocano il diritto di avere ‘pietà verso sé stessi’ abbiamo pensato tratteggiando la storia tragica e terribilmente attuale del separatismo siciliano e della sua conclusione. Le abbiamo invece dedicate ai soldati di una guerra ideologica che lo Stato ha dichiarato, fomentato, inasprito e, infine, fermato dichiarandosene vincitore. A questi ex ragazzi e ragazze, a questi uomini e donne, le dedichiamo con rispetto pari al disprezzo che riserviamo ai politici italiani di ogni partito, nessuno escluso.
Non c’è difatti politico italiano che abbia vissuto gli anni del dopoguerra, che non conosca il testo del provvedimento di amnistia e indulto concesso con legge 18 dicembre 1953 n.920. Oscar Luigi Scalfaro, Nilde Iotti, Giorgio Napolitano, Armando Cossutta, Giulio Andreotti, Pino Rauti, Marco Pannella, Giulio Maceratini, Sergio Flamigni, solo per citarne alcuni, non hanno certo dimenticato la storia infame della guerriglia siciliana e la sua ancor più infamante conclusione, così come ricordano quali interessi politici ed ideologici furono alla base di quel provvedimento di amnistia e indulto che chiuse il capitolo bellico fino alla cessazione ufficiale della guerriglia separatista in Sicilia. Ognuno in quell’occasione salvò i propri: il Partito comunista italiano, i Moranino; il Movimento sociale, i residui prigionieri della Repubblica sociale italiana; la Democrazia cristiana, i propri assassini. Ma, pur contro la volontà dei suoi promotori di allora e degli interessati smemorati di oggi, quel provvedimento di amnistia e indulto rimane modello per quanti oggi cercano una soluzione che chiuda, in maniera definitiva, il capitolo della guerra politica.
Ricordiamo anche noi, qui, cosa stabiliva l’art. 2 del decreto di amnistia e indulto del 18 dicembre 1953:
“Il Presidente della repubblica è delegato a concedere indulto:
per i seguenti reati commessi dall’8 settembre dall’8 settembre 1943 al 18 giugno 1946: reati politici ai sensi dell’art. 8 del codice penale e i reati connessi; nonché i reati inerenti a fatti bellici, commessi da coloro che abbiano appartenuto a formazioni armate:
commutando la pena dell’ergastolo nella reclusione per anni dieci e, qualora l’ergastolo sia stato già commutato in reclusione per effetto dell’indulto, riducendo ad anni dieci la pena della reclusione sostituita a quella dell’ergastolo;
- riducendo ad anni due la pena della reclusione superiore ad anni venti e condonando interamente la pena non superiore ad anni venti;
per ogni reato commesso non oltre il 18 giugno 1946 da coloro che appartennero a formazioni armate, e non fruiscano del beneficio indicato nella precedente lettera a):
commutando la pena dell’ergastolo nella reclusione per anni venti e, se l’ergastolo è stato già commutato in reclusione per effetto di indulto, riducendo di anni otto la pena della reclusione già sostituita a quella dell’ergastolo;
In nessun caso la pena residua può superare gli anni venti.
I benefici previsti nelle lettere a) e b) del presente articolo si cumulano con quelli concessi dai precedenti provvedimenti di clemenza e devono essere applicati anche a coloro si siano trovati o si trovino in stato di latitanza” (legge 18 dicembre 1953 n.920).
Non ci sono errori. L’Italia del 1953 riconosceva ancora, senza ipocrisia, che esistevano ‘reati politici’ i cui autori non potevano essere equiparati, per evidenti ragioni, a chi i reati veri li commetteva per fine di lucro e interessi personali. Sulla base di una verità incontrovertibile, sancita anche dal codice penale, si potevano adottare provvedimenti che di questa differenza tenevano debito conto.
L’Italia del 1998 pretende viceversa che il ladrocinio sia considerato l’unico ‘reato politico’ e quanto determinato da ragioni ideali sia valutato alla stregua del crimine comune, e come tale trattato.
I ladri democristiani ed i loro complici del 1953 avevano ancora, insieme alla convenienza, un minimo di pudore; i ladroni democristiani oggi sparsi nelle varie formazioni sorte in questi ultimi anni, insieme ai loro complici del partito democratico della sinistra, hanno perso anche quello e, in quanto alla convenienza di mostrare che ‘la clemenza è il volto cristiano della giustizia’ non ritengono di averne necessità: il cardinale Marcinkus è scappato con la benedizione papale; Roberto Calvi lo hanno impiccato; Michele Sindona lo hanno avvelenato e agli altri ci ha pensato la loro magistratura a condurre un’inchiesta che alla fine, di nuovo, ci ha gratificato della entrata in scena del plurinquisito Antonio di Pietro lasciando tutto come prima, peggio di prima. È vero, l’Italia politica, clericale, finanziaria delle mezze calzette rivoltate ostenta la faccia feroce nei confronti di quanti hanno inseguito il sogno bellissimo di liberarsi di loro una volta per sempre. Non ce lo perdoneranno mai, questo sogno.
Ma quanti in questo regime non si identificano, in questi partiti non si riconoscono, a questo mondo giudiziario e pretesco che imperversa nei tribunali e nelle tribune televisive non intendono uniformarsi, possono rilevare ora quanto inutili siano le ciarle di tutti coloro che, in televisione e nei giornali, ostentano il bisogno di chiudere il periodo degli ‘anni di piombo’ con un gesto di clemenza che permetta ai ‘terroristi’ di lasciare il carcere entro il 2010! (non è una barzelletta, è il calcolo fatto da Roberto Formigoni).
Possono ora, costoro, fare il confronto fra un provvedimento assunto per le esigenze del regime e quelli proposti per spezzare la volontà e l’orgoglio di quanti ancora detenuti non se la sentono proprio di recitare mea culpa, di riconoscere che hanno avuto torto a sognare un paese liberato dai suoi parassiti politici, di spezzare il sogno dopo aver infranto per ragioni ideali la loro vita. Lo vieta il rispetto di sé stessi, quello per i propri caduti ed anche quello per gli uccisi dell’altra parte della barricata, anch’essi traditi dallo stesso Stato, che sul sacrificio di tutti ha potuto sopravvivere e rafforzarsi.
Il confronto fra il provvedimento di amnistia e indulto del 18 dicembre 1953 e quelli via via enunciati in questi anni da tutte le parti politiche denuncia l’ipocrisia del regime ed indica la via da seguire, non perché il parlamento possa esibire ‘clemenza’ ed ostentare il ‘volto cristiano della giustizia’, ma semmai perché venga piegato alla necessità di compiere un atto di giustizia. Una giustizia senza aggettivi, vergognosa di sé stessa e del tempo perduto.
Vincenzo Vinciguerra
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