Ho da poco finito di leggere il libro del giudice Guido Salvini – autore che i lettori di questo blog già conoscono da anni – intitolato La maledizione di Piazza Fontana.
Introduzione
Questo libro ha due particolarità, che lo rendono non solo prezioso ma unico, nella messe dei tanti (troppi) libri che sono stati pubblicati di questi tempi su ciò che accadde il 12 dicembre 1969.
La prima è che esso è il frutto di ben 30 anni di indagini sull’argomento da parte dell’autore: dapprima come giudice istruttore dell’ultima istruttoria sulla strage (1989-1998), e poi, privatamente, nelle vesti di giornalista d’inchiesta, essendo rimasto profondamente insoddisfatto e deluso dall’incapacità dello Stato, e segnatamente della magistratura, di arrivare alla condanna dei responsabili.
Quest’ultimo punto è fondamentale per capire il valore del libro: le colpe della magistratura – e segnatamente della procura di Milano – nel non voler fare quello che andava fatto per scoprire gli autori della strage è il vero filo rosso che percorre le 600 pagine del libro e che lo rende unico, visto che questo continua ad essere un argomento tabù per tutti (o almeno, per la stragrande maggioranza) di coloro che hanno scritto su questo avvenimento cruciale del dopoguerra.
Il libro è diviso in un prologo e tre parti. La prima parte – “Trentasei anni di indagini”, ripercorre sinteticamente il percorso giudiziario della strage, dal 1969 al 2005. La seconda parte – “Gli uomini di Piazza Fontana” – focalizza i testimoni e i protagonisti della strage che la procura di Milano si è “dimenticata” di ascoltare in questi ultimi 25 anni (dal 1995 fino a oggi) e il cui contributo avrebbe potuto portare ad un ben diverso esito processuale, se fossero stati contattati prima del 2004 (anno delle assoluzioni in Corte d’assise d’appello) e ad una doverosa riapertura delle indagini (se qualcuno tra i magistrati preposti si fosse peritato di contattarli, dopo il 2004). La terza parte – “La guerra tra magistrati” – ripercorre dettagliatamente la vera e propria persecuzione subita dal giudice istruttore da parte dell’establishment giudiziario (un’indagine per abuso d’ufficio da parte della procura di Venezia e ben due procedimenti presso il Csm: uno disciplinare e uno per incompatibilità ambientale): una persecuzione durata 6 anni (dal 1995 al 2001) e conclusasi benignamente per il predetto giudice (assolto da tutti i capi d’imputazione) ma rovinosamente per l’indagine su Piazza Fontana, presa di mira proprio mentre stava per arrivare in porto.
Ivano Toniolo e gli altri “dimenticati”
Cominciamo dal prologo, che inizia con la figura di Ivano Toniolo, uno degli “operativi” della cellula padovana di Ordine Nuovo, a casa del quale, il 18 aprile 1969, si era tenuta la riunione ristretta in cui si era deciso di far partire la campagna di attentati culminata con la strage del 12 dicembre. È morto nel 2015 in Angola, dove risiedeva dagli anni ’70 (dopo una prima fuga in Spagna). La procura di Milano si è sempre rifiutata di contattarlo e di ascoltarlo, nonostante le ripetute sollecitazioni sia del giudice Salvini che dell’avvocato Sinicato, l’avvocato dei familiari delle vittime. Toniolo non è stato il solo a morire, in questi ultimi anni: alla fine del prologo l’autore del libro elenca i nomi di coloro, che sapevano molto (o tutto) della strage e che sono morti dopo il 2005 senza essere stati ascoltati (o riascoltati) dalla procura di Milano, inamovibile nel suo pervicace rifiuto di riapertura delle indagini. Riportiamoli anche noi questi nomi, che permettono di misurare la gravità del comportamento di chi si è rifiutato di acquisire il loro potenziale contributo di verità: Carlo Digilio (morto nel 2005), Ugo Cavicchioni (morto nel 2009), Giovanni Ventura (moto nel 2010), Gianni Casalini (morto nel 2012), Marco Foscari (morto nel 2013), Ivano Toniolo (morto, come si è detto, nel 2015), Marco Pozzan (morto nel 2016).
Nel capitolo “Perché questo libro” l’autore afferma (p. 15):
“Se un nuovo processo venisse celebrato oggi, sommando quello che è emerso in tutti i processi, e gli elementi contenuti in questo libro, è probabile che i responsabili della strage di piazza Fontana avrebbero tutti o quasi un nome”. È importante ricordare questo punto perché ancora oggi c’è chi dice che Piazza Fontana è un mistero irrisolto, i cui autori sono rimasti ignoti. Piazza Fontana è una ferita ancora aperta anche perché ci sono tanti giornalisti che continuano a fare disinformazione, persino 50 anni dopo gli eventi.
Il “silenzioso abbandono dell’inchiesta”
La prima parte del libro si intitola “Storia di una verità negata” e ripercorre, come si è detto, la storia giudiziaria dal 1969 al 2005. La parte che più ci interessa è quella che tratta della nuova inchiesta milanese (quella degli anni ’90) che inizia con la fortunosa scoperta, nell’abbaino di viale Bligny a Milano, dell’archivio di Avanguardia operaia e, in esso, dell’importante documento Azzi, il resoconto cioè di alcune confidenze rilasciate nel 1974 dal neofascista milanese Nico Azzi e riguardante il gruppo La Fenice, la cellula milanese di Ordine nuovo. Da qui, prende le mosse la nuova inchiesta. Sono anni di importanti e fruttuose scoperte da parte del giudice istruttore ma sono anche gli anni di quello che egli definisce “il silenzioso abbandono dell’inchiesta” da parte della Procura di Milano. Scrive Guido Salvini a tale riguardo (pp. 36-37):
“In Procura non si sono accorti, per disinteresse dei capi e inesperienza dei sostituti, che un processo complesso come quello di piazza Fontana non è mai finito, certo non con il primo grado, che i faldoni non possono finire dimenticati in cima a un armadio. Non si accorgono che l’indagine è un organismo vivente, che va sempre coltivata e rafforzata nei passaggi dove gli argomenti, anche solo suggestivi, delle difese possono avere più presa e presto o tardi fare breccia e creare dubbi. Soprattutto nei gradi di Appello dove i giudici, che non hanno sentito i testimoni, decidono perlopiù sulle carte”.
L’errore della Procura milanese che emerge in questa parte del libro è il comportamento nei confronti dei due testi chiave dell’inchiesta: Carlo Digilio e Martino Siciliano, entrambi – in un modo o nell’altro – abbandonati a sé stessi. Non più interrogato Carlo Digilio dopo il 14 gennaio 1998, nonostante avesse ancora molto da dire e nessuna iniziativa neppure di fronte al “voltafaccia” di Martino Siciliano, che era stato convinto a non più collaborare con la giustizia dai soldi dell’imputato Delfo Zorzi (tentativo di corruzione poi smascherato dalla Procura di Brescia). Soprattutto grave, nella sua superficialità, appare la dimenticanza della Procura milanese di nominare un proprio consulente tecnico per l’importante perizia, decisa dal gup Clementina Forleo, sulla capacità di Carlo Digilio (che nel frattempo era stato colpito da un ictus) di presenziare alle udienze. La pretesa incapacità di Digilio avrà effetti devastanti sulla credibilità del teste e quindi sull’esito dei processi del 2004 e del 2005.
Gianni Casalini, il testimone dimenticato
La seconda parte del libro inizia con il corposo capitolo (pp. 69-150) dedicato a Gianni Casalini, il testimone dimenticato. Casalini ha una particolarità: era stato il primo elemento della cellula padovana di Freda e Ventura a parlare delle attività terroristiche del gruppo, a metà degli anni ’70: le sue rivelazioni erano state raccolte da alcuni funzionari del Sid ma poi il generale Maletti, vicecomandante del Sid, aveva deciso di porre termine a queste rivelazioni per non compromettere la protezione accordata dal servizio segreto militare alla cellula padovana. La “fonte Turco” (questo il nome in codice di Casalini) era stata sganciata e addio all’accertamento della verità su piazza Fontana (almeno, negli anni ’70). Ritroviamo Gianni Casalini il 18 maggio del 2000 al processo in Corte d’assise a Milano. Qui Casalini fa un’ulteriore rivelazione: afferma di aver partecipato personalmente agli attentati ai treni dell’8-9 agosto 1969, insieme al predetto Ivano Toniolo. Due ordigni li aveva messi proprio Casalini. Costui è il primo ad ammettere spontaneamente la sua partecipazione a quegli attentati, prodromici alla strage del 12 dicembre, eppure la sua confessione non suscita il minimo interesse da parte della Procura di Milano. Nessun pubblico ministero lo convocherà più.
Si rifarà vivo lui con il giudice Salvini otto anni dopo, nel 2008, e gli racconterà quello che nessuno gli aveva mai chiesto: delle modalità degli attentati dell’8-9 agosto 1969, dell’esplosivo in dotazione al gruppo padovano, del ruolo di Ivan Biondo – futuro magistrato! – nei predetti attentati ai treni, dell’attentato del 15 aprile 1969 al rettorato dell’Università di Padova, degli attentati del 25 aprile a Milano, dei tre attentati del 12 maggio 1969 a Roma e a Torino, del progetto di avvelenamento di un acquedotto mediante cianuro, del nascondiglio padovano di via dell’Arco (per le armi e gli esplosivi), e della tentata strage di Prato della Valle. Nel settembre del 2009 l’avvocato difensore dei parenti delle vittime di piazza Fontana, Federico Sinicato, aveva chiesto – anche in base ai racconti di Casalini – la riapertura delle indagini sulla strage. La risposta dei procuratori milanesi Grazia Pradella e Armando Spataro era arrivata nel 2012, quasi tre anni dopo, sotto forma di una richiesta di archiviazione. Nell’ottobre e nel dicembre del 2012 il giudice Salvini scrive prima al procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e poi al procuratore generale Manlio Minale esortandoli a riaprire le indagini ma non riceve neppure una risposta: “neanche un cenno di cortesia”.
Ugo Cavicchioni, il “tecnico” di fiducia di Freda
Infine, Casalini parla a Salvini dell’elettrauto di Badia Polesine, Ugo Cavicchioni, uno degli uomini chiave della cellula padovana: “L’Elettrauto era il tecnico di fiducia di Freda, lui sa i nomi di chi ha fatto piazza Fontana” (p. 180). Nessuno lo ha mai interrogato.
Livio Iuculano, il testimone snobbato dai magistrati
Poi, nel corso del libro, facciamo la conoscenza di un altro testimone quantomeno sottovalutato da magistrati e giudici: Livio Iuculano, che per primo, addirittura prima della strage, nell’agosto 1969, aveva riferito ai magistrati dell’esistenza del casolare di Paese, la santabarbara degli ordinovisti padovani e mestrini. La Corte d’assise di Catanzaro lo liquidò come un pregiudicato che era inutile ascoltare.
Il casolare di Paese, la prova decisiva non cercata dalla Procura
Già, il casolare di Paese. Ne riparlò Carlo Digilio negli anni ’90. Ma i tentativi di individuarlo non andarono a buon fine. Ben due sopralluoghi andarono a vuoto. E questo ebbe conseguenze devastanti per l’attendibilità di Digilio, giudicata insufficiente dai giudici nel 2004. Eppure il casolare c’era, c’è sempre stato. Venne ritrovato solo nel 2011 dall’ispettore Michele Cacioppo, che lavorava per la Procura di Brescia. Cacioppo lo rintracciò perché si era messo a fare quello che avrebbero dovuto fare i magistrati della Procura milanese e che non fecero mai: studiare i primi processi, a cominciare da quello di Catanzaro (di cui pure avevano acquisito le carte, senza mai consultarle). La prova decisiva stava lì, negli assegni e nell’agenda di Ventura, dove vengono nominati appunto Digilio e Paese. Il casolare però non è mai arrivato al processo.
Giampietro Mariga, l’autista della strage
Le pagine 252-258 del libro sono dedicate ad un profilo biografico dell’ordinovista mestrino Giampietro Mariga, indicato da Digilio come l’autista del commando che andò a compiere la strage. A causa delle indagini sulla strage alla Questura di Milano del 1973 (era coinvolto anche in quel progetto criminoso) fuggì in Francia e si arruolò nella Legione straniera. Digilio ne parla a metà degli anni ’90. Scrive Salvini: “Interrogare Mariga sarebbe stato tutt’altro che complesso: si sapeva dove abitava, il suo numero era sull’elenco telefonico, si sapeva cosa chiedergli…Eppure, ancora una volta, la Procura di Milano preferisce temporeggiare. E lo fa un po’ troppo a lungo: nel marzo del 1998 Mariga viene trovato morto”. Suicida. Peraltro, nonostante l’inerzia della Procura, già nel 1995 il Ros dei carabinieri si era attivato per contattare Mariga ma poi era arrivata l’”Operazione Cecchetti” (di cui parleremo dopo) con il malefico articolo suggerito al giornalista Giorgio Cecchetti in cui l’indagine di Salvini era stata descritta come un “depistaggio”, ed era arrivata “la raffica di iniziative della Procura di Venezia con l’assenso compiaciuto di quella di Milano. E così cercare Mariga non era stato più possibile”. Conclude Salvini: “Un’altra occasione perduta, a causa del fuoco amico”.
Schloss Pollan, il castello che non c’era
Le pagine 271-281 sono dedicate al castello carinziano che era stato previsto dagli stragisti come rifugio dopo la strage, nel caso in cui qualcosa fosse andato storto. Anche di questo era stato Digilio a parlare (nel 2000, interrogato dal capitano Massimo Giraudo su delega della Procura di Brescia): nel 2000 – quando il dibattimento era in pieno svolgimento a Milano – sarebbe stato ancora utile rintracciare il castello e cercare le tracce di chi lo aveva frequentato ma secondo la Procura di Milano “il castello non c’è, non esiste, o comunque è impossibile trovarlo”. E invece sarebbe stato possibile trovarlo anche semplicemente digitando sui motori di ricerca di Internet.
L’Antiquario e la cellula milanese
Un lungo capitolo (pp. 294-332) è dedicato ad un neofascista milanese che sa molte cose su piazza Fontana. Il giudice Salvini si è imbattuto in questo personaggio nel 2008, quando costui era stato arrestato per aver commesso una rapina in banca. Poi, nel corso dell’interrogatorio aveva confessato che di rapine ne aveva commesse una decina, sempre a Milano. In precedenza aveva fatto appunto l’antiquario. Ma, soprattutto, negli anni ’70 era stato un attivista di destra, un “sanbabilino”. Nel 2011, tre anni dopo, l’Antiquario dal carcere scrive a Salvini manifestandogli la propria disponibilità a parlare degli anni della strategia della tensione. E così, quando si incontrano, comincia a parlare degli anni di San Babila e di chi la frequentava. Comincia a parlare del capitano Labruna, che aveva preso contatto con i sanbabilini più vicini a Ordine nuovo e li aveva riforniti di armi. Poi riferisce che suo padre era socio e amico intimo del più celebre investigatore privato del dopoguerra: Tom Ponzi. Ricordiamo a questo punto che Tom Ponzi fu una delle persone che sapevano di più sulla strage di piazza Fontana. Era un agente segreto che aveva fatto parte del cosiddetto “Noto Servizio” (il servizio segreto controllato da Giulio Andreotti). E conosceva bene Giovanni Ventura, uno degli architetti della strage. L’Antiquario aggiunge che Giovanni Ventura era a Milano il 12 dicembre, nonostante l’alibi (falso) che aveva fornito ai magistrati. Riconosce che sono stati gli ordinovisti padovani e veneti (anche se non Ventura personalmente) a compiere la strage con l’appoggio logistico dei milanesi. E poi parla del video. Le due bobine che mostrano cosa accadde il 12 dicembre di fronte alla Banca nazionale dell’agricoltura. C’era una cinepresa, azionata da uomini dei servizi segreti che riprese il momento dell’esplosione. L’Antiquario quel filmato lo ha visionato personalmente. E aggiunge: la bomba venne innescata nella zona di San Babila, dalle parti del bar Gin Rosa. A questo punto Salvini approfondisce la figura di Tom Ponzi e riferisce quanto aveva detto poco prima di morire il capitano Antonio Labruna: “Se volete sapere qualcosa in più sulla strage di piazza Fontana dovete trovare l’archivio svizzero di Tom Ponzi, le bobine soprattutto…è lì che dovete cercare”. Ma anche in questo caso l’indagine è stata lasciata morire: “nessuno ha mai cercato l’archivio di Tom Ponzi. Di certo non la Procura di Milano, che pur aveva ricevuto dal mio ufficio l’appunto di Pertegato [un giornalista che aveva indagato su Ponzi] e conosceva le affermazioni di Labruna”.
L’altro uomo di piazza Fontana
Questo capitolo (pp. 333-382) racconta la vicenda centrale del libro: l’indagine sulla persona che, secondo il racconto dell’Antiquario, portò materialmente la borsa con l’esplosivo dentro la Banca nazionale dell’Agricoltura. Il capitolo comincia con le rivelazioni dell’ex ordinovista veronese Giampaolo Stimamiglio, che dal 2010 è entrato come collaboratore di giustizia nel programma di protezione (collabora con la Procura di Brescia). Nel 2010, ai magistrati bresciani Stimamiglio racconta di aver appreso da Giovanni Ventura che nella strage di piazza Fontana aveva operato un ragazzo molto giovane e che il padre di questo ragazzo era un funzionario di Banca. Chiosa Salvini: “Nessuno, meno che mai i pubblici ministri di Milano, ha più sentito Stimamiglio su piazza Fontana, dopo quell’interrogatorio”. Così l’autore del libro decide di contattarlo lui, Stimamiglio. Lo incontra qualche anno dopo, nel 2018. E Stimamiglio precisa quanto riferitogli da Ventura: “È stato Zorzi a trasportare gli ordigni, mi ha detto, ma non è entrato in banca, è entrato un ragazzo giovane vicino alla Fenice e molto legato a Fachini”. Domanda Salvini: “Il figlio di un funzionario di banca…Sa chi era?”. “No, ma in seguito me lo confermò anche Fachini, che c’era questo personaggio…questa è la chiave di tutto”. Il racconto di Stimamiglio richiama l’attenzione su un passo di uno dei primi interrogatori di Carlo Digilio che era stato trascurato. Nel novembre 1994, Digilio aveva riferito al giudice istruttore Salvini le seguenti parole di Delfo Zorzi: “Guarda che io ho partecipato direttamente all’operazione di collocazione della bomba alla Banca nazionale dell’agricoltura. Me ne sono occupato personalmente e non è stata una cosa facile, mi ha aiutato il figlio di un direttore di banca”. Ma nessuno incalzerà più Digilio a tornare sull’argomento. Chi è quest’uomo? Salvini nel corso del libro non ne fa mai il nome: lo chiama “il Paracadutista”. Nel 2013, nell’ambito delle indagini sulla strage di Brescia vengono interrogate la prima e la seconda moglie del Paracadutista, ed emerge che il padre di costui era funzionario della Cassa di Risparmio di Verona, Vicenza e Belluno. Ad aggiungere ulteriori, importanti, dettagli di questo puzzle è Martino Siciliano, contattato da Salvini nel 2014: “Credevo di averne già parlato, avevo sentito nel nostro ristretto ambiente che qualcuno che era legato a una banca, il figlio di un funzionario, aveva partecipato di persona all’operazione di piazza Fontana”. Nel corso di un successivo colloquio, aggiunge: “Ho focalizzato il Paracadutista che avevo conosciuto a Milano nell’ambito dei suoi contatti con Rognoni. Rognoni aveva un gruppo di persone non di Milano che dovevano intervenire e dare manforte in situazioni di difficoltà…tra di loro c’era il Paracadutista. La conclusione di Salvini è la seguente:
“Quindi Siciliano sapeva che il «figlio del funzionario di banca» aveva partecipato all’esecuzione della strage di piazza Fontana. Conosceva il Paracadutista come elemento operativo legato a Rognoni. Solo non sapeva che le due figure coincidevano”.
Dopo avere acquisito queste informazioni l’autore del libro torna dall’Antiquario e gli chiede: “C’era il Paracadutista in piazza Fontana quel pomeriggio?”. Ed ecco la descrizione della risposta: “Dopo una pausa l’Antiquario annuisce con il capo e dice: «Sì, è lui che stava fuori del camion. È lui che ha preso in mano quella borsa». E aggiunge: «È un segreto che sanno pochissime persone, quante sono le dita di una mano o forse poco più».
Come abbiamo detto, nel corso del libro non viene mai svelata l’identità del Paracadutista. Lo ha però fatto qualche giorno fa il giornalista Gianni Barbacetto: il suo nome è Claudio Bizzarri. A quanto pare, è morto qualche settimana fa, prima dell’uscita del libro. Nessuno lo potrà più sentire. La maledizione di piazza Fontana continua. Claudio Bizzarri non era un ordinovista qualsiasi: era un quadro “coperto”, come Carlo Digilio. Aveva fatto parte dei Nuclei di difesa dello Stato, l’organizzazione eversiva fondata da Edgardo Beltrametti ed Enrico De Boccard. Di Bizzarri aveva parlato negli anni ’90, con il capitano Giraudo e con il giudice Salvini, l’ordinovista veronese Graziano Gubbini. Ma da allora nessun magistrato ha più sentito Gubbini. Nel 1973 il Paracadutista fugge in Grecia (dopo una condanna in primo grado per la sua appartenenza a Ordine nuovo); nel 1975 viene espulso dalla Grecia e si trasferisce in Svizzera. Poi fa ritorno in Italia e qui nessuno lo disturberà più.
Che cosa si poteva fare
Il capitolo “Che cosa si poteva fare” ritorna sui nomi degli implicati nella strage che rappresentano altrettante sconfitte per la magistratura. I principali sono tre: Ivano Toniolo, Delfo Zorzi e il Paracadutista. Anche su Zorzi, prima delle fortunose assoluzioni del 2004 e del 2005, qualche verifica in più i magistrati milanesi avrebbero potuto farla. A cominciare dai racconti di Giancarlo Vianello e Martino Siciliano sulla fatidica cena di Capodanno del 1969 in cui Zorzi aveva parlato della sua partecipazione alla strage.
Un altro personaggio che i magistrati non hanno mai più sentito è il padovano Ivan Biondo, amico e sodale di Freda. La cosa incredibile di costui è che, pur essendo a suo tempo stato indiziato (nel 1974) per la strage di piazza Fontana, riuscì a essere nominato magistrato e a percorrere tranquillamente la sua carriera di giudice della Repubblica. Andrà in pensione nel 2008. Mentre studiava da giudice, secondo il racconto di Casalini, aveva sistemato un paio di bombe subacquee sotto i ponti dell’isola Memmia e aveva collocato, insieme alla moglie Marinella Calvani, due delle dieci bombe ai treni dell’agosto 1969, quelle nella zona di Pescara. Eppure, nella richiesta di archiviazione del 2012 non è stato nemmeno citato. Né lui, né la moglie, anche lei interna al gruppo.
Altri due nomi che avrebbero potuto dire molto su piazza Fontana sono quelli di Pino Romanin e del generale Gianadelio Maletti. Anche loro negletti dalla Procura di Milano, che ha firmato nell’aprile 2012 la richiesta di archiviazione senza avere svolto alcun atto di indagine.
Ma passiamo all’errore forse più clamoroso della Procura di Milano: la mancata indagine sull’esplosivo. Scrive l’autore del libro: “Ci si è dimenticati dell’esplosivo, che in un processo per strage dovrebbe essere la prima preoccupazione degli inquirenti…in Procura non si affaccia nemmeno l’idea, né nel corso del processo di primo grado né nel lungo periodo di stasi tra il primo grado e l’Appello, di disporre una consulenza esplosivistica che sia in grado di contrastare, e non sarebbe difficile, i dubbi inseriti dai consulenti delle difese…Non farlo, almeno in vista del processo d’Appello, comportava il rischio che la Corte decidesse solo sulle basi della consulenza della difesa, dubbia e certo di parte, e si adeguasse alla sua ricostruzione. E così è successo” (pp. 407-410).
Anche sulle bobine di Tom Ponzi – il film di piazza Fontana – nessuno ha più indagato.
Rimangono i morti. Morto Carlo Digilio, il 12 dicembre 2005. Non è stato creduto dai giudici di Milano ma dai giudici di Brescia sì, e la condanna all’ergastolo del 2017 di Maggi e Tramonte per la strage di piazza della Loggia si fonda sulle sue dichiarazioni.
Morto Marco Pozzan. Nessun magistrato negli ultimi anni lo ha mai sentito.
Morti Massimiliano Fachini, Nico Azzi (dal cui documento la quinta istruttoria era ripartita), Manlio Del Gaudio, Antonio Labruna, Guido Giannettini.
L’Antiquario invece è ancora vivo ma anche lui è rimasto inascoltato dai magistrati.
La guerra tra i magistrati
E veniamo alla terza, e non meno interessante, parte del libro, quella che descrive puntigliosamente la persecuzione che ha dovuto subire l’autore del libro per aver cercato la verità su piazza Fontana. Il libro è uscito da poco più di un mese ma abbiamo già visto che è questa la parte che si tende a omettere nelle recensioni. Per questo invece noi ne vogliamo parlare.
Cancellare il giudice istruttore
Il primo capitolo della terza parte si intitola “Cancellare il giudice istruttore”. Il primo paragrafo (“L’origine del dissidio”) spiega il motivo dell’ostilità del pubblico ministero di Venezia Felice Casson nei confronti di Salvini: quest’ultimo nel 1992 aveva interrogato nel carcere di Parma l’ex ordinovista Vincenzo Vinciguerra (che si rifiutava di parlare con Casson perché aveva per lui la più totale disistima) e costui aveva spiegato che nell’attentato di Peteano da lui compiuto 20 anni prima aveva utilizzato del comune esplosivo da cava e non l’esplosivo in dotazione all’organizzazione Gladio, come invece sosteneva Casson. Gli accertamenti della Digos di Venezia confermeranno il racconto di Vinciguerra e dimostreranno che l’esplosivo di Gladio non era mai stato nella disponibilità di Ordine nuovo o di altri gruppi eversivi. Perciò l’equazione Gladio-Peteano e Gladio-stragi, su cui Casson aveva costruito la sua carriera di magistrato, si era rivelata infondata. E questo grazie all’inchiesta di Salvini.
Nella primavera del 1995, tre anni dopo, subito dopo il deposito della prima ordinanza su piazza Fontana, esce di scena il sostituto procuratore Ferdinando Pomarici. Commenta Salvini: “In verità nella scena non è mai entrato per intero, ha assistito con il giudice istruttore a un solo atto e non ha mai avanzato alcuna richiesta istruttoria. Quando i sostituti cambiano non è mai buon segno, è sintomo di disinteresse. Già nei tre anni precedenti si erano avvicendati tre pubblici ministeri e infatti nessuno di loro aveva preso alcuna iniziativa” (p. 431).
Nel frattempo l’inchiesta va avanti, e Salvini si incontra con il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli per individuare un sostituto che abbia voglia di occuparsi dell’indagine. Borrelli nomina Grazia Pradella, nonostante le perplessità di Salvini sulla giovane età e soprattutto sull’inesperienza di quest’ultima. Con lei Salvini fa quello che aveva fatto anche con i suoi predecessori: offre la sua collaborazione, spiegando tutto dell’indagine in corso. La reazione di Pradella non sarà però, come stiamo per vedere, altrettanto leale. Nell’autunno del 1995 avviene un fatto. È in corso a Venezia un’intercettazione ambientale nell’abitazione di un ex ordinovista di Treviso, Roberto Raho. Costui parla con Pietro Battiston, un ex militante di rilievo della Fenice di Milano. Parlano di piazza Fontana. Dei timer e del coinvolgimento di Maggi e delle cellule venete nella strage. A questo punto succede una cosa grave: Casson non informa il giudice istruttore dei contenuti dell’intercettazione. Ne informa solo Grazia Pradella, che corre a Venezia per parlare con Casson e con i due ex ordinovisti.
Quella che prende forma e corpo in quei giorni è la famigerata “Operazione Cecchetti”, vale a dire il tentativo, purtroppo in parte riuscito, da parte di due Procure (quella di Venezia e quella di Milano) di bloccare l’indagine del giudice Salvini (cercando di delegittimarne la persona e l’operato).
Il libro rivela il retroscena dell’operazione: la cena di Mestre del 16 ottobre 1995, a cui parteciparono, oltre a Casson e alla Pradella, l’esponente del Pds Massimo Brutti, e i giornalisti Giorgio Cecchetti e Maurizio Dianese. Scrive Salvini:
“Il discorso cade presto sulle indagini milanesi. A Milano, ne è convinto Casson, bisogna rimettere le cose a posto. Il giudice istruttore, lo testimoniano le quattrocento pagine della sua ordinanza di marzo, ha ottenuto tanti risultati, forse troppi, compreso quello di far cadere l’idea che Gladio abbia contribuito alle stragi. Va contenuto, forse tolto di mezzo…Nella sua ordinanza il giudice istruttore ha anche ringraziato la collaborazione della nuova direzione del Sismi del generale Siracusa, ma per Casson i servizi, anche oggi, a metà degli anni Novanta, non possono che essere sempre deviati. Quindi le indagini del giudice sono state di certo «depistate», sono inquinate, e un’iniziativa che lo fermi, complice o ingenuo che sia, è utile per tutti” (pp. 439-440).
Il giornalista Dianese non è d’accordo con questo progetto, si alza e se ne va. Verrà punito l’anno seguente, spedito sul banco degli imputati, addirittura con l’accusa di essere stato un favoreggiatore degli imputati della strage.
L’attacco contro il giudice Salvini (e contro la sua inchiesta) si articola in cinque mosse:
- Casson, prendendo a pretesto uno strumentale (e menzognero) esposto di Carlo Maria Maggi (ispirato da Delfo Zorzi) contro il capitano del Ros Massimo Giraudo, iscrive quest’ultimo nel registro degli indagati per “abuso d’ufficio” (qualche giorno dopo iscriverà lo stesso giudice Salvini).
- L’amico di Casson, Giorgio Cecchetti, pubblica (il 28 ottobre 1995) un articolo gravemente diffamatorio intitolato Il magistrato Felice Casson invia un rapporto al Parlamento: l’ultimo depistaggio. I presunti depistatori (dell’inchiesta sulla strage) sarebbero i servizi segreti e i carabinieri (con la probabile complicità del giudice Salvini).
- Il 15 novembre 1995 il sostituto procuratore di Milano Pomarici rilascia un’intervista al “Corriere della Sera” che è un attacco pesantissimo, quanto irrituale, al giudice Salvini. “Le indagini di Salvini sono illegittime”, dice, e “avrebbe dovuto trasmettere gli atti a Catanzaro”. Il Procuratore capo Borrelli interviene a sostegno di Pomarici.
- Dopo che al “Corriere della Sera” era giunta la risposta in forma di rettifica di Salvini, Pomarici invia una lettera contro Salvini al Csm (che apre subito il fascicolo per il trasferimento d’ufficio del giudice).
- Grazia Pradella toglie la delega delle indagini al Ros (che fino a quel momento aveva operato brillantemente) e la affida alla Polizia di Stato, dividendo così il fronte delle indagini.
Di fronte a tutti questi attacchi, un unico appoggio: quello della commissione Stragi (e segnatamente del suo presidente Giovanni Pellegrino), a cui Salvini aveva scritto per difendere le indagini milanesi. È grazie a questo appoggio che il giudice Salvini riuscirà a sconfiggere il tentativo di trasferirlo da Milano.
Incolpato
Questo capitolo si occupa del diluvio di accuse (addirittura sessanta!) piovute addosso al giudice istruttore da parte del Csm (incolpazioni ambientali) e della Procura generale della Cassazione (incolpazioni disciplinari).
Difendersi davanti al Csm in un procedimento per incompatibilità ambientale è impresa improba: ogni tentativo di difesa rischia di trasformarsi in una nuova incolpazione. Ad esempio, quando il giudice Salvini scrive al Csm una relazione (il 31 ottobre 1995) per difendere l’operato suo e del servizio segreto militare tutto ciò si trasforma in due ulteriori capi d’incolpazione: ambientale e disciplinare.
Eppure quello che scrive Salvini è sacrosanto: il servizio segreto militare degli anni ’90 (quello diretto dal generale Sergio Siracusa) è ben diverso da quello di 20 anni prima. Non solo Salvini ha ottenuto dal servizio la massima collaborazione nelle ricerche documentarie e archivistiche sulle fonti degli anni ’70 ma il Sismi ha fatto esattamente l’opposto di ciò che faceva il Sid negli anni ’70. Mentre infatti il Sid all’epoca fece espatriare personaggi cruciali come Pozzan e Giannettini per sottrarli alle inchieste della magistratura, il Sismi degli anni ’90 era riuscito a convincere Martino Siciliano a collaborare con le indagini. Non solo: probabilmente, gli aveva addirittura salvato la vita (nelle intercettazioni gli ordinovisti amici di Delfo Zorzi avevano parlato di “risolvere il problema” con un colpo di pistola calibro 9)!
Gli inquisitori del Csm accusano poi assurdamente Salvini di essersi avvalso di uno strumento investigativo non solo utilissimo ma perfettamente legale come quello dei colloqui investigativi, uno strumento grazie al quale si era ottenuta la collaborazione di più di cento esponenti dell’estrema destra (un mondo, quello dell’estrema destra, caratterizzato fino a quel momento dalla più ferrea omertà). Un effetto l’incolpazione del Csm però lo ottiene: il prosciugamento di tale strumento investigativo, a tutto vantaggio di chi aveva tutto da temere dal progresso delle indagini.
Vengono trasformati in capi di incolpazione persino gli elogi dei giornalisti per il lavoro del giudice (come avviene per gli articoli di Maso Notarianni e del già citato Maurizio Dianese).
Un’altra accusa è quella di non aver avvisato il pubblico ministero degli interrogatori degli ordinovisti Tringali e Montagner. Falsa anche quella. Come è falsa l’accusa lanciata dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli secondo cui il giudice istruttore avrebbe interferito con le indagini della sostituta Pradella. Falsa infine l’accusa di aver rilasciato un’intervista al Tg3 che avrebbe “danneggiato le indagini”. In realtà, a essere intervistato era stato Casson e non Salvini.
Riassumendo: negli anni in cui l’inchiesta sulla strage di piazza Fontana stava entrando nella sua fase cruciale e in cui con Carlo Digilio avrebbero dovuto svolgersi gli interrogatori decisivi, il giudice istruttore è costretto a dedicare gran parte del suo tempo a difendersi dal predetto diluvio di accuse.
Gli ordinovisti più coinvolti nella strage, a cominciare da Delfo Zorzi, esultano (come dimostrano le intercettazioni) e hanno ragione di esultare.
Né Borrelli né la Pradella né Casson sono stati chiamati a rispondere delle falsità propalate. Se l’accusato li avesse denunciati avrebbe dimostrato di essere “ostile” e quindi “incompatibile”. Questa è la giustizia amministrata da Csm.
Incompatibilità ambientale
Questo capitolo descrive il procedimento di incompatibilità ambientale cui si trova sottoposto il giudice Salvini: un processo di stampo inquisitorio dove accusatori e giudici sono le stesse persone e dove l’accusato non può conoscere gli atti. E che può durare un tempo indefinito. Per Salvini è durato sei anni: dal 1995 al 2001. Comportando anche il blocco delle promozioni maturate negli anni: il giudice che ha riaperto le indagini su piazza Fontana è premiato rimanendo fermo al gradino di semplice magistrato di tribunale.
La seconda parte del capitolo (“La Procura di Venezia attacca”) riferisce del comportamento abnorme del sostituto veneziano Felice Casson nei confronti del giudice Salvini, che da Casson venne “indagato” insieme al capitano Giraudo. Casson nel giro di pochi giorni scrive tre lettere e addirittura un pamphlet per denigrare il proprio indagato (e la sua inchiesta su piazza Fontana). Iniziative assolutamente irrituali, al di fuori del Codice e della deontologia, e che peraltro erano motivate dalla preoccupazione che la relazione di Salvini alla Commissione stragi avesse sortito qualche effetto. Casson scrive alla Commissione stragi per smentire di aver ispirato il (finto) scoop di Giorgio Cecchetti: lui stesso avrebbe aperto in quel periodo un fascicolo nei confronti del giornalista. Ma è una bugia: Casson non ha affatto aperto un fascicolo su Cecchetti. A scoprire che non è vero è il procuratore generale di Venezia Mario Daniele, che scrive al riguardo all’ispettorato generale del ministero di Giustizia. Il ministero però non interviene.
Un’importante precisazione (contenuta nella nota 7 della p. 489): il procuratore Daniele scopre anche che quando era arrivato in Procura l’esposto di Maggi, Casson non era di turno e nonostante ciò il procuratore capo di Venezia gli aveva assegnato il fascicolo, in violazione delle norme organizzative dell’ufficio.
Quanto al pamphlet – indirizzato al Csm, al Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e alla Commissione stragi – Casson vi scrive che Salvini non avrebbe mai avuto alcuna competenza a occuparsi di piazza Fontana. Vi scrive addirittura che gli atti svolti dal giudice istruttore sono “giuridicamente inesistenti”. Un’assurdità che non è passata per la mente neppure ai difensori di Maggi e di Zorzi. Scrive poi che i “pentiti” dell’istruttoria milanese “sono tutt’altro che pentiti”. Vi sarebbe “oggettivamente in atto uno scontro tra pentiti e presunti tali”. Affermazioni che, per quanto false, coincidono però perfettamente con le insinuazioni del (finto) scoop del suo amico Cecchetti. Scrive Salvini: “Casson non si chiede perché gli ordinovisti gioiscano delle sue iniziative…Indubbiamente Casson continua alacremente a indagare, ma non sugli eversori di destra e sulle azioni da questi commesse, bensì su chi indaga su di essi” (p. 494).
Casson si premura di concludere il suo pamphlet con il richiamo al fatto che sta procedendo “nella consueta riservatezza”. In realtà, è esattamente il contrario: avere inviato delle missive al Csm e ad altri organi istituzionali equivale a renderle pubbliche. C’è poi il fido Cecchetti che si premura di divulgarne il contenuto nei suoi articoli.
La Cosa
Il capitolo “La Cosa” parla del procedimento 43999/95 della Procura di Venezia, quello in cui Felice Casson iscrive come indagati Giraudo e Salvini. L’inchiesta sui due inquirenti nasce già segnata da una grave irregolarità: l’esposto di Maggi, quello che chiama in causa Giraudo, non dà luogo, come avrebbe dovuto essere, ad un nuovo fascicolo d’indagine ma viene fatto confluire da Casson nello stralcio che il magistrato veneziano tiene ancora aperto sull’attentato di Peteano. In questo stesso fascicolo Casson iscrive prima Giraudo e poi Salvini come indagati.
Salvini rileva innanzitutto l’incompatibilità di Casson ad indagare su di lui, a causa di una evidente inimicizia nei suoi confronti. In caso di inimicizia con l’indagato, la legge prevede che il pubblico ministero informi il suo superiore, che provvederà ad affidare il fascicolo ad un altro sostituto. Che da parte di Casson vi fosse inimicizia è indubbio: in una riunione di magistrati avvenuta nel 1993, Casson aveva definito davanti ai colleghi Salvini come “uno stupido al servizio dei servizi”.
Il 12 ottobre 1995 Casson iscrive Giraudo nel registro degli indagati per abuso d’ufficio. “Lo ha sentito come testimone, senza difensore, e poi senza alcuna motivazione lo incrimina” (p. 501).
Poi, il 23 ottobre iscrive nel registro degli indagati anche Salvini.
Appena dopo aver lanciato una ciambella di salvataggio a Maggi e ai suoi camerati, Casson indaga anche il direttore del Sismi, il generale Siracusa: costui verrà addirittura incriminato per “favoreggiamento degli autori della strage di piazza Fontana”.
Non è finita. L’”indagine” di Casson prosegue chiamando in causa il colonnello Mori, il superiore di Giraudo. Da Mori, Casson pretende che gli venga consegnata “l’intera corrispondenza intercorsa fra il Ros e il giudice istruttore di Milano fra il 1993 e il 1995”. In pratica, l’intera indagine di Salvini. Mori però fa presente che l’indagine in questione è ancora segreta ed è di pertinenza di un altro magistrato. Casson recede dal suo proposito ma non rinuncia ad acquisire comunque i nomi di tutte le persone sentite dal giudice istruttore e alcuni atti riguardanti Martino Siciliano, anche se sono atti che non lo riguardano minimamente.
Passano gli anni, e arriviamo al 1998: Casson continua a tenere in piedi, proroga dopo proroga, l’accusa contro Giraudo e Salvini. E questo nonostante che già due anni prima, nel 1996, la Digos di Venezia, in una sua annotazione, avesse accertato che Zorzi e Maggi avevano ordito ed eseguito “una pesante attività di inquinamento probatorio” contro l’istruttoria milanese. A questo punto Casson chiede l’archiviazione per l’abuso d’ufficio ma spedisce il fascicolo contro Giraudo e Salvini alla Procura presso la pretura per due nuovi reati, altrettanto fantasiosi: “violenza privata” e “violenza o minaccia per costringere qualcuno a commettere reati”.
Il fascicolo però torna per competenza alla Procura ordinaria dove l’indagine finisce nelle mani di un nuovo pubblico ministero, Rita Ugolini, che archivierà finalmente il procedimento.
Ma gli arbitri e gli abusi di Casson (e di Grazia Pradella, e del procuratore aggiunto di Milano Gerardo D’Ambrosio) non finiscono qui: ne parla l’autore del libro nei paragrafi “Attacco all’avocato difensore” e “Le intercettazioni scomparse”, a cui rimando il lettore interessato. Arbitri e abusi alcuni dei quali denotano, a detta dell’autore del libro, “un’intesa fra le due procure” a danno del giudice istruttore.
Rimane infine da menzionare un ulteriore attacco di Casson: il 9 luglio 1996 denuncia Salvini alla Procura di Brescia per falso ideologico. Anche questa iniziativa verrà archiviata, come tutte le altre: non prima però di essere utilizzata, anch’essa, nel procedimento per incompatibilità ambientale presso il Csm.
Conclusione dell’autore del libro: “è stata coltivata per tre anni un’indagine finta, nascondendo cosa era in realtà: un depistaggio” (p. 519).
Il muro
Il muro di cui si parla nel capitolo è quello alzato dal procuratore aggiunto D’Ambrosio e dalla Procura milanese tutta (con l’eccezione del sostituto Massimo Meroni) nei confronti del giudice Salvini. Un’ostilità che arriva proprio nel momento cruciale delle indagini, quando ci sarebbe stato bisogno di unità e concordia tra gli inquirenti. Viene rievocato il fastidio – apparentemente incomprensibile – con cui D’Ambrosio accoglie di volta in volta le novità che emergono dalle nuove indagini sulla strage. Vengono rievocate le audizioni in commissione Stragi di D’Ambrosio e della Pradella, cariche di rancore nei confronti del giudice istruttore, e dell’audizione di Pradella al Csm, in cui la sostituta milanese arriva a dire che Salvini “le telefonava nel cuore della notte, a casa, durante gli interrogatori […] anche dieci volte al giorno” al punto che era “stata costretta a cambiare numero”.
Ma l’episodio più abnorme rievocato nel capitolo è il paragrafo “le dieci ore di Nico Azzi”, in cui viene descritto l’interrogatorio – durato appunto 10 ore – in cui Pradella e la gip Forleo torchiano il neofascista milanese solo per fargli confessare – come se fosse una colpa – di aver instaurato un rapporto di fiducia con il giudice istruttore e con il capitano Giraudo. Nel corso dell’interrogatorio il nome di Salvini viene fatto addirittura 82 volte, quello di Giraudo 38. Dopo questo episodio Nico Azzi, che aveva incominciato a raccontare cose molto utili alle indagini, si chiuderà e non parlerà più.
L’unico magistrato in Procura che si dissocia da questi metodi è il sostituto Meroni che rimarca, e sarà buon profeta, che i dissidi tra magistrati “hanno nuociuto e ancor più nuoceranno in sede dibattimentale”. La guerra, ormai di dominio pubblico, tra i magistrati ha infatti steso, come ricorda l’autore del libro, “una vernice di sospetto…sulle carte su cui dovevano giudicare”.
Nel capitolo si riferisce poi di un ultimo errore marchiano compiuto da Grazia Pradella: il prematuro arresto, disposto nell’estate del 1996, degli ordinovisti mestrini amici di Delfo Zorzi, proprio quando erano in corso le intercettazioni che stavano rivelando le loro intenzioni (e le responsabilità del gruppo nella strage). Un canale di informazioni che con l’arresto si chiuderà completamente.
Rimane da dire del comportamento dei politici dell’epoca rispetto alla predetta guerra tra magistrati. La figura peggiore è quella dell’allora ministro della Giustizia Oliviero Diliberto: quando, nel 1999, la Corte di cassazione assolve il giudice Salvini dalle incolpazioni disciplinari, Diliberto impugnerà l’assoluzione (e questo nonostante i pubblici attestati di stima nei confronti del lavoro del giudice giunti da note personalità anche della sinistra, come il già citato Giovanni Pellegrino).
La Cassazione l’anno successivo gli darà sonoramente torto ma intanto un altro ostacolo è stato posto sulla strada già impervia del processo.
Vittorie, ma inutili
Di questo capitolo sarà sufficiente citare i paragrafi che lo compongono: “Cade il fascicolo Salvini-Giraudo”, “Cade l’incompatibilità ambientale”, “Cadono le accuse contro il generale Siracusa”, “Cadono le accuse contro i giornalisti”, “L’archivio di via Appia” (in cui si rievoca la vicenda di un collaboratore della Pradella, indagato pure lui ma parimenti poi assolto).
Sono vittorie, ma inutili perché ormai il danno alle indagini sulla strage è stato fatto. Irrimediabilmente. Scrive Salvini:
“Chi ha avviato e tenuto aperti quei procedimenti tanto a lungo sa che le indagini del giudice sono a termine, perché dovranno concludersi alla scadenza dell’ultima proroga disposta dal Parlamento. Basta tenere aperto il procedimento «ambientale» oltre quel termine e la minaccia è già realizzata, ha prodotto i suoi effetti concreti. Poi, a tempo scaduto, le accuse cadono una a una. Ma è come consentire a un giocatore di rientrare in campo quando l’arbitro ha già fischiato il fine partita e le squadre sono negli spogliatoi” (pp. 555-556).
Un’indagine vietata
Il penultimo capitolo rende conto della relazione a firma Massimo Giraudo del 15 luglio 2009 in cui l’ufficiale dei carabinieri propone di riaprire l’indagine su piazza Fontana, e questo sulla base di due circostanze nuove: la pubblicazione del libro di Paolo Cucchiarelli Il segreto di piazza Fontana e il racconto di Gianni Casalini a Guido Salvini nella casa di riposo di Padova.
La risposta arriva il 3 agosto 2009 da parte del procuratore aggiunto di Milano Armando Spataro: non è l’attesa delega di indagini ma esattamente il contrario. Un atto di interdizione: “La Procura della Repubblica di Milano non ha delegato e non intende delegare il tenente colonnello Giraudo a svolgere alcuna attività investigativa concernente la strage di piazza Fontana”. “Inibita”, questa è l’espressione, qualsiasi ipotesi di contatto con Ivano Toniolo. La scelta quindi è di non fare nulla e di proibire che altri facciano.
Archiviazione
La richiesta di archiviazione risale a quasi tre anni dopo: all’aprile 2012. La Procura, pur di archiviare, sminuisce il ruolo operativo di Ivano Toniolo all’interno della cellula padovana (quella di Freda e Ventura). Rimane un unico indagato. Paradossalmente, è il giornalista il cui libro aveva indotto Giraudo a chiedere la riapertura delle indagini: Paolo Cucchiarelli. Viene formalmente indagato da Spataro e Pradella del reato di false o reticenti informazioni al pubblico ministero. I due pubblici ministeri avrebbero voluto che Cucchiarelli rivelasse loro il nome di “Mister X”, il neofascista romano di cui si parla a lungo nel libro. Tecnicamente, come spiega Salvini, l’incriminazione è un errore grossolano. Cucchiarelli si rifiuta di rivelare il nome della fonte e fa bene: due anni dopo, i pubblici ministeri fanno marcia indietro e chiedono di archiviare la posizione del giornalista. Contestualmente, giudicano “inverosimili” i contenuti del libro di Cucchiarelli, e fanno male: il libro è frutto di una grande inchiesta giornalistica e i suoi contenuti sarebbero stati sicuramente meritevoli di un approfondimento da parte di una Procura interessata all’accertamento della verità.
Sul saggio di Cucchiarelli bisogna quantomeno riflettere: questo il suggerimento conclusivo del giudice Salvini, che parla dei particolari dell’inchiesta di Cucchiarelli che hanno trovato riscontro nel suo lavoro di accertamento della verità sulla strage anche dopo la fine delle inchieste giudiziarie.
Una considerazione personale del recensore
La mia considerazione personale, giunto alla fine della lettura del libro del giudice Salvini, è la seguente:
nel libro viene descritta in modo dettagliatissimo la mancata collaborazione con il giudice istruttore della sostituta Grazia Pradella. In ogni caso, anche se la Pradella avesse collaborato lealmente, questa non sarebbe stata la soluzione migliore: la soluzione migliore sarebbe stata che la Procura di Milano avesse fatto un passo indietro e che le due istruttorie portate avanti con il vecchio rito (quella sulla strage di piazza Fontana e quella sulla strage alla Questura di Milano del 1973) fossero confluite in un unico dibattimento dinanzi alla Corte d’assise (come osserva lo stesso Salvini nella nota 14 a p. 491 del suo libro). Entrambe infatti avevano fatto parte di un unico disegno criminoso (come aveva scritto anni fa Vincenzo Vinciguerra) e l’imputato principale era lo stesso: Carlo Maria Maggi. Avrebbero potuto esservi due sentenze di condanna definitive e invece abbiamo avuto due assoluzioni.
Post Scriptum: una lettera inedita di Vinciguerra
Nove anni fa, nell’autunno 2010, scrissi una lettera a Vincenzo Vinciguerra, detenuto nel carcere di Opera, chiedendogli una sua opinione sulla famigerata “Operazione Cecchetti”, di cui avevo letto all’epoca nella sentenza-ordinanza del 1998 del giudice Salvini. Mi sembra utile ora rendere pubblica la sua risposta. Eccola:
“Non c’è nulla di segreto nell’operazione Cecchetti. Giorgio Cecchetti è l’amico di sempre di Felice Casson il quale ultimo è collegato a Gerardo D’Ambrosio che, a sua volta, è impegnato da sempre a “provare” che non ci sono responsabilità dello Stato nella “strategia della tensione” e, in modo particolare, nella strage di Piazza Fontana. È Guido Salvini che aderisce alla mia impostazione e si pone, di conseguenza, in conflitto con D’Ambrosio, il quale fa intervenire il compagno Felice Casson che mobilita l’amico suo Cecchetti, non nuovo a questo tipo di operazioni concordate e ispirate da Casson. Non c’è nessun mistero sul punto. Cecchetti è stato condannato per diffamazione, la tesi di D’Ambrosio e della banda che fa capo all’ex Pci, oggi PD, è smentita da altri e ulteriori elementi probatori però, ovviamente, sia lui che Casson sono stati “premiati” con il seggio di senatori. Le dichiarazioni di Maletti che confermano le mie affermazioni su “Ordine nuovo” e la conferma che la strage del 12 dicembre 1969 era collegata alla manifestazione del Msi del 14 dicembre 1969, da me solo sempre affermata, costituiscono l’ultimo colpo, in ordine di tempo, a due toghe di fango come D’Ambrosio e Casson, e ai loro protettori politici e istituzionali”.
Guido Salvini
Felice Casson
Grazia Pradella
Clementina Forleo
Armando Spataro e Ferdinando Pomarici
Francesco Saverio Borrelli
Gerardo D’Ambrosio
Vincenzo Vinciguerra
“Un atto di interdizione: “La Procura della Repubblica di Milano non ha delegato e non intende delegare il tenente colonnello Giraudo a svolgere alcuna attività investigativa concernente la strage di piazza Fontana”. “Inibita”, questa è l’espressione, qualsiasi ipotesi di contatto con Ivano Toniolo. La scelta quindi è di non fare nulla e di proibire che altri facciano.”
E’ la solita storia di indagini che solitamente finiscono sempre nel buco nero della storia. Come’ mai? Perché il sistema italiano – e cosi pure di tanti altri paesi nel mondo – sia politico che giudiziario é di stampo mafioso/massonico, questo da qualche secolo in qua. Allora cosa si deve concludere che ogni sistema politico e giudiziario non sono stati creati, l’uno per governare un popolo democratico; l’altro per rendere giustizia alla natione; ma piuttosto di fornire il proprio nido. In alter parole, lo si fa per il proprio lucro e vari altri interessi preclusi ai piu’.
“Diritto all’oblio”
una testata giornalistica locale abbruzzese on line (Prima di Noi) è stata costretta da vie giudiziarie a chiudere per il “diritto all’oblio” di chi si ritiene danneggiato dalla “cronaca”.
E non contenti da poco più di un mese fa hanno oscurato il sito.
Il caso è finito pure sulle pagine del NyT e di un giornale inglese di cui non ricordo… perchè dov’è che finisce la cronaca e inizia il diritto all’oblio? Ora c’è (ci sarà o c’è già stata) la pronuncia della Corte Europea…
Il “Sistema Antonin Scalia” (il giudice costituzionale USA morto dopo un colloquio con Obama, coinvolge il CSM così come Antonin Scalia tramite la ‘Federalist Society’, sceglieva i Giudici di tutto il sistema giudiziario degli Stati Uniti (e chiosa Gordon Duff di Veterans Today che chi subiva abusi sessuali non aveva luogo dove denunciare perchè tutti erano stati nominati da Scalia).
Il caso “Palamara” sparito in fretta dalla cronaca è “diritto all’oblio, quello che si legge in articolo è il caso “Palamara” ante litteram, che è un sottoprodotto del SAS … ma nessuno sa (e nessuno vuole sapere) da cosa di inconciliabile con la Costituzione depista questo caso “Palamara”.
Piazza Fontana è, anche per la prima parte di Cucchiarelli che ho letto, “diritto all’oblio”: per la “verità giudiziaria” le bombe si sono fatte da sole e sono scoppiate da sole.
Ora è noto chi siano quelli che si appellano, de facto, al “diritto all’oblio” (e chi sopra loro)… e usando le parole di PPP è il “perchè non si sa mai niente” e perchè, p.es., Giraudo, Salvini, Cucchiarelli sono stati indagati se non per esempio che semina paura e invito al quieto vivere…. quanto alla guerra tra magistrati basta considerare che gli “eroi” (come loro li chiamano) prima si saltare in aria sono stati pesantemente delegittimati e emarginati.
Un saluto a chi viaggia in direzione ostinata e contraria.
Ottimo articolo Dott. Carancini, complimenti!
Se ha voglia e tempo si legga questa interessante analisi geopolitica di Federico Dezzani collegata alla strage di Piazza Fontana:
http://federicodezzani.altervista.org/quella-sera-in-piazza-fontana-oltre-la-strategia-della-tensione/
E’ stata pubblicata anche su Libreidee:
Dezzani: l’Italia fu sabotata, partendo da piazza Fontana Libreidee
Magari ci trova qualche ulteriore spunto che le potrà tornare utile.
Cordiali saluti e buone festività.
Fabrice
Ma l’episodio più abnorme rievocato nel capitolo è il paragrafo “le dieci ore di Nico Azzi”, in cui viene descritto l’interrogatorio – durato appunto 10 ore – in cui Pradella e la gip Forleo torchiano il neofascista milanese solo per fargli confessare – come se fosse una colpa – di aver instaurato un rapporto di fiducia con il giudice istruttore e con il capitano Giraudo. Nel corso dell’interrogatorio il nome di Salvini viene fatto addirittura 82 volte, quello di Giraudo 38. Dopo questo episodio Nico Azzi, che aveva incominciato a raccontare cose molto utili alle indagini, si chiuderà e non parlerà più.
È noto che nel 2011 Salvini (tramite C. Vulpio) rese pubbliche le riunioni del 2007/2008 di PM e gip a danno di Forleo (se può incuriosire proprio negli stessi precisi momenti Forleo aveva riunito a sé due importanti procedimenti prima smembrati dai boys di Minale quando era Procuratore non generale).
Potresti confermare se l’impressione che si evince da quanto sopra riportato è che pure Forleo partecipò con Pradella alla delegittimazione di Salvini e causa del conseguente mutismo di Nico Azzi?
un saluto
VORREI L’IMPOSSIBILE, CHE CON L’ANNO NUOVO, PARLANDO DI PROCESSI, GIUSTIZIA , MAGISTRATURA NON SI SENTA MAI PIU’ PARLARE DEI SENATORI D’AMBROSIO E CASSON.