Thomas Kues: Sobibor. Una storia di un campo della morte nazista – una recensione

SOBIBOR. UNA STORIA DI UN CAMPO DELLA MORTE NAZISTA  

UNA RECENSIONE

Di Thomas Kues, 2008

Come tutti i presunti “campi di puro sterminio”, Sobibór vicino Włodawa è avvolto nell’oscurità. Non più di un pugno di libri sono stati dedicati a questo campo, dove presuntivamente centinaia di migliaia di ebrei, la maggior parte dei quali deportati dalla Polonia ma anche dall’Austria e dall’Olanda, vennero uccisi in camere a gas mediante lo scarico di un motore e in seguito inceneriti su gigantesche “griglie” fatte di binari ferroviari. Nel 1968, il libro Inferno em Sobibor dell’ex prigioniero di Sobibór Stanislaw Szmajzner venne pubblicato in portoghese a Rio de Janeiro. Nel 1980, la storica israeliana Miriam Novitch pubblicò una raccolta di brevi testimonianze (Sobibor. Martyrdom and Revolt, Holocaust Library). Il campo venne trattato nell’opera di Yitzhak Arad Belzec, Sobibor, Treblinka (Indiana University Press, Bloomington, 1987), come pure nel libro di Gitta Sereny su Franz Stangl, Into That Darkness (McGraw-Hill, New York 1974). Un libro sugli ebrei olandesi deportati al campo, De Negentien Treinen naar Sobibor di Elie A. Cohen, venne pubblicato nel 1979. Altri due ex detenuti hanno parimenti scritto libri sul campo: Thomas Blatt scrisse From the Ashes of Sobibor (Northwestern University Press 1997) e Sobibor – The Forgotten Revolt (Issaquah 1997), mentre il libro di Dov Freiberg Surviving Sobibor è stato pubblicato in inglese da Gefen Books nel 2007. L’opera che sarà recensita qui, Sobibor. A History of a Nazi Death Camp di Jules Schelvis, venne originariamente pubblicata in olandese nel 1993 da De Baatafsche Leeuw, Amsterdam, come Vernietigingskamp Sobibor. Un’edizione tedesca, intitolata Vernichtungslager Sobibor, venne pubblicata da Metropol Verlag nel 1998. La traduzione inglese del 2006 qui recensita è basata sulla revisione dell’edizione olandese del 2004.

Schelvis e Sobibór

Prima di tutto bisogna osservare che l’autore ebraico-olandese del libro è lungi dall’essere una disinteressata terza parte accademica sull’argomento che tratta. Nel giugno 1943, Schelvis venne deportato dal campo olandese di Westerbork a Sobibór insieme a sua moglie e alla famiglia di lei. Una volta arrivati a Sobibór, la giovane moglie e i genitori di lei vennero mandati via, presuntivamente alle camere a gas, mentre Schelvis insieme ad altri 81 giovani uomini vennero trasferiti a Dorohucza (Dorohusk), un campo di lavoro nelle vicinanze (Schelvis venne in seguito mandato nel ghetto di Radom e da lì ad Auschwitz, un altro “campo di sterminio” da cui egli miracolosamente riuscì a sopravvivere). L’autore perciò scrive sul campo con la convinzione (che possiamo presumere sincera) che Sobibór fosse una trappola mortale dove i suoi cari vennero brutalmente uccisi da un gruppo di sadici crudeli. Ma il coinvolgimento personale dell’autore non si esaurisce con questo trauma personale. Nel lungo processo di appello dell’ex SS di Sobibór Karl Frenzel tra il 1982 e il 1985, Schelvis figurò sia come testimone che come Nebenkläger (una parte civile nei processi tedeschi). Questo fatto si riflette in un certo numero di passaggi dedicati a questo guardiano tedesco, come pure negli epiteti a lui rivolti (“il boia di Sobibór). Di contro, a Gustav Wagner, l’uomo delle SS solitamente dipinto come l’”angelo della morte” di Sobibór, viene dato molto poco spazio, nonostante le molte intriganti questioni che circondano il suo arresto, il suo processo di estradizione e il suo successivo “suicidio” in Brasile nel 1980.

Revisione del tasso di mortalità di Sobibór

A partire dai primi anni postbellici è stato comunemente presunto che 250.000 ebrei vennero uccisi a Sobibór tra il 1942 e il 1943. Il cosiddetto telegramma Höfle, scoperto dallo storico Peter Witte nel 2000, dimostra che 101.370 ebrei erano stati trasportati a Sobibór fino al 31 dicembre 1942. Secondo la nuova ricerca sui trasporti ebraici a Sobibór presentata da Schelvis, altri 70.000 ebrei vennero inviati al campo durante il 1943. Questa cifra tuttavia dovrebbe essere assunta con prudenza, poiché le prove per almeno due trasporti (gli ultimi, presuntivamente dai territori sovietici occupati e riguardanti diverse migliaia di persone) provengono esclusivamente da testimonianze oculari (pp. 218-220). Il tasso di mortalità totale ammonta perciò secondo Schelvis ad approssimativamente 170.000 persone (p. 110, 198). Come accade non di rado nell’ambito della matematica dell’Olocausto, un gran numero di vittime presunte in precedenza – in questo caso 80.000 persone – sono improvvisamente diventate senza spiegazioni delle non persone.

Alla luce di questa revisione del numero dei deportati ebrei, è curioso leggere cosa ebbe a dire sul tasso di mortalità Erich Bauer, il presunto supervisore delle camere a gas – o “Gasmeister” – di Sobibór. Secondo la “confessione” di Bauer, scritta mentre scontava il carcere a vita in una prigione di Berlino, egli in un’occasione sentì il comandante del campo Franz Stangl menzionare che 350.000 ebrei erano stati uccisi a Sobibór (citato in Klee et. al. The Good Old Days, p. 232). Poiché Stangl lasciò Sobibór per Treblinka nel settembre 1942, ne consegue che il tasso di mortalità complessivo sarebbe molto più alto – e cioè, se dobbiamo credere alla testimonianza di Bauer piuttosto che alla prova documentaria del telegramma Höfle. Nonostante tutto ciò, il “perpetratore pentito” Bauer è considerato da Schelvis un testimone chiave le cui dichiarazioni sono assunte come veritiere anche quando confliggono con quelle di altri importanti testimoni oculari, per esempio sulla questione se le prime camere a gas vennero costruite in legno o in cemento (questione da me trattata nell’articolo in rete “Il presunto primo edificio di gasazione a Sobibór). Sembra curioso che Bauer, il quale, se la storia delle gasazioni fosse vera sul serio, avrebbe dovuto conoscere con precisione la capacità delle camere a gas come pure il numero medio delle gasazioni quotidiane, abbia potuto sbagliare fino al punto di dare credito alla cifra presuntivamente menzionata da Stangl.

Trasferimenti nei campi di lavoro nella regione di Włodawa

Schelvis dedica uno dei capitoli del suo libro al destino degli ebrei olandesi che, al loro arrivo a Sobibór, vennero trasferiti in qualcuno dei campi di lavoro nella regione di Włodawa. 700 olandesi vennero inviati a scavare torba a Dorohucza (p. 119). Presuntivamente solo due – uno di loro il nostro ragazzo fortunato Jules – sopravvissero alla guerra. Un certo numero di donne vennero parimenti inviate nei campi di Lublino. In totale circa 1.000 ebrei olandesi – secondo “stime approssimative” – vennero selezionati per i campi di lavoro nel Governatorato Generale.

Se almeno mille dei 34.313 ebrei olandesi deportati – che nelle testimonianze oculari su Sobibór sono spesso descritti come fragili e meno abituati al lavoro fisico degli ebrei europei orientali – vennero trasferiti per lavorare nel Governatorato Generale polacco, quanti deportati ebrei polacchi abili al lavoro vennero allora non selezionati per lavorare negli stessi campi?

Può essere inoltre notato che il fatto che il numero come pure l’identità degli ebrei deportati a Sobibór dall’Olanda possano essere conosciuti dai registri, nel futuro potrà aiutarci a stabilire il vero destino dei deportati. Presuntivamente, solo circa 20 di essi sopravvissero alla guerra. Un pieno accesso dei ricercatori indipendenti agli archivi di Arolsen potrebbe rendere tutto ciò decisamente possibile. In relazione a questo, Schelvis fornisce la seguente descrizione rivelatrice sul processo di registrazione dei deportati (p. 52):

“Due copie (dei registri dei prigionieri) vennero date ai responsabili del trasporto per il viaggio all’est, creando l’impressione, forse, che essi conoscessero i deportati per nome, e che l’elenco avrebbe facilitato la registrazione all’arrivo al campo.

Ad Auschwitz questo può essere stato in effetti il caso – a meno che naturalmente le vittime fossero mandate direttamente alle camere a gas. Ma gli elenchi compilati per Sobibór avevano il solo scopo di camuffare le vere intenzioni dei tedeschi. I responsabili del trasporto avrebbero passato gli elenchi al comandante del campo, ma il massimo che egli fece probabilmente di essi fu di metterli in un cassetto da qualche parte. Nessuna ulteriore azione venne mai intrapresa”.

L’asserzione nell’ultima parte del passaggio citato naturalmente si basa esclusivamente sulla storia delle gasazioni di massa, per le quali Schelvis non presenta un solo elemento di prova documentaria o forense.

I veri registri del campo possono essere tranquillamente finiti nello scaffale di qualche archivio del KGB blindato e sbarrato.

Passato sotto silenzio

Il modo forse migliore per smascherare le debolezze di questo volume non è quello di esaminare ciò che è scritto, ma far notare quello che non è scritto – o più precisamente, quello che viene passato sotto (cospicuo) silenzio dall’autore. il Sobibor di Jules Schelvis è (come viene ammesso dal suo sottotitolo) lungi dall’essere la storia definitiva del campo. È a tratti più accurato del libro di Arad di venti anni più vecchio, ma è una curiosa “accuratezza” che manca di peso. L’accusa di uno sterminio e dei successivi seppellimenti e cremazioni di 170.000 persone non è mai sostenuta da prove fisiche, e i pochi documenti dell’epoca di guerra che vengono mostrati non provano nessuna attività omicida. Non vi è neppure menzione degli scavi e delle perforazioni (i cui risultati non sono stati ancora pubblicati) effettuati a quanto si dice nel sito dell’ex campo dall’archeologo polacco Andrzej Kola nel 2001, nonostante che il testo di Schelvis sia stato rivisto ben oltre questa data.

Quella che specialmente rimane nella mia memoria dopo aver letto questo libro è una delle fotografie riprodotte. Complessivamente Schelvis ci mostra qualcosa come 60 immagini (principalmente foto tipo passaporto dei sopravvissuti e del personale del campo), ma la maggior parte di esse possono essere viste altrove o sono francamente non molto interessanti. Per esempio, ci viene mostrata una foto alquanto sfocata di un “cumulo di ceneri” ma è impossibile accertare dall’immagine le sue dimensioni o i contenuti. Né ossa né frammenti di ossa sono visibili. La foto che mi ha colpito mostra Hubert Gomerski, un occhialuto anziano con capelli imbiancati che indossa una giacca beige di poche pretese. Lo vediamo leggermente da dietro, mentre si allontana dall’obbiettivo lungo qualche strada. Secondo la didascalia, Gomerski si allontana frettolosamente dal tribunale dove è comparso come testimone dell’accusa. Nella stessa pagina, ci viene mostrata una foto d’epoca di Gomerski in uniforme insieme con qualche altro membro dello staff di Sobibór. La didascalia di questa foto afferma che Gomerski fu un crudele e brutale assassino. È vero? Ricevette davvero un processo equo nel 1950, come è indicato da Schelvis? Poté parlare sinceramente ai suoi inquirenti e ai suoi avvocati o gli vennero consegnate, come all’uomo delle SS di Auschwitz Hans Aumeier, un certo numero di domande tendenziose, con le quali gli si chiedeva che affermasse quello che “sapeva” sulle “camere a gas”? Il vecchio dall’aspetto anonimo sulla foto sapeva la verità su Sobibór. Osò confidarla a qualcuno? Ai suoi amici? Alla sua famiglia? A sé stesso, in scritti privati forse lasciati alle spalle alla sua morte? Molto probabilmente non lo sapremo mai, e per noi che siamo in attesa che la vera storia di Sobibór e degli altri campi Reinhardt emerga dalla palude della mitografia olocaustica, il libro del signor Schelvis purtroppo non ci darà qualcosa di più di qualche pezzetto di puzzle, sparso tra cumuli di informazioni marginali e di retorica oscurantista, come la vuota tirata contro noi maledetti scettici dell’Olocausto (p. 3):

Le citazioni dello staff delle SS che sono state incluse nel mio libro sono state prese da dichiarazioni e interrogatori che essi stessi hanno approvato con le loro firme. Tuttavia vi sono quelli che cocciutamente rifiutano di riconoscere – ora anche su Internet – l’esistenza dei campi di sterminio. Costoro troveranno in questo libro incontestabili prove del contrario”.

Naturalmente nessun revisionista informato nega l’esistenza dei campi in sé: sono gli stermini presuntivamente effettuati al loro interno che vengono messi in discussione – ma naturalmente Schelvis non rinuncia ad un buon argomento fantoccio[1]. Possiamo sperare che Schelvis si prenda la briga di leggere i testi revisionisti in rete sulla sua “fabbrica di cadaveri” preferita? Io almeno apprezzerei i suoi commenti.

Il libro di Schelvis è un libro meritevole di acquisto (o da prendere in prestito) come un’opera di riferimento per coloro che sono interessati alla questione dei “campi della morte” dell’Aktion Reinhardt, poiché contiene lunghe citazioni di un certo numero di testimonianze difficili da trovare. Tra le altre notizie ghiotte, apprendiamo (a p. 176) che l’ex comandante di uno squadrone SS che partecipava alla caccia degli ebrei fuggiti dopo la rivolta dei prigionieri a Sobibór, vide che diversi dei fuggiaschi tornarono volontariamente al campo e si presentarono ai sorveglianti del campo – potrebbe sembrare un po’ inaspettato per un presunto campo della morte!

 

Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: https://codoh.com/library/document/478/?lang=en

 

     

 

 

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Argomento_fantoccio

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