Alberto Melloni |
Importante articolo dello storico
Alberto Melloni, che ha tutta l’aria di essere un attacco, per quanto indiretto – il bersaglio
non viene nominato – a Furio Colombo (il quale ha replicato con un piccato quanto
inane intervento sul Fatto Quotidiano di qualche giorno fa), quel Colombo che
fu il principale promotore in Parlamento, nel 2000, della legge istitutiva della
Giornata della Memoria (della Shoah), capostipite delle “leggi memoriali” che fagocitano
e paralizzano, come giustamente sostiene Melloni, anche la libertà di ricerca,
oltre alla libertà di parola”.
Dal sito di la Repubblica:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/06/09/la-memoria-e-la-storia-di-fronte-al-male51.html?refresh_ce
Alberto Melloni
La memoria e la Storia
di fronte al male
Non è una questione di isterie accademiche, anche se queste vi sguazzano.
Non sono sottigliezze epistemologiche, anche se vi sono implicate. Non è un
problema del solo occidente europeo, anche se rimbomba forte nella sua
coscienza. È una metamorfosi culturale profonda che si misura col
“male” da cui nasce la nostra cultura e ne cambia il destino,
invertendo le polarità intellettuali fra storia e memoria, con conseguenze che
ci segnano tutti e che affiorano anche nei dibattiti tedeschi sul genocidio
armeno e nel nostro dibattito sulla legge contro il negazionismo, approvata
ieri dalla Camera, che punisce con il carcere da 2 a 6 anni. Quel tipo di
conoscenza del passato moderna che noi chiamiamo “storia” è figlia di
una tradizione millenaria di esplorazione del passato, ma non di meno della
secolarizzazione della “teodicea”. Dalla metà del secolo XVIII anziché
chieder conto a Dio del male del mondo in un processo a cui Leibniz diede quel
nome (teodicea), abbiamo imparato a chiedercene conto, in un processo fra noi
umani di cui la “storia” è parte. Davanti al suo tribunale le
tecniche degli avvocati di Dio che dovevano mandarlo assolto rispetto al capo
d’accusa coniato già da Boezio (“Si Deus unde malum?”), diventano
paradigmi storiografici che frammentano la domanda radicale sul
“cos’è” dell’essere umano e sulla irreparabilità del male di cui si
rende responsabile.
Bene. Questa conoscenza aveva imparato a difendersi dal potere e dalla sua
richiesta ossessiva di legittimazione: e s’è invece mostrata aperta, come
notava già René Remond sul finire del Novecento, alla richiesta prepotente di
diventare il luogo dove si fa giustizia dei torti del mondo, del silenzio dei
cancellati. Lì ha guadagnato visibilità, antagonismo con l’autorità: ma ha dato
corda alla sua più insidiosa concorrente che è la “memoria”.
Non la memoria biblica dello “zaqhòr”: quella che comanda di
pungere l’indifferenza che rende schiavi rivivendo il percorso di liberazione.
Non la memoria “immaginativa” degli Esercizi di sant’ Ignazio, che
costringe ad affrontare i fantasmi dell’auto-carcerazione dell’io, passeggiando
nel vangelo come su un set. Ma la memoria normata, quella definita dalle Leggi
e regolata dalla politica: la memoria che fa votare al Bundestag (assente la Cancelliera Merkel
al momento del voto) una legge contro il negazionismo del genocidio armeno,
quello il cui oblio era usato da Hitler per avvalorare la pianificazione della
Shoah; la memoria che fa votare al Senato italiano una legge per punire il
negazionismo, come se vietare l’assurdo avesse un senso.
Questa memoria, come forma di legittimazione etica della collettività, s’è
impossessata dello spazio pubblico: ha surclassato “l’uso pubblico della
storia” e ha generato “l’uso pubblico” di sé medesima. Viene
celebrata secolarizzando l’antica metrica della liturgia. Produce feste della
memoria, sospensioni della memoria, eruzioni della memoria, festival della
memoria. Fissa prescrizioni rituali, determina l’umore dei bambini, i
palinsesti delle televisioni, le spese della fiction, gli obiettivi formativi
delle scuole.
Nello spazio pubblico del primo Novecento, infatti, c’era una separazione
fra storia e memoria che assegnava a ciascuna i propri luoghi. I “luoghi
della memoria” avevano punteggiato l’Europa del primo dopoguerra,
disseminando di cippi ed elenchi dei poveracci mandati a diventare carne da
cannone in tutto il continente. Ma questa occupazione, passibile di usi
ideologici infiammabili, aveva come contrappeso un altro spazio: quello
altrettanto vasto fatto di menti e culture, a disposizione di una casta di
storici, capace di aprire le menti con una conoscenza ritenuta essenziale.
Anzi: proprio lo sbiadire della memoria, sotto le ingiurie del tempo e dei
piccioni, rendeva fisico l’accumulo di “distanza storica”: e lì si
inseriva un lavoro scientifico di cui si nutrivano (si “dovevano”
nutrire) le classi dirigenti per essere tali.
Ancora nel secondo dopoguerra era questo snodo storiografico “lo”
snodo di tutto. Talché si poteva dire che la Shoah diventa tema politico quando lo storico
Jules Isaac ne parla a papa Giovanni XXIII o quando Raul Hilberg fa il suo
dottorato sulla distruzione dell’ebraismo europeo creando un volume che i
leader politici del mondo bipolare dovevano o conoscere o citare. Poi il
meccanismo s’è inceppato. È lì, verso la fine della guerra fredda, che la
domanda di storia si è contratta e l’offerta di storia è risultata inadeguata
sul piano qualitativo e quantitativo.
La cultura storica, quella che ha impregnato la mentalità dei ceti europei
di governo del secondo Novecento, quella che è stata egemone nel pensiero dei
ricostruttori dell’Europa, è stata rimpiazzata da una gnosi econometrica. La
lingua franca non è quella del realismo storico, ma di un moralismo che
attribuisce alla opinione pubblica il ruolo delle “tricoteuses”
ritratte Charles Dickens, che fanno la maglia mentre la ghigliottina mediatica
lavora.
Anche per questo è cresciuto il mito della memoria, che ci somministra in
date fisse, brandelli di dolore in cerca d’autore. Al poco di
“verità” che volta a volta la ricerca storica afferra, s’è sostituita
la dosatura della modica quantità di “colpa” che gli umani possono sopportare
e la sua distribuzione per legge. Leggi che obbligano a non negare il male
commesso, ma di cui la memoria sbiadisce l’analisi e fino a fissare come dose
minima la non-negazione della sua esistenza.
In questo ambito è esemplare il caso italiano. La Legge della memoria del 2001
prende come data simbolo quella della liberazione di Auschwitz, e non quella
delle nostre leggi razziali. Ricorda le vittime della Shoah – ebrei e zingari
per l’Italia – insieme agli internati militari italiani che finirono in campo
di concentramento dopo l’8 settembre e agli altri perseguitati in senso
generico, ma esclude questi ultimi dai riti civili del 27 gennaio per evidente
incomponibilità fra le misure etiche delle vicende. Non dice mai la parola
“fascismo” nella legge della memoria: perché allora la unanimità
parlamentare giustamente desiderata fu pagata a un prezzo etico esorbitante. E
poi quella legge è stata affiancata nel 2004, dalla legge sulle vittime delle
foibe: con un atto che sembrava voler “bilanciare” due tragedie e la
loro sostanza umana in una impensabile par condicio.
In attesa che la memoria ritrovi nel sapere un argine e un farmaco, il
passato diventa un solaio delle metafore, un bisturi arrugginito
dall’erudizione, con cui non si possono incidere i bubboni della vita comune:
in attesa che un nuovo “male” ci liberi dalla falsa alternativa fra
“Funes el memorióso” di Borges e Auguste Deter, la prima paziente di
Alois Alzheimer, e ci obblighi a tornare al sapere del dettaglio in cui s’annida
la responsabilità.
La furia travestita da colomba |
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