AUTOREVOLE TESTIMONE VIVENTE» DELLA SHOAH»?
2010
Montecitorio
Wiesel è stato invitato nell’aula di Montecitorio, dove ha tenuto un breve
discorso infarcito di melensa retorica e condito di strambe scempiaggini, come
l’appello a Fini e Berlusconi di «introdurre
un disegno di legge che designi l’attentato suicida come crimine contro
l’umanità», o l’auspicio che Ahmadinejad «dovrebbe essere arrestato e tradotto di fronte alla Corte dell’Aia e
accusato di incitamento a crimini contro l’umanità»[1]. Considerato che le proposte vengono da uno
che spalleggia i massacratori israeliani…
dichiarazioni più importanti, vedremo poi perché, sono queste:
il numero A-7713, sono qui a portarvi un messaggio su avvenimenti accaduti
duemila anni più tardi. […].
in questi giorni, sessantacinque anni fa, mio padre Shlomo, figlio di
Nissel e Eliezer Wiesel, numero A-7712, moriva di inedia e malattia nel campo
di sterminio di Buchenwald»(corsivo mio).
l’ospite così:
odierno è un evento eccezionale, perché è la terza volta, nella centenaria
storia del Parlamento italiano, che un ospite parla solennemente all’Assemblea.
È un onore che Elie Wiesel merita ampiamente, perché è davvero un
personaggio eccezionale. Egli, infatti, è il più autorevole testimone
vivente, tra i sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti, degli
orrori della Shoah»(corsivo mio).
che testimone oculare della Shoah, Wiesel è una persona piena di fede e
di amore»(corsivo mio).
l’attenzione su un articolo scritto in ungherese il 3 marzo 2009[2],
tradotto in inglese il giorno dopo[3]
e in italiano nel mese di aprile[4].
In estrema sintesi, Miklós Grüner, che fu deportato dall’Ungheria ad Auschwitz
nel maggio 1944, indi trasferito al campo di Monowitz e infine evacuato a Buchenwald
nel gennaio 1945, dichiarò che al campo strinse amicizia con due fratelli,
Lázár Wiesel, nato nel 1913, che aveva il numero di matricola A-7713, e Ábrahám
Wiesel, nato nel 1900, numero di matricola A-7712. In pratica, Elie Wiesel si
sarebbe appropriato dell’identità di Lázár Wiesel e avrebbe usurpato quella di Ábrahám
per il padre.
Miklós Grüner aggiunge che, in occasione di un incontro con Elie Wiesel, che
gli era stato presentato come il suo amico Lázár Wiesel, questi rifiutò di
mostrargli il numero di matricola tatuato sull’avambraccio. Egli allora
intraprese delle ricerche e scoprì che un Elie Wiesel non era mai stato
internato in un campo di concentramento e che non figurava in alcuna lista
ufficiale di deportati.
senza indagare oltre. Non resta dunque che sottoporle a verifica in base alla
sana metodologia critica revisionistica.
Sarah Frig, figlia di Dodye Feig, deportato a
Birkenau il 16 maggio 1944[5].
si può dire con certezza riguardo a Miklós Grüner, è che egli si trovava a
Buchenwald nel maggio 1945. In un
“Questionario per detenuti dei campi di concentramento” del Military Government of Germany appare infatti il suo nome, e anche la data di nascita – 6 aprile 1928
– corrisponde. Il numero di matricola è annotato a mano in alto a sinistra:
120762[6].
relativo a Miklós Grüner. Buchenwald, 6 maggio 1945
chiave della vicenda è Lázár Wiesel. Fortunatamente esiste la sua
scheda personale relativa al suo internamento nel campo di Buchenwald che
permette di verificare le affermazioni di Miklós Grüner. In questa scheda[7], in alto, a
sinistra, appare l’annotazione manoscritta “Ung. Jude”, “Ebreo ungherese”, al
centro, “Ausch. A 7713”, “Auschwitz A-7713”, il vecchio numero di matricola di
Auschwitz, a destra “Gef.-Nr.: 123565”, “Numero di detenuto 123565”, il nuovo
numero di matricola di Buchenwald. Il detenuto era nato il 4 settembre 1913
(l’anno di nascita di Lázár Wiesel dichiarato da Miklós Grüner) a
Maromarossziget ed era figlio di Szalamo Wiesel, che si trovava a Buchenwald, e
di Serena Wiesel nata Feig, internata al KL Auschwitz. Il timbro “26.1.45 KL.
Auschwitz” significa che Lázár Wiesel era stato registrato a Buchenwald il 26 gennaio 1945 in provenienza
da Auschwitz.
Buchenwald)
[Máramarossziget in ungherese], l’attuale Sighetu Marmaţiei (in rumeno) è la
medesima località che Elie Wiesel chiama Sighet[8].
identico a “Shlomo”, mentre “Serena” richiama foneticamente “Sarah”.
|
Lázár Wiesel
|
Elie Wiesel
|
Numero di matricola
|
A-7713
|
A-7713 |
Data di nascita
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4 settembre 1913
|
30 settembre
1928 |
Luogo di nascita
|
Máramarossziget
= Sighet
|
Sighet |
Nome del padre
|
Szalamo = Shlomo
|
Shlomo |
Nome della madre
|
Serena Feig
|
Sarah Feig
|
Domicilio del padre inizio 1945
|
Buchenwald | Buchenwald |
dell’identità di Lázár Wiesel. Un’altra accusa formulata da Miklós Grüner
riguarda l’origine del libro di Eli Wiesel “La Nuit” (in italiano “La
notte”). Nella versione ungherese dell’articolo indicato nella nota 2 si dice
che esso fu pubblicato in ungherese a Parigi nel 1955 dal suo amico Lázár col
nome di Eliezer e col titolo “A világ hallgat” (E
il mondo tace). Nella traduzione
inglese dell’articolo indicata nella nota 3 invece il titolo suona “Un
di Velt hot Gesvigen”, che è in jiddisch. Una ricerca sul titolo in
ungherese non ha portato ad alcun risultato. Il libro in jiddisch invece
è documentabile. Esso è infatti registrato nella Bibliography of Yiddish
Books on the Catastrophe and Heroism[9],
n. 549 a p. 81. L’annotazione, in jiddisch, dice: Eliezer Wiesel, Un
di Welt hot geschwign (E il mondo ha taciuto). Buenos Aires, 1956. Unione
Centrale degli Ebrei polacchi in Argentina. Collana L’ebraismo polacco,
vol. 117, 252 pagine. Di questo libro esiste una
traduzione in inglese che corrisponde al capitolo VII di “La Nuit”. Ne
parlerò alla fine dell’articolo.
al riguardo informazioni degne di nota:
stesso ha fatto vari accenni alla storia della nascita del suo libro. Naomi
Seidman ha rilevato che proprio Wiesel, in Alle Flüsse fließen ins Meer
(Tutti i fiumi portano al mare) ha richiamato l’attenzione sul fatto di aver
consegnato all’editore argentino Mark Turkow il manoscritto originale di “La
Nuit”, redatto in jiddisch, nel 1954. A suo dire non l’aveva più
rivisto, cosa che Turk nega recisamente. Questo manoscritto fu pubblicato nel
1955 a Buenos Aires col titolo Und di Velt hat Geshveyn (E il
mondo ha taciuto). Wiesel pretende di averlo scritto durante una crociera in
Brasile nel 1954. Però in una intervista dichiarò che solo nel maggio 1955,
dopo un incontro con Mauriac[10], decise di rompere il suo
silenzio. “E quell’anno [il 1955], nel decimo anno, cominciai la mia storia.
Poi fu tradotta dallo jiddish in francese e io gliela mandai. Fummo
molto, molto amici fino alla sua morte”.
Seidman, nelle sue ricerche su “La Nuit”, mise in chiaro che tra la
versione in jiddisch e quella in francese di “La Nuit” ci sono
notevoli differenze, precisamente riguardo a lunghezza, tono, intenzione e temi
trattati nel libro. Ella attribuisce queste differenze all’influenza di
Mauriac, che può essere descritto come una personalità molto particolare»[11].
dire è che l’origine del libro resta incerta e confusa.
resta da stabilire se Elie Wiesel sia anche un falso testimone di Auschwitz.
Esamineremo perciò la sua “testimonianza
oculare”, come è esposta in «quello
che è considerato il suo capolavoro»(Fini),
La notte[12]. Già
nel 1986 Robert Faurisson scrisse un articolo intitolato Un grand faux
témoin: Élie Wiesel[13].
Di recente Thomas Kues ne ha redatto un altro dal titolo Una donnola
travestita da agnello[14].
Entrambi affrontano la questione in termini generali. È giunto il momento di
un’analisi tematica più approndita. Bisogna premettere che la caratteristica
principale della testimonianza in questione è che racconta senza descrivere;
Elie Wiesel pone grande attenzione ad evitare qualunque dettaglio verificabile
e ciò che dice di Birkenau, di Auschwitz, di Monowitz e di Buchenwald è
talmente indefinito che la sua narrazione si potrebbe tranquillamente riferire
ad un luogo della Siberia o del Canada.
indica il giorno della sua deportazione ad Auschwitz. La sua narrazione parte
comunque da un riferimento cronologico preciso: «il sabato precedente Shavuòth,
la Festa delle Settimane»(p. 19). Nel 1944 questa festa cadde il 28 maggio 1944[15], che
era una domenica. Il giorno in questione era perciò il 27 maggio. Il primo
trasporto di Ebrei partì da Sighet il giorno dopo, 28 maggio: «Infine, all’una
venne dato il segnale di partenza»(p. 23). Elie Wiesel menziona poi «la
giornata di lunedì»(p. 25), l’alba del giorno dopo (p. 25) e la successiva
notte (p. 27) e alla fine precisa: «Sabato, il giorno del riposo, era il giorno
scelto per la nostra cacciata»(p. 28) e quello fu appunto il giorno della sua
deportazione (p. 29): il 3 giugno 1944.
viaggio non è indicata, ma i trasporti dall’Ungheria impiegarono da tre a
quattro giorni per arrivare ad Auschwitz-Birkenau. Elie Wiesel trascorse la
notte a Birkenau e l’indomani fu
trasferito ad Auschwitz dove gli fu tatuato il numero A-7713 (p. 47). Tuttavia,
a suo dire, «era una bella giornata
d’aprile» (p. 45).
è completamente inventata. Se egli partì da Sighet il 3 giugno 1944 non poté arrivare ad Auschwitz
in aprile. Per di più, il numero A-7713
fu assegnato il 24 maggio, giorno in cui furono immatricolati 2.000 Ebrei
ungheresi con i numeri A-5729–A-7728[16].
Secondo Randolph L. Braham, un trasporto ebraico per Auschwitz partì da Máramarossziget il
20 maggio 1944[17]. Considerati quattro giorni di viaggio, questo
è il trasporto di Lázár Wiesel, cui fu assegnato il numero A-7713 appunto il 24 maggio. Ma tutte queste cose,
evidentemente, Eli Wiesel non le sapeva.
maggio 1944
Exp. 3056)
Poi il racconto diventa un po’
meno vago:
camino? Lo vedete? Le fiamme le vedete? (Sì, le vedevamo, le fiamme)»(p.
36). Così sappiamo anche dove si trovava
il camino: «Laggiù»!(Corsivo mio).
Cinquanta, quando Elie Wiesel scrisse La Notte (1958). Ormai non la prende
più sul serio neppure un Robert Jan van Pelt, che si è industriato per
dimostrare che i camini dei crematori di Birkenau fumavano… e basta[22]. In
effetti questa storiella non ha alcun fondamento tecnico, come ho spiegato in
un articolo specifico[23].
Birkenau – Fine maggio 1944. Le frecce indicano i camini dei crematori II e
III, senza “fiamme” né fumo (da: L’Album d’Auschwitz, p.51)
una fossa, delle fiamme gigantesche. Vi si bruciava qualche cosa. Un autocarro
si avvicinò e scaricò il suo carico: erano dei bambini. Dei neonati! Sì,
l’avevo visto. L’avevo visto con i miei occhi… Dei bambini nelle fiamme.
[…]. Ecco dunque dove andavamo. Un po’ più avanti avremmo trovato un’altra
fossa, più grande, per adulti. […]. Continuammo a marciare. Ci avvicinammo a
poco a poco alla fossa da cui proveniva un calore infernale. Ancora venti
passi. Se volevo darmi la morte, questo era il momento. La nostra colonna non
aveva da fare più che una quindicina di passi. Io mi mordevo le labbra perché mio
padre non sentisse il tremito delle mie mascelle. Ancora dieci passi. Otto.
Sette. Marciavamo lentamente, come dietro un carro funebre, seguendo il nostro
funerale. Solo quattro passi. Tre. Ora era là, vicinissima a noi, la fossa e le
sue fiamme. Io raccoglievo tutte le mie forze residue per poter saltare fuori
dalla fila e gettarmi sui reticolati. In fondo al mio cuore davo l’addio a mio
padre, all’universo intero e, mio malgrado, delle parole si formavano e si
presentavano in un mormorio alle mie labbra: Yitgaddàl veyitkaddàsh shemé
rabbà…Che il Suo Nome sia elevato e santificato…Il mio cuore stava per
scoppiare. Ecco: mi trovavo di fronte all’Angelo della morte… No. A due passi
dalla fossa, ci ordinarono di girare a sinistra, e ci fecero entrare in una baracca»(pp.
37-38).
fornire il minimo punto di riferimento topografico. Secondo la storiografia
olocaustica, le “fosse di cremazione” si trovavano in due siti: all’esterno del
campo, di fronte alla Zentralsauna, nell’area del presunto “Bunker 2”[24] e nel
cortile nord del crematorio V. La prima possibilità deve essere esclusa perché,
in tal caso, Elie Wiesel avrebbe dovuto menzionare l’uscita dal campo e un
percorso di varie centinaia di metri in aperta campagna. Resta la seconda.
dimostrato, grazie all’analisi di tutte fotografie aeree di Birkenau
disponibili, che la storia delle “fosse di cremazione”, per numero, superficie
e finalità, non trova alcun riscontro nella realtà. L’unico sito
di cremazione documentariamente attestato che esistette a Birkenau era
dislocato dietro il crematorio V e aveva una superficie di circa 50 metri
quadrati (mentre, secondo la propaganda olocaustica, il presunto sterminio
degli Ebrei ungheresi avrebbe richiesto “fosse di cremazione” con una
superficie totale di circa 5.900 metri quadrati), come si vede in questa
fotografia:
nord del crematorio V
dal confronto con il Krematorio V (a sinistra), che era largo circa 13 metri
necessariamente accanto ai crematori IV e V, che non sarebbero certo sfuggiti
ad un acuto osservatore di camini come Elie Wiesel, dato che ne avevano ben
quattro; per di più, in prossimità di esso non c’era nessuna baracca, ma solo
il crematorio V. Infine il reticolato più vicino (quello nord), sul quale si
sarebbe voluto gettare il nostro testimone, si trovava al di là del fossato di
drenaggio che correva lungo la recinzione.
Oltre che storicamente infondata, la storia è anche assurda, perché, se
Elie Wiesel si fosse realmente avvicinato fino a due passi da una vera “fossa
di cremazione”, che, per assolvere la sua funzione, avrebbe dovuto avere una
temperatura minima di 600°C, si sarebbe ustionato mortalmente.
cremazione” fa parte anch’essa dell’armamentario propagandistico del
dopoguerra. Essa fu illustrata da David Olère in un quadro del 1947 che poi è
servito di ispirazione per i “testimoni oculari” successivi[26].
suo padre erano stati “selezionati” per il lavoro, perché furono portati in
prossimità della “fossa di cremazione”? Per scoprire il preteso “terribile
segreto” di Auschwitz e propalarlo tra altri detenuti in altri campi?
“testimonianza oculare” orrida puramente fittizia.
Auschwitz
fu trasferito al campo principale di Auschwitz. Anche in questo caso la
descrizione del tragitto è oltremodo vaga:
marcia era durata una mezz’ora. Guardandomi intorno mi accorsi che i reticolati
erano dietro di noi: eravamo usciti dal campo. Era una bella giornata d’aprile.
Profumi di primavera aleggiavano nell’aria. Il sole calava verso occidente. Ma appena dopo pochi passi vedemmo i
reticolati di un altro campo. Un cancello di ferro, con su in alto scritto: “Il
lavoro rende liberi”. Auschwitz»(p. 45).
Così egli non si
accorse neppure all’uscita dal campo di essere passato sotto l’arco
dell’edificio di ingresso di Birkenau. Lungo il tragitto non notò nulla, né il
ponte sopra la ferrovia, né il lungo viale che portava al campo di Auschwitz.
La scritta “Arbeit macht frei” invece la notò subito (ma non in tedesco!),
come la può notare chiunque abbia sentito parlare di Auschwitz.
dire che egli si guarda bene dal descrivere, sia pure sommariamente, il nuovo
campo. Ivi giunto, fu accolto nel Block 17, di cui ovviamente non dice
nulla.
pomeriggio ci misero in fila. Tre prigionieri portarono un tavolo e degli
strumenti chirurgici. Con la manica del braccio sinistro tirata su ognuno
doveva passare davanti alla tavola. I tre “anziani”, ago alla mano, ci
incidevano un numero sul braccio sinistro. Io diventai A-7713»(p. 47).
descrizione è fasulla. Ho già esposto l’impostura del numero di matricola.
Aggiungo che, come riferisce Tadeusz Iwaszko,
«i
nuovi arrivati (Zugang) venivano portati negli edifici dei bagni, che ad
Auschwitz I si trovavano nel blocco nr. 26»[27].
anche tutte le importanti operazioni preliminari, che evidentemente non
conosceva affatto:
registrazione avveniva subito dopo il bagno e la consegna dei vestiti e
consisteva nella compilazione di un modulo con i dati personali (Häftlings-Personalbogen)
e l’indirizzo dei familiari più prossimi. […]. Il detenuto riceveva quindi un
numero progressivo che per tutta la durata del suo soggiorno al KL avrebbe
sostituito il suo nome. La procedura di immatricolazione si concludeva con il
tatuaggio del numero sull’avambraccio sinistro»[28].
di migliaia di detenuti stavano in fila mentre le S.S. verificavano il loro
numero»(p. 47)(corsivo mio).
campo di Auschwitz era di gran lunga più esigua. Il 12 luglio 1944 contava
circa 14.400 detenuti[29].
Il trasferimento a Monowitz
di permanenza ad Auschwitz (p. 48), Elie Wiesel fu trasferito al campo di Buna
(p. 50), cioè Auschwitz III o Monowitz. Anche qui nessuna descrizione del
campo, nessun particolare verificabile[30]. Le
poche informazioni da lui fornite sono tutte fantasiose. Egli comincia subito
con una contraddizione:
nostro convoglio c’erano dei bambini di dieci, dodici anni»(p. 51).
dichiarato 18 anni?
«sistemati in due tende»(p. 51), come se non ci fosse posto nelle 60 baracche
del campo, così descritto da Primo Levi:
nostro Lager è un quadrato di circa seicento metri di lato, circondato da due
reticolati di filo spinato, il più interno dei quali è percorso da corrente ad
alta tensione. È costituito da sessanta baracche in legno, che qui si chiamano Blocks,
di cui una decina in costruzione; a queste vanno aggiunti il corpo delle
cucine, che è in muratura; una fattoria sperimentale, gestita da un
distaccamento di Häftlinge privilegiati; le baracche delle docce e delle
latrine, in numero di una per ogni gruppo di sei od otto Blocks. Di più,
alcuni Blocks sono adibiti a scopi particolari. Innanzitutto, un gruppo
di otto, all’estremità est del campo, costituisce l’infermeria e l’ambulatorio;
v’è poi il Block 24 che è il Krätzeblock, riservato agli
scabbiosi; il Block 7, in cui nessun comune Häftling è mai
entrato, riservato alla “Prominenz”, cioè all’aristocrazia, agli
internati che ricoprono le cariche supreme; il Block 47, riservato ai Reichsdeutsche
(gli ariani tedeschi, politici o criminali); il Block 49, per soli Kapos;
il Block 12, una metà del quale, ad uso dei Reichsdeutsche e Kapos,
funge da Kantine, cioè da distributorio di tabacco, polvere insetticida,
e occasionalmente altri articoli; il Block 37, che contiene la Fureria
centrale e l’Ufficio del lavoro; e infine il Block 29, che ha le
finestre sempre chiuse perché è il Frauenblock, il postribolo del campo,
servito da ragazze Häftlinge polacche, e riservato ai Reichsdeutsche»[31].
patetica.
di ostentare la conoscenza di Primo Levi:
un certo punto siamo stati assegnati alla stessa baracca, ma non era
presente nella marcia della morte verso i vagoni che ci hanno portato a
Buchenwald; è rimasto in ospedale»[32](corsivo
mio).
Block 45[34] e
infine al Block 48[35].
In
quale Block alloggiò Elie Wiesel? La risposta non è semplice. Egli menziona dapprima «il blocco
dell’orchestra»[36], che si
trovava effettivamente «vicino alla porta del campo»(p. 53), poi menziona un
paio di volte il Block 36 («… mi misi a correre verso il blocco 36…Corsi
verso il blocco 36…» (p. 74 e 77), senza precisare se vi alloggiasse; infine
dichiara esplicitamente che si trovava nel Block 57 (p. 84). In pratica Elie Wiesel e Primo Levi non si
trovarono mai nella stessa baracca. Una pia menzogna nel bel mezzo di
Montecitorio, al cospetto di cotanti illustri uditori!
conseguente chiusura del «gabinetto del dentista»(p. 55) non ha alcun
fondamento. I denti d’oro venivano estratti ai cadaveri e il gabinetto dentistico
(Zahnstation), che si trovava nel Block 15 ed operava sotto la
supervisione delle SS, non fu chiuso.
“selezionato” per le “camere a gas”:
«Quando
arrivò la selezione era già condannato e non fece altro che offrire il suo
collo al boia. Ci chiese soltanto: “Fra tre giorni non ci sarò più… Dite il
Kaddish per me”. Noi glielo promettemmo: fra tre giorni, vedendo alzarsi il
fumo dal camino, avremmo pensato a lui, avremmo raccolto dieci uomini e
avremmo fatto una funzione speciale. […]. Allora se ne andò, nella direzione
dell’ospedale con un passo quasi sicuro, senza guardarsi indietro. Un’ambulanza
lo aspettava per portarlo a Birkenau»(p. 78)[Corsivo mio].
al campo di Monowitz, dove non esisteva alcun crematorio, oppure aveva una
vista tanto acuta da riuscire a vedere il fumo “del camino” (uno dei sei, a
scelta) di Birkenau, cosa un po’ improbabile, perché i due campi distavano in
linea d’aria circa 5 chilometri e in mezzo c’era la città di Auschwitz.
scomodare un’ambulanza per trasportare un detenuto alla “gasazione”, questo sì
che era una vera “Sonderbehandlung”, un “trattamento speciale”!
Elie Wiesel afferma che ad una di esse era presente «il famoso dottor
Mengele»(p. 73), che, essendo Lagerarzt del campo zingari (BIIe) di
Birkenau, aveva ben altro da fare che andare a Monowitz a effettuare
“selezioni”. Questo è l’unico medico menzionato da Eli Wiesel, che lo avrebbe
anche accolto a Birkenau (p. 37), appunto perché era «famoso», anche tra coloro
che non avevano mai messo piede ad Auschwitz.
“testimone oculare” si concede persino un particolare verificabile: un attacco
aereo alleato.
domenica»; il giorno lo ricordava bene, perché ne approfittò «per dormire fino
a tardi»(p. 61). «Il bombardamento durò più di un’ora»(p. 63). Il commento di
Elie Wiesel: «Vedere la fabbrica consumarsi nell’incendio, che vendetta!
»(p. 62)[corsivo mio].
avvenne il 13 settembre 1944, che era un mercoledì, durò 13 minuti, dalle 11.17
alle 11.30 e distrusse solo una parte degli impianti. A Monowitz non c’era
infatti «la fabbrica», ma decine e decine di impianti.
altre scempiaggini minori, come la pena di morte comminata «in nome di
Himmler»!(p. 64) e passiamo al suo ricovero all’ospedale del campo
(probabilmente ispirato da quello di Primo Levi). Ciò avvenne «verso la metà di
gennaio», quando gli si gonfiò il piede destro a causa del freddo e fu
necessario un intervento chirurgico. Egli fu dunque ricoverato all’ospedale e
non gli sfuggì che «era molto piccolo»(p. 79). Infatti era costituito da appena
9 blochi, 2 di convalescenza (13 e 22), 2 di chirurgia (14 e 16), 1 di medicina
interna con gabinetto dentistico (15), 2 di medicina interna (17 e 19), 1 con
ambulatorio e ufficio degli scrivani (18) e 1 per malattie infettive.
Il trasferimento a Buchenwald
aspettare i Sovietici non bisogna attribuire un qualche significato
particolare, perché, nel suo contesto letterario, è psicologicamente
giustificata dal timore (ingiustificato) che tutti coloro che fossero rimasti
al campo sarebbero stati fucilati.
peripezie della marcia di evacuazione e del trasporto in treno e passo subito
all’arrivo a Buchenwald. Da tener presente solo la durata del viaggio: 3 giorni
di sosta a Gleiwitz (p. 94), più un giorno per arrivarvi a piedi da Monowitz,
«dieci giorni e dieci notti di viaggio»(p. 97) in treno, in totale 14 giorni.
Riguardo a Buchenwald identica non-descrizione: impossibile identificare una
qualunque parte del campo. Egli parla di docce (p. 105) ma evita accuratamente
di menzionare la procedura di immatricolazione. Abbiamo visto sopra che Miklós Grüner e
Lázár Wiesel, i quali a Buchenwald ci andarono davvero, ricevettero
rispettivamente il numero di matricola 120762 e 123565.
l’immatricolazione, avrebbe dovuto render conto di due numeri di
matricola. Cosa ancora più gravosa per lui, perché nello schedario dei detenuti
di Buchenwald un Eli (o Eliezer) Wiesel non compare affatto.
se il suo racconto dell’arrivo a Buchenwald è conforme ai documenti.
andò alla doccia «il terzo giorno dopo il nostro arrivo a Buchenwald»(p. 105),
che era «il 28 gennaio 1945»(p. 108), sicché partì da Monowitz l’11 gennaio e
arrivò a Buchenwald il 25. Nel gennaio 1945 dal complesso Auschwitz-Birkenau
arrivarono a Buchenwald tre convogli di deportati[37]:
Data di partenza
|
Data di arrivo
|
Numeri di matricola
|
Numero detenuti
|
18 gennaio
|
22 gennaio
|
117195-119418
|
2.224
|
18 gennaio
|
23 gennaio
|
119419-120337
|
919
|
18 gennaio
|
26 gennaio
|
120348-124274
|
3.927
|
partì l’11 gennaio, nessuno impiegò più di 8 giorni. Quello arrivato il 26
gennaio portò sia Lázár Wiesel, sia
Miklós Grüner, come risulta dai loro rispettivi numeri di matricola 120762 e
123565.
da cui Eli Wiesel ha tratto il capitolo VII del suo libro (il racconto del
viaggio da Gleiwitz a Buchenwald) è stato tradotto in inglese da Moshe Spiegel
col titolo “The Death Train”[38].
I due testi sono molto simili, ma nel primo il numero dei detenuti caricati nel
vagone di Elie Wiesel non è di 100 (p. 101), ma di 120[39].
Inoltre qui egli menziona anche il numero dei vagoni: 25[40].
Il numero dei detenuti del suo vagone arrivati vivi a Buchenwald è invece
identico: 12 (p. 101)[41].
Perciò in questo vagone si sarebbe verificata una mortalità dell’ 88% o del
90%. Ma anche l’intero convoglio avrebbe pagato un alto tributo di morti:
interminabili giorni e notti. Ogni giorno reclamò la sua quota di vittime e
ogni notte pagò il suo omaggio all’Angelo della Morte»[42].
2.500 ÷ 3.000 detenuti, di cui la
maggioranza sarebbe morta durante il viaggio.
26 gennaio 1945 contava alla partenza, secondo la lista nominativa dei
deportati, 3987 detenuti[44];
se a Buchenwald ne furono immatricolati 3.927, significa che vi furono 60 decessi, l’1,5%.
tutti i dati esposti sopra risulta pertanto che il racconto del viaggio da
Gleiwitz a Buchenwald non può essere veritiero.
Auschwitz, né a Monowitz, né a Buchenwald.
suo padre Shlomo, il suo nome[45] appare nel Central
Database of Shoah Victims’ Name [46]
dello Yad Vashem, ma queste informazioni sono state trasmesse in data 8
ottobre 2004 da Eli Wiesel stesso!
Buchenwald sarebbe attestata da una fotografia che ritrae un gruppo di detenuti
di questo campo:
di Harry Miller di lavoratori schiavi al campo di concentramento di Buchenwald
dopo l’arrivo al campo delle truppe statunitensi dell’80a divisione. Scattata
il 16 aprile 1945. Miklos Grüner (numero di matricola 120762) è in basso a
sinistra, Eli Wiesel (numero di matricola 123565) è nella fila sopra, vicino al
terzo travicello da sinistra»[47].
che il volto della persona ritratta nella fotografia fosse quello di Eli Wiesel
si basa soltanto su una sua dichiarazione, su un suo sedicente
auto-riconoscimento. Quanto al “suo” numero di matricola – 123565 – , esso
apparteneva a Lázár Wiesel!
proprio «un
personaggio eccezionale», il simbolo vivente
dell’ “Olocausto”. E chi lo esalta come «personaggio
eccezionale» è degno del suo sublime «magistero morale».
Carlo Mattogno
febbraio 2010
veda il resoconto stenografico in: http://www.camera.it/cartellecomuni/Leg16/files/pdf/opuscolo_giorno_della_memoria.pdf
A 3355, RG 242.
Institute for Jewish Research, New York, 1962.
François Mauriac, il prefatore del libro di Eli Wiesel.
Giuntina, Firenze, 1986.
Révisionnistes (1974-1998), vol. II, De 1984 à 1989. Édition privée
hors-commerce., 1999, pp. 606-610. In rete: http://www.vho.org/aaargh/fran/archFaur/1986-1990/RF861017.html
(francese); http://www.ihr.org/leaflets/wiesel.shtml
(inglese).
Wiesel: la donnola travestiata da agnello, in: https://www.andreacarancini.it/2010/01/elie-wiesel-la-donnola-travestita-da/
R.L. Braham, A Magyar Holocaust. Gondolat Budapest-Blackburn
International Incorporation Wilmington, 1988, p. 514
Questi impianti sono stati ben descritti da Jean-Claude Pressac in: Auschwitz:
Technique and Operation of the Gas Chambers. The Beate Klarsfeld Foundation, New York, 1989,
pp. 53-85.
nazista della morte. Edizioni del Museo Statale di
Auschwitz-Birkenau, 1997, p. 122
Auswertung der Sterbeeinträge», in: Sterbebücher von Auschwirt. A
cura del Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau. K.G. Saur, Monaco, New
Providence, Londra, Parigi, 1995, vol. 1,
p. 248.
Auschwitz. Evidence from the Irving Trial, op. cit., p. 504.
Tierfleisch und Tierfett. Zur Frage der Grubenverbrennungen in den angeblichen Vernichtungslagern des 3.
Reiches», in: Vierteljahreshefte für freie Geschichtsforschung, anno
7, n. 2, luglio 2003, pp. 185-194.
nessuna fotografia aerea attesta la presenza di fumo in quest’area.
Chicago.
al riguardo il mio studio Le camere a gas
di Auschwitz. Studio storico-tecnico sugli “indizi criminali” di Jean-Claude
Pressac e sulla “convergenza di prove” di Robert Jan van Pelt. Effepi, Genova, 2009, p. 552.
Il campo nazista della morte, op. cit., p. 52.
Idem, p. 54.
im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945. Rowohlt Verlag,
Reinbek bei Hamburg, 1989, p. 821.
Tranne quello relativo alla baracca dell’orchestra del campo.
Levi, Se questo è un uomo. Einaudi, Torino, 1984, pp. 35-36.
Levi, Se questo è un uomo, op. cit., p. 44.
Idem, p. 70.
Idem, p. 160.
blocco dell’orchestra era al di fuori della numerazione delle baracche del
campo, che andava da 1 a 60.
Deel VI, ‘s-Gravenhage, 1952, p. 39.
Literature, a cura di Jacob Glatstein, Israel Knox e Samuel Margoshes. A
Temple Book, Atheneum, New York, 1968, pp. 3-10.
Idem, p. 10.
Idem, p. 9.
Idem, p. 10.
Auschwitz. Verlag Staatliches Museum in Oświęcim-Brzezinka, 1995, pp.
338-229. Riproduzione di due pagine della lista del trasporto originale.
Vi figura come Shlomo Vizel, figlio di Eliezer e di Nisel, nato a Sighet e
morto a Buchenwald il 27 gennaio 1945. L’anno di nascita non è indicato.
p.s.
le tabelle non vengono bene nel formato blog. per vederle bene guardatele qui
http://ita.vho.org/056_Elie_Wiesel.htm
http://www.vho.org/aaargh/fran/livres10/GRUNERWiesel.pdf