Paolo Cucchiarelli: Piazza Fontana: “Archiviare, archiviare”, dei fatti non ci interessa nulla

Paolo Cucchiarelli: Piazza Fontana: “Archiviare, archiviare”, dei fatti non ci interessa nulla

Da Paolo Cucchiarelli ricevo e volentieri pubblico.

 
Piazza Fontana

“Archiviare, archiviare” dei fatti non ci interessa nulla 

Di Paolo Cucchiarelli

 

Mentre
leggevo la sentenza di archiviazione dell’ultima inchiesta aperta a Milano
sulla strage del 12 dicembre 1969, è tornata alla mente una frase tratta
dall’ultima intervista di Pier Paolo Pasolini e un suo brano che cito nel
volume “Il segreto di Piazza Fontana”.

 Il verdetto della magistratura del 30
settembre 2013 tratta abbondantemente di questo libro bollandolo come “inattendibile”
nella ricostruzione proposta, e “inverosimile” nella tesi dispiegata nelle 700
pagine del volume e cioè le “doppie bombe” detonate nel salone della Banca
Nazionale dell’Agricoltura.

La
frase di Pasolini dice che in Italia è successo qualcosa di irrimediabilmente
grave; il problema non è la verità dei fatti ma la perdita della loro evidenza.

La “perdita
dell’evidenza” è l’unico commento possibile alle motivazioni dell’archiviazione
che non tengono conto di un solo elemento sviluppato e proposto nell’inchiesta
giornalistica. Uno solo.

Sui
magistrati Pasolini aveva una sua valutazione, già proposta al termine del libro
che mi limito a  riprendere:

 “L’inchiesta sui ‘golpe’ (Tamburino,
Vitalone …), l’inchiesta sulla morte di Pinelli, il processo Valpreda, il
processo Freda e Ventura, i vari processi contro i delitti neofascisti…
Perché non va avanti niente? Perché tutto è immobile come in un cimitero? È
spaventosamente chiaro. Perché tutte queste inchieste e questi processi, una
volta condotti a termine, ad altro non porterebbero che al Processo di cui
parlo io. Dunque, al centro e al fondo di tutto, c’è il problema della
magistratura e delle sue scelte politiche. Ma, mentre contro gli uomini
politici tutti noi […] abbiamo il coraggio di parlare, perché in fondo gli
uomini politici sono cinici, disponibili, pazienti, furbi, grandi incassatori,
e conoscono un sia pur grossolano fair play, a proposito dei magistrati tutti
stanno zitti, civicamente e seriamente zitti. Perché? Ecco l’ultima atrocità da
dire: perché abbiamo paura.”

Chiuso
il fascicolo dell’archiviazione, arrivato dopo quasi un anno di “approfondimenti”,
rimane un “malessere”, una sconsolata valutazione complessiva che può essere
così sintetizzata: la Procura
di Milano non può, non sa, non deve indagare fino in fondo sulla strage di
Piazza Fontana. La scelta del verbo dipende dalla singola fiducia che ciascuno
ancora mantiene nella possibilità che la giustizia metta le mani dove alberga
una lontana scelta politica. Fosse anche di mera politica giudiziaria.

Non
metto in discussione il valore di una sentenza tanto ricca di citazioni e di
rinvii e dubbi procedurali, quanto povera di un concreto confronto con i fatti
proposti nel volume, ma il modo con cui si è scelto di non vedere, non capire, non verificare, non approfondire, la
tesi della “doppia bomba”.

 Al
processo di Catanzaro, la questione è citata nella sentenza, fascisti e “anarchici”
non si presentarono mai in aula su suggerimento “concordato” dei rispettivi
avvocati impedendo così al Pm di porre la questione del legame operativo tra il
gruppo del “22 Marzo” e i fascisti di 
Stefano Delle Chiaie e  il gruppo
veneto di On.

Un
escamotage politico-procedurale che impedì di andare al cuore del problema e di
frammentare analisi, posizioni, fatti e giudizi. La stessa cosa si è ripetuta
per quest’ultima archiviazione perché non un’indagine è stata svolta per
prendere in considerazione quegli elementi occultati, tirati via dal tavolo dei
magistrati, spinti ai margini dell’inchiesta oppure semplicemente ignorati che
costituiscono la trama, il tessuto connettivo dell’inchiesta. 

 Faccio
un esempio: i finti manifesti anarchici lasciati a Milano accanto alla Bna e in
altri luoghi strategici dove dovevano scoppiare – a rivelarlo sono stati gli
anarchici – altre bombe il 12 dicembre. 
Nel libro ci sono le foto di quel manifesto e dei magistrati curvi a
guardarlo nel salone della Comit nel pomeriggio del 12 dicembre ma nel
fascicolo processuale quel manifesto non c’è. Eppure era stato siglato da Ugo
Paolillo, il primo magistrato che indagò sulla strage. Era un manifesto con una
sigla: quale?

L’archiviazione
decisa il 30 settembre dell’ultima inchiesta aperta, che tanti spunti
innovativi conteneva, è avvenuta grazie ad una metodica, scientifica “attenta”
– da un punto di vista  giuridico,
naturalmente –  scelta di saltare tutti i
fatti. Si sono aperte le vecchie sentenze e si è detto “Non c’è, qui non c’è
nulla di quello che si scrive” ergo è
una tesi “inverosimile”. Solo che per questo era stato scritto il libro; per
far vedere come si era cancellata la “mano fascista” lasciando inizialmente sotto
il cono di luce delle indagini solo gli anarchici.

Sono
debitore a Vincenzo Vinciguerra di una maturazione dopo le sue critiche di aver
fin troppo difeso Pietro Valpreda, arrivate dopo l’uscita del libro nel 2009.
La seconda edizione del 2012 fa un passo in avanti collocando questa “trappola”
all’interno di una comune azione dimostrativa antisistema che all’epoca era ben
possibile, come spiegò in prima pagina sul Corriere
della Sera
Giovanni Ventura nel 1986. “E’ assurdo affermare che Freda e
Concutelli abbiano preparato l’ordigno di Piazza Fontana per poi con segnarlo a
Valpreda?”, chiede Giangiacomo Foà a Ventura rinchiuso in quel momento nel
carcere di Buenos Aires. “ No. Nel clima
di quegli anni ciò era possibile”.

Giovanni
Ventura è stato condannato, sia pur solo “moralmente”, per la strage. Ne saprà
qualcosa, o no?

Per
valutare elementi del tutto nuovi per la magistratura milanese ci si è rifatti
in gran parte proprio a quei vecchi fascicoli processuali che a suo tempo erano
stati preventivamente “ripuliti” proprio degli elementi ripescati e ri-proposti
dall’inchiesta; come se un ladro dovesse accorgersi che la casa in cui poco
prima ha rubato è desolatamente vuota; priva di oggetti preziosi.

 Inserire
poi le novità proposte all’interno delle vecchie sentenze senza alcuna logica
di comparazione con le inchieste più recenti condotte proprio dalla Procura di
Milano e senza fare una sinossi tra gli elementi dell’uno e dell’altro campo
non rende possibile accorgersi del nuovo e tutto ciò tenendo conto che i
fascisti di Ordine nuovo sono stati assolti nell’ultimo procedimento proprio
perché non si è voluto tener conto del problema delle “doppie bombe”.

Questo è il problema centrale di tutta
l’inchiesta. Vediamo perché.

Tutta
l’azione dei Pm prima e del Gip poi è stata tesa a ridicolizzare, valutare come
“impossibile”, “inattendibile”, “ininfluente”, la tesi delle “doppie bombe”.

 Le “doppie bombe” non esistono.  Cucchiarelli si è inventato tutto. Per
sostenere questo hanno dovuto “aggirare” tutti gli elementi concreti “ripescati”
dalle diverse inchieste che si sono succedute nel tempo, dalla
Valpreda-Freda-Ventura ,all’ultimo giudizio del 2004.

 Il problema è che le “doppie bombe”
sono sotto il naso dei Pm e del Gip.

 Sono
nel fascicolo dell’ultimo processo svoltosi a Milano. Ne parlano le sentenze
del 2001 e del 2004 perché proprio per questa “incapacità” a vederle il gruppo
di On è stato assolto dal tribunale di Milano.

 E’
questo un problema per il Tribunale di Milano?

 Per
ciò, l’inchiesta giornalistica è stata “massacrata” come a suo tempo è stato “massacrato”
il Dottor Guido Salvini, che aveva raccolto per primo le rivelazioni del
pentito Carlo Digilio su una ben diversa
bomba in mano ad On alla vigilia della strage
, fatto che aveva
scompaginato il “quadro” consolidato della vicenda basato sulle vecchie
sentenze.

Salvini
ha raccontato come fu prima emarginato nel suo ufficio e  poi fisicamente allontanato dallo stesso  in un suo e-book. Se qualcuno si vuole porre
il problema del perché di questo trattamento sappia che è l’aver incappato
nell’altra bomba diversa dalla prima: la “prova” ineludibile che ve ne erano
due nella vicenda.

 C’erano
bombe diverse da quella ufficialmente scoppiata nel salone della Bna in viaggio
per Milano prima della strage ed erano in mano a Delfo Zorzi e compagnia. Erano
bombe di troppo perché destinate a far saltare la vecchia storia codificata nel
tempo.

 Nel
1997 sono andato a Milano a incontrare Salvini nel suo ufficio al settimo piano
del Tribunale, con una bellissima vista sulla città e il Duomo.

 Gli
illustrai, avendo in mano una decina di cartelline, i primi fondamentali
elementi dell’inchiesta, come il fatto che la prima perizia disposta da Milano
e agli atti dimostrava che due erano le borse direttamente coinvolte
nell’esplosione.

Il
magistrato mi fece parlare per una mezz’ora anche e soprattutto delle “doppie
bombe”.

Al
termine, posata la pipa sul tavolo, mi disse serio: “Per molto meno mi hanno
massacrato”.  Quel “meno” era proprio
l’aver incappato nel racconto di Carlo Digilio e nella descrizione fatta a
verbale dal pentito di On di “altre bombe” rispetto a quella canonica entrata
nelle vecchie e sempre insoddisfacenti sentenze del passato.

E’
questo dunque un problema per il Tribunale di Milano? 

Questo
tema è stato centrale nello scegliere di scrivere l’inchiesta in quella
maniera: si doveva necessariamente far “vedere” come la “seconda bomba”, sommersa nell’inchiesta Valpreda-Freda-Ventura,
era riemersa nell’inchiesta Salvini-Meroni-Pradella
determinando un
durissimo scontro tra magistrati di cui la “vittima” fu proprio Salvini, come
ha raccontato in tanti documenti pubblici. Non è un segreto. Solo che nessuno
ha spiegato mai finora il “perché” di quel trattamento arrivato fin davanti al
Csm  con l’accusa di “incompatibilità
ambientale”

Ricordo
ancora l’audizione, seguita per dovere di professione, di Gerardo D’Ambrosio e
Grazia Pradella davanti alla Commissione stragi con parole di fuoco contro
Salvini. Anche in quel caso Salvini venne “massacrato”.  Il problema era – Salvini ne è ben cosciente –
“l’altra bomba” da lui scoperta in mano ad On. Due bombe in viaggio  verso il salone della Bna.

Da
ciò la necessità di ripercorrere l’intera vicenda giudiziaria della strage,
partendo dalle “due bombe” nell’inchiesta Valpreda-Freda-Ventura, e poi
nell’ultima, sviluppatasi tutta a Milano: l’inchiesta Salvini-Meroni-Pradella.

La “seconda bomba”, quella in mano a Ordine
Nuovo, era nel portabagagli della 1100 di Carlo Maria Maggi il 7 dicembre del
1969 a Mestre. E’ ben noto.

C’era
anche una borsa: i magistrati milanesi non si sono incuriositi di sapere a cosa
servisse quella borsa e quell’esplosivo diretto a Milano alla vigilia del 12
dicembre e in mano “all’innocente” Delfo Zorzi? Metto “innocente” tra
virgolette solo per riportare l’esatta valutazione data dal Tribunale di
Milano.

 Non si sentono offesi i magistrati da chi, in
Aula, durante il processo ha detto ironicamente rivolto alla Corte: “Mah….
magari  questo esplosivo sarà servito per
altri attentati” ma non per la strage.

Non
sono state ignorate da parte mia le vecchie sentenze, come si è sostenuto da
parte del Gip, ma ho ricostruito il percorso documentale per mostrare le “doppie
bombe” che sono in bellavista tra le carte processuali dell’ultimo processo
svoltosi a Milano.

Il
libro le ha solo “fatte vedere” ricostruendo tutto il tragitto. Questo però non
interessa assolutamente ai Pm e al Gip.

Cominciamo
quindi da questo tema, centrale, fondamentale, nel libro. Sua ragione prima e
che spiega perché chi indaga, “vede”  o
racconta le “doppie bombe” è “massacrato”.

L’ultima
inchiesta promossa dalla Procura di Milano sulla strage del 12 dicembre si è
conclusa con una serie di assoluzioni (condanna solo per Carlo Digilio, il
pentito di On che aveva permesso l’apertura della nuova indagine unitamente
all’altro pentito di On Martino Siciliano) riguardanti il nucleo veneto di On,
lo stesso poi assolto anche per la strage di Brescia. La ragione ultima dell’
assoluzione era che il gruppo di On aveva un esplosivo in partenza per Milano
che era dissimile per composizione, natura e collocamento da quello
ufficialmente detonato nel salone della Bna. Carlo Digilio aveva descritto
quell’esplosivo in molte dichiarazioni e durante il processo. Era esplosivo “sciolto”
depositato nel bagagliaio della 1500 di Carlo Maria Maggi, responsabili per il
Triveneto di On, che era stato mostrato a Digilio per valutarne il grado di “sicurezza”
rispetto al trasporto verso Milano. Era il 7 dicembre 1969. Nel salone della
Bna esplode, secondo le precedenti sentenze, una cassetta marca Jewell con dentro
timer batteria e gelignite. Il tutto è occultato in una borsa.

Ecco
come riporto la questione a p. 553 del volume mai preso in considerazione per i
singoli aspetti d’indagine, né per questa decisiva finale valutazione
sviluppata come approdo di tutta l’inchiesta.

I
giudici si sono ingegnati a smussare gli elementi contradditori infilando nella
cassetta Juwell, accanto ai candelotti di gelignite stabiliti dal perito Cerri,
l’esplosivo sciolto e l’innesco visti da Digilio il 7 dicembre a Mestre al
Canal Salso. ‘È del tutto verosimile che, avendo a disposizione altro tipo di
esplosivo, gli attentatori del 12 dicembre non abbiano preparato ordigni con la
sola gelignite, ma vi abbiano aggiunto (per riempire interamente le cassette
metalliche), altra sostanza’ hanno dovuto ipotizzare. I magistrati non avevano
altra scelta, se volevano sostenere che quell’esplosivo indirizzato a Milano
era servito – come tutto lasciava presumere – agli attentati del 12 dicembre,
in cui, secondo la versione ufficiale, erano esplose una cassetta Juwell alla
COMIT e una alla BNA (la prima era stata fatta saltare in aria per decisione
dei magistrati).

In
linea teorica, si poteva concepire che quelle miscele fossero state aggiunte
alla gelignite, l’unico esplosivo utilizzato per le precedenti inchieste. Ma,
all’atto pratico, il perito della difesa Ordinovista Paolo Berry smontò
facilmente quella tesi. Considerato che andava sottratto il volume
necessariamente occupato da timer e detonatore (volume che Cerri non aveva
considerato), Berry mostrò come la cassetta non si sarebbe mai potuta chiudere
se riempita sia con la gelignite che con tutto quell’esplosivo sfuso che era in
mano ai fascisti di On.

Berry,
allievo di Carlo Maria Dantini, a suo tempo perito per Freda e Ventura, è stato
bravissimo a “ipnotizzare” la Corte, fino a porre la questione in modo tale far
assolvere i fascisti. A nessuno è venuto in mente (?) che quell’esplosivo e la
relativa borsa vista nel bagagliaio della macchina di Maggi doveva “raddoppiare”
l’altra bomba secondo un modulo di operazione sotto “falsa bandiera” che è
l’abc dell’intelligence. E che On non è solo un’organizzazione  di estrema destra “punta di diamante” nel
terrorismo ma un gruppo che attua tecniche proprie dei servizi segreti: dalle
false rivendicazioni, ai travisamenti e mascheramenti ecc.

Invece
di affrontare la questione delle due bombe, si è dunque provato a infilare una
bomba (l’esplosivo sciolto nella cassetta porta-munizioni che era nel
portabagagli della 1100) nell’altra (la cassetta Jewell) per raggiungere il
peso della cassetta-modello della Commerciale annotato prima che questa fosse
fatta saltare in aria perché “pericolosa”.

Un
vicolo cieco in cui sono finiti il nono, il decimo e l’undicesimo grado di
giudizio per la strage del 12 dicembre 1969. Il ragionamento forzato dovuto
allo schema dell’unica bomba ha così affondato la credibilità processuale del
pentito Digilio e portato all’assoluzione del gruppo Ordinovista. Questi sono i
fatti, basta sfogliare le sentenze o leggere il contraddittorio in aula del
bravissimo Berry. E non sono ironico.

Gli
elementi a supporto di questa lettura dei fatti e questo problema, cioè l’aver assolto i gruppi di On per
non aver valutato gli elementi disponibili ai magistrati all’interno della
logica delle “doppie bombe”,
sono tuttora ignoti al Tribunale di Milano
che si è limitato a restringere un libro fin troppo fitto di dati,
testimonianze, riscontri, perizie, documenti, ecc, alla sola “intervista”

 (tre incontri) 
con un esponente della destra che ha accettato, nel 2002, un confronto
sui risultati da me già raggiunti nel 1997, come ben sa Guido Salvini.

La
scelta di scrivere il libro in quella maniera matura dopo il flop sulle “doppie
bombe” del 2004, quando gli uomini di On vengono assolti perché non si sa, non
si può, non si devono “vedere” le  “doppie
bombe”.

Durante
l’inchiesta che ha portato alla sentenza-ordinanza di Salvini, e che è
confluita poi nel 1995 in quella di Grazia Pradella e Massimo Meroni, Digilio
ha parlato in maniera apparentemente contraddittoria di un ordigno nettamente
diverso da quello che la tradizione di decenni di sentenze aveva assegnato alla
BNA. Ha rivelato in particolare di aver visto pochi giorni prima della strage,
nel baule della FIAT 1100 di Maggi – capo di ON nel Veneto – dell’esplosivo
pronto: si trattava – ha specificato nell’ultimo processo – di gelignite e di
un altro esplosivo (da lui definito tritolo, ma in realtà esplosivo jugoslavo,
come ha infine confermato) con l’aggiunta di nitrato di ammonio in scaglie o
ammonal. Quell’esplosivo jugoslavo è il vitezit e il primo a parlarne, nel
1984, è stato Vincenzo Vinciguerra.

Certo
c’è, e ci deve essere, una differenza sostanziale tra le sentenze e le
inchieste giornalistiche specie quando, come in questo caso, non vi è alcuna
certezza giudiziaria alle spalle perché gli unici condannati per Piazza Fontana
sono stati due uomini dei servizi segreti impegnati a tutelare i fascisti, il
generale Gian Adelio Maletti e il capitano del Sid Tonino Labruna, il credibile
ma contraddittorio pentito di On Carlo Digilio e, “ ad disonorem”, i due
fascisti Giovanni Ventura e Franco Freda, i teorici della infiltrazione a
sinistra, ritenuti responsabili ma non più condannabili perché assolti in
passato proprio per la strage del 12 dicembre.

Sul
tavolo della giustizia italiana vi è un giudicato a metà, frammentario, che ci
dice chi non è stato a fare la strage ed è rimasto irrisolto un dubbio
fondamentale dell’intera vicenda nonostante la magistratura giudicante avesse
preso l’impegno di affrontarlo a Catanzaro.

Abbiamo
dei “frammenti giudiziari” di giudicato ma non la spiegazione di quello che è
accaduto.

Dice
sempre Giovanni Pellegrino, per molti anni Presidente della Commissione
d’inchiesta sulle stragi e il terrorismo, che se ci dovessimo rifare alle
sentenze Cristo e Socrate sono solo due delinquenti dei condannati in via
definitiva.  Le sentenze non sempre
appagano.

C’è
nel libro tutta la parte di analisi tecnica della questione “due bombe” –
certamente la più ostica per il lettore ma la più rilevante per un magistrato –
che la sentenza di archiviazione del Gip semplicemente non “legge”.  Non si analizza né lo “sbocco”
dell’inchiesta, né il suo percorso dimostrato, passo passo, al lettore.

E’
probabilmente quella applicata una necessaria regola dell’inchiesta giudiziaria
ma solo dal riscontro del tanto accumulato e del nuovo proposto, che poi è solo
quello che è stato espunto, spinto ai margini o dimenticato delle precedenti
inchieste sulla strage, che le “doppie bombe” sono emerse via via. Pm e Gip
invece di verificare, sono rimasti con i vecchi testi in mano scuotendo la
testa.

Ha
scritto Severino Santiapichi il magistrato che ha guidato i principali processi
del caso Moro. “Sono presenti a noi giudici le differenze tra la fissazione
formale di un fatto – che avviene nel processo – e la fissazione della verità
che dovrebbe essere effettuata con altri strumenti, che non sono limitati come
i nostri, incalanati entro rigidi binari, al di là dei quali sarebbe un guaio
se noi andassimo. Quindi anche un fatto su cui è intervenuta una nostra
sentenza è sempre suscettibile di una diversa rivisitazione.”

La
strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 ha diviso in due; spaccato in
profondità, la nostra recente storia. E’, scrivono i Pm che hanno chiesto
l’archiviazione “una vera e propria ferita nella storia dell’Italia
repubblicana che spesso divide giuristi, storici e commentatori vari”.

L’archiviazione
del 30 settembre 2013 ha ignorato, scantonato, aggirato gli elementi proposti
dall’inchiesta giornalistica che non sono stati valutati per nulla, o intero e
mai comunque a fondo.

L’archiviazione
sulle “doppie bombe” mi sembra la perfetta rappresentazione della differenza
che c’è – e ci deve essere – tra un’inchiesta 
giornalistica , è un fascicolo giudiziario che deve tener conto solo
degli elementi che sono presenti al suo interno anche nel caso in cui, come in
questo, lo stesso è stato “asciugato” di tutto ciò che poteva far comprendere
la vicenda.

I Pm
e il Gip  hanno ignorato che “doppie
bombe” per la strage del 12 dicembre erano il rovello del giudice Emilio
Alessandrini che il Tribunale di Milano onora, giustamente, come uno dei suoi
eroi.

Tra
gli elementi non considerati dai magistrati di Milano c’è tra l’altro anche la
prima perizia disposta dopo la strage che indica in due le borse “direttamente
coinvolte nell’esplosione” nella BNA, fatto questo che fece incaponire il
magistrato, che nella sua requisitoria ipotizzò per primo la presenza di due
ordigni posti in parallelo alla BNA (pp.121-122 dell’inchiesta, edizione 2012).

Quella
requisitoria afferma tra l’altro:

una prima ipotesi potrebbe anche essere
che siano state usate due borse e quindi due bombe alla BNA; ma ciò non è
suffragato da tutti gli altri elementi che sembrano indicare la presenza di un
solo ordigno; o che solo l’una delle due era quella dell’attentatore, e in tal
caso il rinvenimento di frammenti analoghi all’altro tipo di borsa è stato del
tutto casuale per l’evidente presenza della borsa di questo tipo di un cliente
della Banca; infine, si può anche pensare che i frammenti in questione si
riferivano non a borse dell’attentatore, ma a quelle di clienti.

Sulla
prima ipotesi mai si è voluto riflettere fino in fondo. Non si percorse quella
direzione, né si provò a mettere in discussione l’assunto secondo cui gli altri
elementi non avrebbero suffragato la presenza di due ordigni. La perizia non si
accorse peraltro che era “inciampata” su un elemento centrale per sciogliere il
nodo: i reperti di cui alle foto n. 16, a posizione 29 del quadro E. Reperti
oggi mancanti. Cos’erano? Potevano dirci qualcosa di essenziale?

Il
reperto scomparso dal Tribunale di Milano altro non era che il disco di
frizione della cerniera (29a) e il perno di acciaio su piastrina di acciaio di “
probabile appartenenza a cerniera di borsa (29b)”. Secondo la perizia Cerri,
erano pezzi di una M & G, le borse utilizzate nella “operazione” a Milano e
Roma.

Solo
che i Pm e il Gip non si accorgono della spiegazione finalmente trovata a quel
passaggio della requisitoria di Alessandrini e Fiasconaro.

Non
lo “censurano” no, la ignorano e leggono e citano solo la parte riportata in
precedenza in corsivo, non la “spiegazione” di quali fossero i reperti
mancanti. E la loro importanza.

Il
Gip afferma che uno dei filoni riguarda “la possibilità che a causare la strage
sia stata una ‘doppia bomba’ e l’individuazione di sinergie tra i vari gruppi
di estremisti e di complicità a livello istituzionale nella genesi della strage
(“questione Cucchiarelli”)”. A pag. 4, parlando sempre delle “doppie bombe”, il
Gip afferma ancora : “Né una nuova indagine è giuridicamente possibile solo per
accertare possibili modalità di esecuzione della strage diverse da quelle
finora note, specie se essi si presentino come irrilevanti o fantasiose”. Il
Gip dice una palese stupidaggine perché è chiaro che se due sono le mani, due
sono gli attentatori e due possono essere le condanne per il medesimo reato:
appurarlo non è “irrilevante”.

Oppure
il Gip ignora che la procedibilità per il reato di strage non cessa se non a
fronte della morte dell’indagato? Vinciguerra ci dice che ci sono persone
coinvolte ancora in vita: e
se fosse una di quelle che ha “raddoppiato” che facciamo? E’ “irrilevante” per
il Gip?

Il
magistrato sembra ignorare che in passato, in contemporanea, sono state
processate persone di estrema destra e “anarchici” e ciò per lo stesso reato.
La questione ha una storia, anche processuale. Anzi vi è un impegno che la
giustizia italiana non ha assolto
visto lo scacco subito nel 1981 di non poter agire solo per un espediente
procedurale.

I Pm
e il Gip non hanno tenuto alcun conto della notizia di possibile “notizia di
reato” che Russomanno, protagonista, basta leggere, della operazione di
depistaggio attuata sui reperti delle Borse coinvolte nelle esplosioni a Roma,
ha dato. Ecco cosa ha detto (oltre a confermare di aver mischiato i reperti
delle borse) già dal primo incontro l’ex vice responsabile dei servizi segreti
del Viminale:

“Aspetto
un po’, poi la butto lì: « Se
io scrivessi nella mia inchiesta che quel giorno a Milano alla BNA c’erano due
borse con due bombe, una messa dagli anarchici e una dai fascisti?» Russomanno osserva il fondo del
bicchiere, sorride e guarda nel vuoto. «Lo
scriva, così finalmente ci liberiamo di questa storia, la facciamo finita. Lei
ci è arrivato da solo, io non le dico nulla di più. Ma lo scriva. Così la
finiamo ». Una
foto insieme e via lungo il Po, verso la Romea.”

Ci
potrebbero essere due colpevoli, in termini giuridici e la “notizia” che
Russomanno fornisce è da fonte “autorevole” come invocato dal Gip. E’ stato il
vice degli Affari Riservati, il cuore delle operazioni “coperte” in Italia. Se
dice una cosa così fuori squadra si deve assolutamente verificare.

Pm e
Gip però bollano come “inattendibile” Russomanno in base al giudizio
consolidato da vecchi verbali. Li ho letti. In uno, sulla base della carte
emerse dall’Archivio di Via Appia che 
raccoglieva in gran parte carte proprio degli Affari Riservati – da
Salvarore Giuliano alle Brigate Rosse- si chiede a Russomanno chi sia la fonte
Anna Bolena. Lui risponde di non conoscerla. Poi il Pm gli dice: “Guardi che
sappiamo bene chi sia, Rovelli”. Al che Russomanno subito conferma.

 Perchè i Pm e il Gip invece di ritenere “inattendibile”
Russomanno non hanno inviato l’ultimo dei carabinieri – magari proprio quello
delle barzellette- a chiedergli: “Scusi, lei conferma il contenuto di questa
intervista?”. Perché non si è tenuto conto di una notizia di reato che si aveva
sotto gli occhi? E poi perché uno dei due Pm è proprio colei che ha raccolto in
passato gli interrogatori valutati come “inattendibili”. Quando Russomanno è
diventato “inattendibile” su questo fronte, prima o dopo la sua intervista
pubblicata nel 2009? E quella domanda sulle “doppie bombe” gli è stata mai
rivolta dai magistrati di Milano.

Nel
libro c’è un altro elemento molto importante suscettibile di un minimo di
attenzione anche perché il Tribunale di Milano in passato si è molto
interessato della questione: l’individuazione del possibile secondo esplosivo
utilizzato per potenziare oltremodo la bomba 
non  capace di uccidere perché
destinata (grazie al timer) a esplodere a banca chiusa e senza quindi effetti
letali.

«Da uno scatolone dell’Archivio di Via
Appia (dove si collocavano fascicoli ed oggetti che non dovevano finire
all’attenzione dei magistrati) si trova uno scatolone siglato Frp, la finta
sigla antisistema che serviva a “firmare “ gli attentati “dimostrativi” del 12
dicembre e che compariva sui finti manifesti anarchici ritrovati e
pubblicati  nel libro ma che sono
scomparsi dal fascicolo processuale. Ebbene da quello scatolone che ha una
doppia numerazione una per l’estrema destra e una per l’estrema sinistra,
spunta fuori un fascicolo su un esplosivo jugoslavo che ha tutte le caratteristiche
poi riscontrate direttamente dal perito nel salone della Bna dopo lo scoppio:
odore di mandorle amare e capacità di produrre forti mal di testa.

Nella
relazione peritale sui reperti di via Appia che Gianni Flamini e Marco Nozza
hanno con- segnato ai sostituti procuratori Grazia Pradella e Massimo Meroni
nel febbraio del 1997, i due studiosi notavano che  “al Ministero dell’Interno, la pista veneta
di Freda e Ventura (nota come FPR) dovrebbe risultare come una pista da
battere, e invece i dirigenti della divisione Affari Riservati vanno avanti a
testa bassa nel cercare prove o elementi che accusino Valpreda”. Per gli Affari
riservati, dunque, la sigla del Fronte popolare rivoluzionario s’identificava
con la pista nera. Nonostante ciò, quel fascicolo era dissimulato in mezzo al
coacervo di raggruppamenti di sinistra.

Questo
esplosivo era in mano a Giovanni Ventura. Ne ritroveremo un’altra traccia
nascosta in un cassetto nell’abitazione di Aldo Trinco, il sodale di Freda
(tanto vicino a lui da essere indicato nel 1969 come erede nel testamento
dell’avvocato padovano).

Una
volta divenuto collaboratore di giustizia, Digilio, nei vari interrogatori è
passato con una progressione omeopatica dal parlare di “gelignite” alla dizione
di”esplosivo di produzione jugoslava”. Perché nell’archivio degli Affari
riservati il potente Vitezit 30 era segnalato come esplosivo usato dall’FPR nel
1969?

Quando,
in che data? 12 dicembre?

Perché
se ne ritrovano le tracce nell’ufficio di Ventura e nell’abitazione di Trinco,
e perché era nell’abitazione di Ferrari una settimana prima di piazza della
Loggia? Perché Pieluigi Pagliai, come ha raccontato Vinciguerra, fugge in
Sudamerica proprio per quell’esplosivo?

E’
dal 1984 che i magistrati si palleggiano il vitezit senza sapere bene dove
collocarlo. E nessuno si vuole ricordare di un passaggio della prima perizia di
Brescia (dove sono stati assolti gli
stessi uomini di On scagionati anche a Milano nel 2004
) che doveva far
riflettere i Pm e il Gip (sempre se questi abbiano avuto la compiacenza di
sfogliare il libro). “L’esplosivo sequestrato in sede di perquisizione
domiciliare nell’abitazione di Ferrari Silvio è costituito da frammenti di
tritolo a basso punto di fusione e da esplosivo gelatinato al 30% di
nitroglicerina (Vitezit 30) di produzione jugoslava, in pessime condizioni di
conservazione, degradato e praticamente inefficiente. Per quanto concerne le
caratteristiche di similitudine con l’esplosivo impiegato nell’ordigno di
Piazza della Loggia, del tritolo da solo se ne è escluso l’impiego, per il
Vitezit 30 se fosse stato efficiente avrebbe
potuto avere le stesse caratteristiche dell’esplosivo che il Collegio ha
supposto impiegato nell’ordigno di cui sopra
…”. Tutto questo però non
interessa né i Pm, né il Gip.

Ulteriore
riscontro, è nell’intervista al giudice Ugo Paolillo, il primo ad indagare per
pochi decisivi giorni sulla strage, riportata nel libro, che ho incontrato
due-tre volte.

Tra
i molti spunti “concreti” offerti anche un riferimento all’esplosivo.

Il
magistrato non ha aggiunto nulla quando gli ho rammentato una sua affermazione,
rilasciata nel 2005  (che mi aveva spinto
a cercarlo) dato aveva per me un significato preciso: “Dei reperti sia pure frammentari e riconducibili a una strategia
criminale che indirizzava verso i neofascisti pervennero fin dall’inizio
nell’inchiesta, ma non mi risulta che i nuovi titolari dell’inchiesta ritennero
di approfondire questi elementi. Ma il fatto che non risulti a me non vuol dire
che tali elementi non furono comunque approfonditi
”.

Paolillo
ha spiegato che si riferiva a un particolare esplosivo che aveva saputo essere
stato usato nella strage. Il suo segreto, conservato per anni, era che a Piazza
Fontana era stato usato esplosivo militare. “C’erano dei reperti” ripete.
Reperti che conservavano tracce di tale esplosivo, e trasmetteste a Roma?
Paolillo annuisce. “Per anni ne ho conservato uno, ma purtroppo l’ho perso. O
mi è stato rubato in uno dei tanti traslochi della mia vita “.

Oltre
a quell’indicazione sui reperti inviati a Roma, il magistrato all’epoca ebbe
altre personali conferme. “Allegra aveva una fonte molto qualificata, ritenuta
molto attendibile in questura, che gli disse che era stato utilizzato esplosivo
militare. Me lo riferì direttamente”. Non era un normale esplosivo da cava,
gelignite o altro attribuito inizialmente agli anarchici. Solo che a detonare
per la giustizia italiana è solo la gelignite contenuta nella cassetta
portagioielli marca Jewell. Paolillo, un magistrato, sostiene che ci sono due
esplosivi ma i suoi colleghi di Milano non gli mandano, anche in questo caso
l’ultimo dei carabinieri, sempre quello delle barzellette, per chiedergli: “Scusi?
Lei conferma questa intervista?”.

Martino
Siciliano, nella sua prima dichiarazione del 24 settembre del 1994 resa a un
ufficiale di Pg incaricato di contattarlo ha fatto affermazioni così riassunte
nella relazione di servizio: ”La concezione dell’attentato di Piazza
Fontana  vedeva intrecciarsi destra e
sinistra, il gruppo veneto aveva stretti legami con l’estremismo di sinistra,
questi erano tenuti dalla sorella di Ventura, di opposta visione politica, con
la quale era stata condivisa l’effettuazione degli attentati. La logica era
quella d’abbattere il governo con l’aiuto delle sinistre e poi confrontarsi con
essa in un secondo tempo. Nulla (Siciliano, nota mia) sapeva della fase
milanese di Piazza Fontana, ne era a conoscenza di alcuni particolari
accennatigli dallo scrivente. Delfo Zorzi nel 1970 gli aveva riferito che il
depositatore era stato Pietro Valpreda”.

Interrogato
durante l’ultimo processo per la strage di Piazza della Loggia Siciliano ha
fatto affermazioni che meritano un approfondimento.

Sulla
questione del “deposito” da parte di Pietro Valpreda della bomba, il pentito
spiegava che in On se ne parlava per il discorso “della commistione tra
anarchici ed estrema destra” (udienza del 21 maggio 2003). Interpellato più
volte sulla questione, affermava il 25 novembre 2003 in udienza: ”Ventura aveva
una sorella che era responsabile della frangia dell’ultrasinistra. La
convinzione generale, proprio dopo la bomba di Milano era che esecutore
materiale fosse stato tra gli altri anche
Pietro Valpreda e quindi una commistione di destra e sinistra per colpire il
cuore dello Stato”.

Allora
quanti esecutori materiali ci sono per questa strage, dato che Valpreda era
solo uno “tra gli altri”.

Sempre
nella stessa udienza Siciliano spiegava, ricordando il più volte ricordato
pranzo di Capodanno del 1969e le spiegazioni che gli erano state date da Delfo
Zorzi: “Ci ha fatto capire che la cosa non è fosse come così come in quel
momento  tutto il mondo parlava (sic),
ovvero sia che la bomba, contrariamente a quanto sembrava, non era stata
deposta dagli anarchici, né tanto meno da Pietro Valpreda. Tra l’altro poi
c’era anche stato l’episodio del Pinelli che era precipitato con un malore
attivo dal balcone, e quindi ci ha fatto indirettamente capire, se ne è
praticamente vantato, che questa strage di Piazza Fontana era opera nostra,
quantomeno di persone a noi collaterali, o opera nostra insomma opera di Ordine
Nuovo, e lui c’entrava direttamente nella questione”. Sempre nella stessa
udienza è stata ricordata a Siciliano la sua prima dichiarazione fatta a
Giraudo, presente Madia: ”Lo Zorzi, nel 1970,mi aveva comunque riferito che il
depositatore era stato Pietro Valpreda” e che “era un’ipotesi di lavoro che
destra e sinistra si aiutassero per deporre la bomba esplosa a Piazza Fontana”.

O
Siciliano era sull’orlo della schizofrenia, e i magistrati non se ne sono
accorti, oppure la spiegazione di tutto è in quel “tra gli altri”, cioè la
presenza di due mani di cui Siciliano parla a chiare lettere quando dice che
era noto “che destra e sinistra si aiutassero a deporre la bomba di Piazza
Fontana” cosa che non può andare d’accordo con il “depositatore Valpreda” e il
fatto che Zorzi rivendicò la paternità della strage a On.

Vediamo
un altro tema (ignorato) dai magistrati.

Il
gruppo milanese degli “Iconoclasti” fu fondato- come ricostruisce il mio
volume- nel dicembre del 1968.

Il
20 aprile 1969, sull’Espresso, il nome del gruppo del già “ ex avanguardista ed
ex fascista” Merlino compariva con le cifre arabe (“22 marzo”), ed era citato
come “il più noto dei gruppi anarchici giovanili”.

L’autore
del pezzo, Giuseppe Catalano, ricordava il congresso di Carrara, e aggiungeva: “Poi
in un altro congresso tenutosi a Milano il 13 aprile Valpreda aderì anche lui
al ‘22 marzo’”. Il gruppo di Merlino e Valpreda, quello con le cifre arabe e
non romane, si costituì ufficialmente solo nell’autunno del ’69. All’epoca in
piedi c’era ufficialmente solo il “XXII marzo” fascista, fondato nel maggio del
’68.

La
stampa ricordò più volte il convegno anarchico che si sarebbe svolto a Milano
il 13 aprile del 1969 tra vari esponenti dissidenti. Nelle carte del giudice
Amati compaiono, a giustificazione dei viaggi a Milano in aprile degli
anarchici, riferimenti a un convegno su cui non si è mai approfondito. Lo
stesso 13 aprile, fu fatta esplodere una bomba carta davanti ai cancelli della
Fiera campionaria, uno dei due obiettivi colpiti anche il 25 aprile.

Anche
dopo l’arresto del ballerino anarchico, in dicembre, i giornali riporteranno
nuovamente che in un convegno anarchico milanese del 13 aprile Valpreda avrebbe
annunciato la sua adesione al gruppo.”‘22 marzo’,costituitosi a Roma all’inizio
dell’anno per portare avanti la strategia di Cohn-Bendit”. Il ‘XXII marzo’ però
era già nato nel ’68, e il  ’22 marzo’
sarebbe nato nell’ottobre-novembre” del 1969.

A
portare all’incriminazione dei gruppi anarchici milanesi per gli attentati del
25 aprile furono le affermazioni di Aniello D’Errico. Interrogato da Calabresi
il 27 aprile, aveva parlato di Pietro Valpreda, indicandolo come un capo
dinamitardo.

“Alla
vigilia del festival di Sanremo io e il Pietro, insieme ad altri, decidemmo di
andare a contestare il festival. A Sanremo proposi al Pietro che sarebbe stato
più efficace compiere un’azione di protesta più energica contro le autorità
dello Stato con attentati compiuti da commando […]. Il Pietro mi rispose di
no, sostenendo la nostra inesperienza in materia e spiegandomi che gli
attentatori devono essere degli artificieri nel vero senso della parola […].
Un commando serio, mi disse, esisteva in San Babila, a Milano, composto da tre
persone […]. Trattasi di Paolo Braschi e di due giovani da me notati in casa Braschi
[…]. “

A
Milano Piazza San Babila è territorio storicamente in mano alla destra non solo
in quei mesi. Valpreda rinvia a un altro “commando” di specialisti.

Ecco
cosa scrivo nell’inchiesta in proposito:

“Due
furono gli obiettivi, entrambi a Milano, il 25 aprile. Il primo – verso le 19 –
allo stand della FIAT alla Fiera campionaria, da poco inaugurata dal presidente
della Repubblica Giuseppe Saragat; il secondo – neanche due ore più tardi –
alla Banca delle comunicazioni della Stazione centrale, ufficio cambi.

L’esplosione
all’ufficio cambi della banca nella stazione milanese avvenne in due tempi,
alle 20.45. Si erano sentite nettamente due esplosioni. I giornali riportarono
le testimonianze dei bancari. In quell’occasione, poi, si sfiorò la tragedia
perché in pochi attimi si sviluppò un furioso incendio. Il perito Teonesto
Cerri giunse a determinare la presenza nell’ordigno di un elemento
infiammabile. L’accoppiata di esplosivo con benzina o trielina rientrava, in
effetti, nella tradizione neoanarchica dell’epoca. Tuttavia, tra la prima e la
seconda esplosione erano trascorsi più di trenta secondi, oltre mezzo minuto:
un intervallo di tempo troppo dilatato. I giornali ipotizzarono la presenza di
due bombe, ma con la medesima firma. Quella direzione non venne né battuta né
smontata dalla magistratura. Il particolare dei “due tempi” è sostanzialmente
scomparso dall’inchiesta giudiziaria e dai processi.

Per
anni, si attribuirono gli attentati del 25 aprile agli anarchici. Solo nel
1981, la giustizia arriverà a stabilire che quei due attentati erano stati
commessi dal gruppo di Freda e Ventura. Giovanni Ventura, quando ha indicato
Freda come direttamente coinvolto, ha spiegato come quella del 25 aprile fosse
stata un’operazione di “seconda linea”, ovvero una manipolazione degli
anarchici al fine di incastrarli. Alla luce anche di quella sua dichiarazione,
vale la pena chiedersi: perché ci furono due esplosioni distinte alla BDC della
stazione di Milano? Poté essere tentato qui per la prima volta lo stratagemma
di appaiare a un ordigno di mano anarchica un altro fascista? Non avendo
elementi sufficienti per asserirlo, ci limitiamo ad avanzare il dubbio.” Delle
due esplosioni del 25 aprile ne parlarono anche i giornali.

Anni
dopo, Freda e il suo gruppo saranno condannati per le bombe del 25 aprile.
Ruggero Pan, legato al gruppo Ordinovista di Padova, aveva dichiarato di aver
prestato all’avvocato Freda una cartella, per portare una bomba a Milano il 25
aprile. “Rividi Freda, chiamato da lui, negli ultimi giorni di aprile. Egli
affermò in quell’occasione di avere messo le bombe a Milano. Quanto all’ufficio
cambi m’informò che la mia cartella era servita egregiamente allo scopo”.
L’avvocato gli aveva detto di aver lasciato per ultima la bomba all’Ufficio
cambi prima di tornare con il treno a Padova. Anche un altro fascista del giro
padovano, Marco Pozzan, gli disse che era stato Freda in persona a collocare
gli ordigni. Questi elementi non furono immediatamente disponibili, ma c’è
un’informativa che una fonte aveva subito fatto avere al SID. Si trattava della
“fonte Turco”, nome in codice di Gianni Casalini, fascista di Padova legato al
gruppo Ordinovista.

In
quell’informativa, Casalini diceva di aver accompagnato a Milano il braccio
destro operativo di Freda che aveva con sé una borsa con l’ordigno.

La “doppia
esplosione” del 25 aprile è uno dei tanti elementi recuperati dall’inchiesta e
non esaminati né dai Pm, né dal Gip .

Quest’ultimo
mina alla radice la credibilità di Gianni Casalini anche se cita tra gli
elementi presenti nel suo fascicolo alcune dichiarazioni di Gianni Casalini.
Una in particolare. Eccola.

“…Vede
Colonnello, la prima volta che io mi rendo conto che dalla teoria si è passati
all’azione è stato agli inizi di Maggio del 1969. Si era all’interno della
libreria Ezzelino quando il Freda comincia a raccontare al Pozzan ed al Ventura
che lui, Pino Romanin ed una terza persona, anch’essi presenti alla
discussione, una settimana prima, si erano recati a Milano per realizzare un
attentato alla Fiera, presso il padiglione della Fiat e poi all’Ufficio Cambi
della stazione centrale sempre di Milano. Il Freda spiegò che erano stati molto
tesi durante l’azione perché al padiglione una hostess di terra lo aveva
fissato a lungo, e, poi, avevano avuto paura che i loro volti fossero stati
ripresi da una cinepresa che avrebbe potuto essere stata posta dalla polizia
all’ingresso della Fiera. Il Ventura rimarcò la faccenda della cinepresa,
sottolineando che l’aveva detto e che erano stati degli incoscienti ed ebbi
così la netta impressione che lui avrebbe potuto essere il quarto uomo della
missione a Milano, ma che per timore non vi aveva preso parte. Così, affermò il
Freda, erano scappati di corsa all’Ufficio Cambi e vi avevano piazzato due
ordigni che avevano provocato una esplosione molto forte, tant’è che i
notiziari radio o i telegiornali avevano detto che aveva addirittura fuso delle
monete. Io pensai che la paura avesse giocato loro un brutto scherzo e,
preoccupati per quanto poteva essersi verificato al padiglione, avessero deciso
di contrarre i tempi di azione e colpire solo più un obiettivo anziché altri
due, anche perché se si vuole provocare più danni si aumenta la carica, non è che si mettono due ordigni. In
ogni caso io non so quale fosse il terzo obiettivo.”

Come
si vede ci sono “due bombe” e  Freda ne
rivendica una sola, che ha una fisionomia tecnica accertata. Non si capisce
perché scoppiò un furioso incendio determinato dalla accertata presenza di
sostanze incendiarie che erano tipiche delle “bombe” collocate all’epoca dagli
anarchici.

Basta
sfogliare i giornali dell’epoca.

Valpreda
aveva aderito al gruppo “XX marzo” il 13 aprile nel convegno di Milano. Questa
è stata la prima azione “parallela” tra alcuni “anarchici” antisistema e i
fascisti.

Dopo
il 10 di aprile “Pinelli, responsabile del circolo, chiamò  Valpreda e gli disse a muso duro: ‘Tu qui non
ci metti più piede. Non vogliamo provocatori tra noi!’” L’anarchico Menchi era
stato testimone del duro scontro.

Il
gruppo degli “Iconoclasti” (Valpreda, Claps, D’Errico e qualche altro
ragazzetto) si erano messi a
fabbricare molotov nel retro del Ponte della Ghisolfa.
“Pino se ne
accorse e li buttò fuori a calci. ‘Gente del genere è da evitare come la peste,
perché va in giro a fare discorsi pazzoidi e a metterci nei guai’, ricordano di
avergli sentito dire in quell’occasione”.

Degli
attentati del 25 aprile Pino disse, parlando di Valpreda, il quale aveva appena
terminato una relazione sentimentale:” Non si mette una bomba per una delusione
d’amore “.

Il
26 aprile, Valpreda fu prelevato per essere interrogato insieme ad Aniello D’Errico
e Leonardo Claps, detto “Stiv”. Rimase sotto interrogatorio per due giorni. Lui
firmò un verbale di una riga e mezzo: “Ho appreso degli attentati alle chiese e
ai luoghi pubblici, solo dalla lettura dei giornali borghesi “. Il giorno
seguente, il ballerino lasciò Milano precipitosamente.

Licia
Pinelli l’8 gennaio 1970 spiegherà che era stato il marito a buttare Valpreda
fuori dal Ponte della Ghisolfa:

“Non
ne conosco i motivi. Posso, però, ricostruirli per una circostanza narratami da
mio marito. Egli, infatti, dopo gli attentati del 25 aprile 1969, ebbe un
colloquio con il dirigente dell’ufficio politico della questura – dottor
Allegra – che gli disse che non avrebbe preso dei provvedimenti nei suoi
confronti perché sapeva che aveva escluso Valpreda dal Circolo, e gliene indicò
anche le precise circostanze. Ritengo anche che il Valpreda non fosse più un
elemento che potesse riscuotere la fiducia del movimento anarchico”.

C’è
un passaggio della sentenza del Gip che vale riportare: “Poiché è noto che nell’appunto
dell’aprile del 1975 sequestrato al generale Maletti quest’ultimo ordina
l’interruzione della collaborazione con Casalini sul presupposto che
quest’ultimo ‘sta parlando degli attenatti ai treni, parlerà di Piazza Fontana
e chiama in causa il Sid’…” (p.22 sentenza Gip).

Vediamo
perché Maletti – che indica anche lui uno stesso esplosivo jugoslavo presente a
Piazza Fontana e a Piazza della Loggia- temeva che Casalini dicesse qualcosa di
pericoloso su Piazza Fontana.

Leggendo
questa testimonianza si capisce bene perché Maletti temesse che Casalini
potesse parlare di Piazza Fontana dove, per le sentenze citate dai Pm e dal
Gip, è detonato un solo ordigno grazie all’attivazione di un timer.  Io ipotizzo l’uso della miccia nell’ordigno
dei fascisti.  

Una
miccia fu ritrovata dal perito Teonesto Cerri, che calcolò anche la velocità
con cui questa bruciava.

Ecco
cosa afferma nel riassunto che dà conto dell’incontro con il giudice Guido Salvini
del 9 agosto 2010.

“Fu
Ventura a iniziare il discorso e a prospettare un attentato in una banca che
poteva anche essere la filiale della Bnl di Padova ove lavorava il padre di
Casalini. Banche grandi avevano all’epoca saloni con tavoli e sedie ove i
clienti si fermavano a compilare le distinte, che oggi non esistono più, e
assegni. Secondo Ventura sarebbe bastato sedersi a uno dei tavoli, fingere di
compilare uno di quei documenti e intanto fumare una sigaretta. Tenendo una
borsa vicino alle gambe sarebbe stato facile utilizzare gli interstizi vuoti
alle due estremità della fascia di cuoio che corre da un lato all’altro della
borsa e la chiude a scatto con la serratura, perché è appunto possibile
lasciare un piccolo spazio accessibile. In tal modo si poteva accendere una
miccia collegata a un detonatore che non sarebbe stata vista da nessuno non
sporgendo o sporgendo pochissimo dalla borsa. Casalini afferma di non aver
avuto alcuna reazione a queste parole. Questo incontro risale alla primavera
del 1969 dopo l’attentato al Rettorato di Padova e in un momento circostante
gli attentati del 25 aprile a Milano”.

Nessuno,
meglio di Giovanni Ventura descrive quello che è raccontato nella prima parte
della mia inchiesta: solo che nel salone della Bna si usa timer. A che serve la
miccia?

Anche
Vincenzo Vinciguerra nel 1994, a verbale, affermava qualcosa fondamentalmente
fuori  del seminato giudiziario sulla
strage: ”Ritengo, in merito alla strategia che ha portato alla realizzazione
della strage di Piazza Fontana, che non vi sia stata una mera attività
d’infiltrazione in ambienti anarchici ma che, proprio maggior accreditamento di
tale matrice, ci sia stato il diretto coinvolgimento di effettivi militanti
anarchici che hanno tra l’altro realizzato, in piena autonomia, attentati di
piccolo cabotaggio. E’ in questa luce che deve essere vista le figure di
Pinelli e di Valpreda. Ritengo quindi che la morte del Pinelli sia da far
risalire ad un suicidio motivato dall’aver compreso, a fronte delle
contestazioni e delle domande mossegli, di essere stato parte, anche se
inconsapevole, dell’architettura che aveva permesso la realizzazione del
tragico evento. Intendo a questo punto illustrare una mia personale opinione e
cioè che Pietro Valpreda fosse consapevole del progetto politico anticomunista
da realizzare anche attraverso l’attuazione di attentati ed azione eversive.
Ciò non impone affatto, che il Valpreda abbia partecipato a fasi operative ma
da ciò discende, ed è molto importante per spiegare l’evolversi degli
atteggiamenti politici seguenti ai fatti del 12 Dicembre, che la destra e la sinistra ebbero, seppur
per motivi diversi, gioco comune a difendere a spada tratta Pietro Valpreda

Sono convinto, pur non potendo fornire alcun elemento probatorio ma parlando da
persona che ha vissuto ed operato in un ambiente qualificato per descrivere le
dinamiche interne alla destra, che la difesa di Valpreda significava la
conseguente difesa di Mario Merlino e, quindi, il non coinvolgimento di Stefano
Delle Chiaie e d’altra parte ciò a consentito alla sinistra di non vedere
minata e neanche sfiorata in alcun modo, la propria ‘verginità’ in relazione ai
fatti del 12 dicembre 1969”.

C’è
da notare che un giudizio molto vicino a quello espresso da Vinciguerra sul
Valpreda e il circolo “22 marzo”  è stato
espresso dal Dottor Gerardo D’Ambrosio in un suo libro.

“L’inchiesta
si era concentrata soprattutto su questo circolo ’22 marzo’, del quale faceva
parte Valpreda. Un circolo pseudo-anarchico
perchè, a contarli, di esso facevano parte fascisti, infiltrati, informatori e,
addirittura, un agente di pubblica sicurezza in incognito”. Giudizio secco. Non
si comprende quindi perché, come raccontato dal Dottor Guido Salvini, lo stesso
D’Ambrosio abbia lasciato silente un fascicolo che conteneva tra l’altro i verbali
di Vincenzo Vinciguerra.

Ecco
cosa scrive Salvini nel suo e-book

“È
anche una storia curiosa. Davanti al Csm, ove ero stato trascinato dalla
Procura nel tentativo di farmi trasferire d’ufficio da Milano e non avere così
‘concorrenti’ e appropriarsi senza problemi dei miei atti, ero stato addirittura
accusato di essermi sostituito alla Procura stessa nello svolgimento delle
indagini. Per inciso, e questo è il danno maggiore, dovendomi difendere dal
Csm, ero stato così distolto dal proseguire gli interrogatori, proprio nel
momento più delicato.

Ma insomma
era proprio vero che la Procura voleva fare quelle indagini, e le avrebbe fatte
e con impegno se non ci fosse stato quell’”ostacolo” testardo del Giudice
Istruttore?

Non
proprio.

A
partita chiusa è il momento di raccontare un pezzo di questa storia che nessuno
conosce. Avevo mandato una serie di atti, interrogatori di Vinciguerra, Digilio
ed altri al Procuratore aggiunto Gerardo d’Ambrosio per avere la sua
collaborazione, cercare di coinvolgerlo nella ricerca di quella verità che si
stava aprendo. Altri atti gli erano arrivati da un altro Giudice Istruttore, il
collega di Venezia Carlo Mastelloni che si occupava della destra eversiva. Il
dottor D’Ambrosio, celebrato protagonista delle prime indagini negli anni ’70,
li aveva raccolti in un fascicolo rubricato in copertina come “art. 422, commesso
a Milano il 12 dicembre 1969”, la strage appunto.

Che
sorte ha avuto quel fascicolo, che cosa ne ha fatto il dottor D’Ambrosio?
Nulla. Lo ha fatto archiviare, quattro anni dopo, senza svolgere un solo atto
di indagine. E, tempo dopo il dottor d’Ambrosio non aveva avuto alcun ritegno a
tuonare davanti alla Commissione Stragi per la “dannosa” presenza del Giudice
Istruttore e la sua Procura. Davanti al Csm lo aveva accusato di aver
continuato, accusa strana e ‘inquietante’, a fare interrogatori. Gli unici
rivelatisi utili e che erano poi stati utilizzati nell’aula della Corte
d’Assise. Proprio quello che gli ‘accusatori’ non erano mai stati capaci di
fare.

Strage
archiviata di nascosto dunque. Nessuno lo sa. E per gli increduli il numero del
fascicolo spedito dal dottor d’Ambrosio in archivio è 7618/91. E sta ancora lì,
sperando di farsi dimenticare.”

Quando
affronta il capitolo Toniolo-Casalini e gli attentati ai treni dell’agosto
1969, il  Gip fa un inciso che anticipa
il giudizio negativo sulle “doppie bombe” riprendendo un passaggio della
precedente richiesta di archiviazione dei Pm .

 Ecco cosa scrivono a proposito degli attentati
ai treni (p.18):

“Per
tutti i suddetti ordigni, quindi mai fu accertato l’utilizzo di micce per
innescare le esplosioni: si tratta di circostanza che qui viene posta in
rilievo a sostegno di quanto appresso si dira sulla inattendibilità della tesi
esposta nel libro del giornalista Cucchiarelli secondo cui il detonatore che
aveva dato il via all’esplosione di Piazza Fontana sarebbe stato innescato da
una miccia a lenta combustione.”

Invece
di verificare cosa scrivo sulla miccia e sul timer nel salone della Bna i Pm
mischiano gli attentati ai treni (agosto 1969) con la strage (dicembre 1969).

Abbiamo
detto che le bombe sui treni erano state almeno dieci. Questo infatti è il
numero ufficiale: dieci ordigni in tutto, otto esplosi e due no. In realtà,
però, non c’è certezza su quante fossero state le bombe esplose e quelle
ritrovate prima dello scoppio. Il 9 agosto tutti danno per ritrovate a Milano e
a Venezia le due bombe inesplose, come riportano le comunicazioni fatte da Vicari.47
Ma c’è una notizia comparsa inizialmente su più quotidiani che poi sparisce nei
giorni successivi: su un treno Roma-Lecce erano state ritrovate due bombe non
esplose. Se quelle di Milano e di Venezia sono e saranno sempre date per certe,
quante bombe inesplose esistevano, due o quattro? Sul convoglio Roma-Lecce
risulta che due ordigni scoppiarono di certo. Su quel treno qualcosa non torna:
pare ci siano due bombe fantasma. Quante erano davvero le bombe sul Roma-Lecce?
Se erano quattro, le due di queste di cui non si parlò più vanno aggiunte alle
dieci ufficiali. Si arriverebbe così a un totale di dodici bombe approntate, di
cui quattro non esplose. Secondo una testimonianza che verrà raccolta dal
magistrato Massimo Meroni, erano stati preparati per essere utilizzati
addirittura quindici ordigni, di cui cinque però erano stati ritirati o fatti
sparire”.

Perché
i Pm e il Gip non hanno chiesto conto di quella notizia al loro collega Meroni?
Anche lui “inattendibile”?

Il
Gip scrive che la mia tesi è che nel salone della Bna “si verificò l’esplosione
non di una ma di due bombe, una di bassa potenza simbolica o quasi, piazzata da
Pietro Valpreda, che ignorava che altri (peraltro un suo sosia) avrebbero
affiancato alla sua bomba un altro ordigno destinato a determinare la strage.
Il Segreto cui allude il titolo del testo di Cucchiarelli sarebbe, inoltre, costituito
da un presunto patto tra Aldo Moro e l’allora capo dello stato Giuseppe
Saragat, stretto il 23.12.1969, al quale gli apparati pubblici e le forze
politiche, sia di maggioranza, sia di opposizione, si sarebbero uniformate, e
che avrebbe impegnato l’esponente democristiano a tenere celata la verità circa
gli autori e i mandanti della strage di Piazza Fontana in cambio della
dismissione di qualsivoglia tentazione eversiva da parte del Quirinale”.

Il
Gip è quantomeno impreciso.

1)Non
ho mai sostenuto che è stato un sosia di Valpreda a “raddoppiare” la bomba
innocua di Valpreda. Questa è la critica che destra e sinistra (con maggior
cattiveria quest’ultima) mi hanno mosso su internet dove evidentemente il Gip
ha tratto questo elemento. Se avesse aperto il libro a pag. 192 e seguenti (un
intero capitolo) avrebbe appreso che il primo a parlare di un sosia nella
vicenda della strage è Pietro Valpreda
che accusa un anarchico e che la questione è largamente presente nelle sentenze
che lo stesso magistrato cita.

Vediamo:

“In
una storia doppia e parallela come quella di Piazza Fontana il ballerino
anarchico Pietro Valpreda ebbe quasi da subito il suo alter ego. Un suo sosia,
secondo la tesi difensiva di gran parte della sinistra, il 12 dicembre salì sul
taxi di Rolandi per impersonare Valpreda lanciato verso la BNA con la borsa
mortale. ‘Un sosia metterebbe tutto a posto: farebbe uscire Valpreda,
salverebbe Rolandi da un’accusa di falsa testimonianza e giustificherebbe la
polizia per l’andamento impresso alle indagini’ disse subito il difensore del
ballerino, Guido Calvi.

L’ipotesi
di un sosia nacque molto presto. Fu il 9 gennaio 1970 che l’anarchico ne parlò
per primo in sede giudiziaria, in termini circostanziati:

Desidero
precisare che nel mese di marzo-aprile del 1969, mentre mi trovavo al bar
Gabriele sito in corso Garibaldi […] sentii un certo Gino, che dovrebbe
essere un emiliano, parlare rivolgendosi ai presenti – era in compagnia di due
uomini e mi sembra di una ragazza – della certezza di potersi rifornire di
esplosivo e di altro materiale accessorio pertinente […].

Ci
tornerà nell’interrogatorio del 13 gennaio:

Potrebbe
darsi che lavorasse anche nelle Ferrovie. Mi impressionò il tono deciso delle
affermazioni; parlava in italiano corretto, in modo cattedratico; aveva la
carnagione del viso scura e all’epoca aveva un piccolo pizzetto al mento. Ciò
affermo in quanto il predetto Gino mi rassomiglia simaticamente : forse è più
alto di me di pochi centimetri, forse con i capelli più scuri di me, almeno
così mi sembra. Potrebbe fornire utili indicazioni sul Gino tale Giovanni,
altro emiliano. Gio- vanni conosceva da tempo Gino; mentre io ho conosciuto
quest’ultimo in occasione di un’assemblea tenuta nella Casa dello studente
[…]. Gino potrebbe essere meglio conosciuto da Leonardo Claps [uno dei
ragazzi del gruppo di Valpreda].”

2)
Non è vero che il “Segreto” a cui allude il 
titolo riguardi il “presunto patto” politico: il riferimento, come
spiegato nell’ultimo capitolo, è che a Piazza Fontana è stata usato uno schema classico
dell’intelligence; cioè la “falsa bandiera” e questa semplice operazione ha “incastrato”
con il concorso di tanti, a destra e a sinistra, un intero periodo storico
causando infiniti danni. Non è il “patto” il “segreto” ma il collegarsi di
opposti interessi affinché la  verità dei
fatti non  venisse fuori.

Sul “patto”
c’è una pubblicistica che è andata a finire anche in autorevolissimi libri di
storia come ad esempio “La Repubblica dal 1958 al 1992” di Pietro Craveri.

Ho
curato la nuova edizione de “Il Segreto della Repubblica” che illustra in
dettaglio la genesi di quella lettura dei fatti che è entrata anche nell’ultimo
processo di Piazza Fontana svoltosi a Milano visto che l’autore di quel libro, tanto
lucido e profetico, Fulvio Bellini,  è
stato interrogato da Salvini.

Il
Gip ignora quelle carte?

“La
mia fonte su quello che avvenne negli ambienti politici dopo gli attentati che
ho riportato nei capitoli VI e VII del libro fu, a partire dal gennaio 1970 ,
un conoscente inglese che  frequentava
gli ambienti giornalistici  e diceva di
essere il corrispondente in Italia dell’agenzia Reuter e che conobbi al circolo
della Stampa, abituale punto di ritrovo di giornalisti, esponenti politici e
personaggi vari.

Sono
tuttavia certo che, così come altri soggetti che si qualifi­cavano come
giornalisti, egli in realtà fosse un agente dell’In­telligence Service inglese”.

Vinciguerra
segnala nel suo scritto che gli inglesi sapevano da prima della strage che
Mariano Rumor sosteneva l’idea di un’azione “forte”. Oggi sappiamo che gli
stessi inglesi, che evevano segnalato sull’Observer il rischio di un possibile
golpe in Italia il 9 dicembre, cercarono di far conoscere che cosa era
successo; il patto stretto tra Moro e Saragat di cui si parla nel libro e il
perché On tentò più volte di far uccidere Rumor.  Non solo. Nel libro ricordo che il gruppo
veneto di On chiese a Vinciguerra – che rifiutò – di uccidere non solo Rumor,
che non aveva mantenuto l’impegno di proclamare, subito dopo la strage, lo “stato
di emergenza”, ma anche Aldo Moro che del patto con Saragat era stato il
garante politico. Perché allora il Gip s’allarma tanto su quella che non è più
una ipotesi di lavoro giornalistico ma è questione che è nei fascicoli del
Tribunale di Milano? Cosa è che lo urta?

Veniamo
ora alla seconda affermazione, perentoria. Nel testo il “Cucchiarelli fonda
parte cospicua della propria tesi sulle rivelazioni operate da una fonte
anonima denominata ‘mister x’ descritto come un soggetto legato al mondo dei servizi segreti e della
destra neofascista
”.

Il
Gip infila in tre righe due grosse inesattezze. Mister X è un fascista ma non è
legato ai servizi segreti. L’uomo dei servizi segreti che ho intervistato e che
conferma da subito la questione delle due bombe è Silvano Russomanno. Ma per i
magistrati Russomanno  è “inattendibile”.

Veniamo
quindi alla fonte  anonima. Una.

Mister
X mi ha chiesto di non menzionarlo “per la cronica sfiducia nella voglia della
magistratura di indagare su questa vicenda.”. Ho incontrato questo signore 3
volte: ne sono uscite 4-5 pagine di domande-riposte-considerazioni, 2-3 volte
ho incontrato il Dottor Ugo Paolillo, il primo magistrato che ha indagato sulla
strage;  quando gli ho detto della
ipotesi di lavoro (due mani, due bombe) mi ha detto: “E lei come ci è arrivato?”,
dimostrando che almeno come dubbio era cosa maturata nei suoi convincimenti. Ho
incontrato due volte Silvano Russomanno. Ci sono le foto.

Certo
è il sogno di ogni magistrato avere un “dichiarante” che fornisca, elementi di
valutazione pratici, concreti, ricostruzioni storiche, riscontri, testi
d’interviste, analisi dei timer, delle cassette ecc. ecc. Se tutto ciò fosse
realmente accaduto – come ipotizza il Gip- 
avrei dovuto incontrare centinaia di volte “Mister X”,  con cui ho dialogato brevemente per
tre-quattro volte, a partire dal 2001-2002.

Il
libro è di 700 pagine, 5 pagine di dialogo finale  e 3 righe nel testo sono il contributo di
Mister X.

In
ogni fascicolo processuale, dal piccolo furto al processo per strage, si trova
il “faldone degli anonimi”. Se il modo di procedere del Gip fosse logicamente
estensibile, allora sarebbe giusto poter dire che qualsiasi sentenza fondata su
fatti, documenti, testimonianze, riscontri, foto, perizie, ecc.  può essere inficiata se nel fascicolo degli “anonimi”
si trovasse una lettera o una intervista anonima che proponga conclusioni
analoghe a quelle poi determinatesi nel processo. Se solo i Pm e il Gip
avessero sfogliato il libro, si sarebbero accorti che in diversi punti
l’inchiesta segue i fatti e si discosta dalla visione parziale e “testimoniale”
fornita da “Mister X”.

Questo
è stato fatto con questa inchiesta giornalistica: la si è ridotta
all’anonimo,  senza porsi il problema di
come questo percorso si è costruito su basi documentali ben visibili al
lettore. Il Gip dice che non tocca a lui fare indagini: vero, verissimo ma
valutare gli elementi disponibili sì. E questo non è stato fatto. Il
libro-inchiesta è stato espunto dal giudizio.

Ma
veniamo ad un’altra considerazione dei magistrati: Pm e Gip sottolineano che mai
sono emersi elementi sulla “doppia bomba” o sulla compresenza di miccia e
timer, situazione tale da far poter ipotizzare una doppia presenza di ordigni
in un medesimo sito. Non è vero. 

Si
devono quindi analizzare i casi, tutti potenzialmente noti, direttamente o
indirettamente, ai Pm e al Gip che sono emersi nel tempo.

Riprendo
parte di un rapporto del tenente Colonnello Massimo Giraudo del febbraio 2010
dedicata all’attentato alla stazione di Verona del 28.8.1970.

“Giova
ricordare a codesta A.G. (Brescia, nota mia), che tale dimenticato episodio è
oramai svanito nella memoria per essere rimasto a livello di tentativo ma come
riportato in appunto privo di data reperito agli atti della DIGOS di Bologna: ”Uno
dei più impressionanti attentati del periodo successivo alla strage di Piazza
Fontana,anche se privo di conseguenze drammatiche, fu quello compiuto a Verona
il 28.8.1970 mediante una ‘valigia esplosiva’ collocata in una delle verande di
attesa per viaggiatori alla Stazione ferroviaria di Porta Nuova. Tale azione
terroristica fu sventata dal coraggioso e intelligente intervento di un
sottufficiale della Polizia Ferroviaria, il quale trascinò l’artificio in zona
lontana dai binari e dalla folla appena in tempo perché esso deflagrasse senza
tragiche conseguenze. Essa appariva, tuttavia, gravissima perché il luogo
prescelto era l’espressione di una volontà criminale tendente a un eccidio
indiscriminato; ed è rimasta finora del tutto oscura quanto ai moventi
specifici e alla colorazione ideologica degli esecutori…”. Ora, se l’oscura
colorazione ideologica degli esecutori tradisce la mentalità imperante
all’epoca e l’incombenza della pista anarchica per l’eccidio di Milano,
l’attenzione dello scrivente era catturata dalle rappresentate incongruenze
tecniche dell’ordigno, poiché viene scritto: “…presenza contemporanea, fra i reperti, di parti di congegno ad
orologeria e di frammenti di pile – cose che presuppongono un’attivazione
elettrica – e di una miccia – cosa che, invece, presuppone un’attivazione
meccanica o pirica…”
. Ma l’ignoto estensore ancora sorprendentemente
annota che tale duplicità sarebbe inspiegabile se non fosse già stata utilizzata nelle bombe-libro rinvenute inesplose
nei Palazzi di Giustizia di Roma (21.5.69 e 18.8.69) e di Torino (28.10.69).

Non solo, il redigente osserva che anche nello “scatolone”
esplosivo-incendiario disattivato a Torino il 30.7.68 nella cantina
dell’abitazione del Sostituto Procuratore della Repubblica dr. Amore si era
notata un’analoga combinazione,
ma i colpevoli non vennero scoperti. Ben si comprende come questa “anomalia”
appaia di interesse nell’ambito della strage di Brescia a seguito della
focalizzazione fatta dal giornalista Cucchiarelli, nel noto testo “Il segreto
di Piazza Fontana”, sia sulla presenza nell’ordigno, o negli ordigni,
utilizzato/i per la strage, di uno spezzone di miccia, sia a fronte delle
asserite affermazioni di un soggetto denominato “Mister X”, secondo cui a
Milano e a Brescia, il 12-12-1969 ed il 28-05-1974, sarebbe stato utilizzato il
medesimo esplosivo. Altro particolare di non secondario interesse è la presenza
ridondante, nell’ordigno, di componenti tedesche: batteria o batterie Varta di
produzione tedesca, giornali stranieri in lingua tedesca (Suddeutsche Zeitung
di Monaco e Kurier di Vienna). Tanto è vero che singolarmente, l’estensore
sottolinea che allega il fascicolo fotografico dell’Arma in edizione bilingue
italo-tedesca, “…data l’ipotesi iniziale che si potesse trattare di azione
terroristica di ‘Altoatesini’“.  Questo
commento potrebbe avere una relazione con l’annotazione manoscritta sul primo
foglio dell’appunto privo di data, dove, nell’angolo in alto a destra, sembra
doversi leggere: “Serra, ha visto che io la penso sempre!”. Che potrebbe
sottintendere un qualcosa notato da questo “Serra”, per il quale volle
procurarsi gli atti inerenti il fallito attentato di Verona. L’annotazione non
è di poco conto se si considera che lo scrivente conserva vivo il ricordo di
una intervista, televisiva o sulla carta stampata, nella quale il Senatore
Achille Serra ricordava di essere stato il primo funzionario di Polizia che era
entrato nella Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano. Desta attenzione la
possibilità che l’ignoto Serra si sia voluto interessare a tutti gli attentati
in cui vi era compresenza di congegno ad orologeria e miccia, poiché già questa
anomalia era stata notata il 12 Dicembre 1969 e, ovviamente, in quanto
peculiarità tecnica, costituiva filone investigativo da privilegiare. Ora,
tuttavia, come ben noto, non risulta che nelle tre bombe-libro del 12 Maggio
1969 sia stato impiegato un congegno ad orologeria, difatti la sentenza della
Corte d’Assise di Catanzaro riporta che “…si trattava di tre scatole di legno della
stessa colorazione rivestite di una custodia di cartone per libri e contenenti
una miscela di tritolo e di tetrile oltre ad elettrocalamite, interruttori,
fiammiferi per l’innesco, detonatori e batterie avvolte con nastro adesivo
rosso dello stesso formato…”. Ancora, nella stessa sentenza, il:”…sistema
elettrico attuato per ritardare l’esplosione dopo l’innesco: un congegno di
tipo elettromagnetico a caduta di corrente, ossia caratterizzato da un relais
il cui scatto era collegato all’esaurimento di una batteria…”. Difatti, sempre
secondo il citato documento, fu solo con l’attentato all’Ufficio Istruzione del
Tribunale di Milano del 24 Luglio e quelli sui treni della notte dall’8 al 9
Agosto 1969 che il sistema “a caduta di corrente” venne sostituito dal comune
orologio da polso marca Rhula e l’esplosivo nel primo divenne Semigel D con
binitrotoluolo e tritolo per quanto riguarda i convogli ferroviari. E’ quindi
lecito chiedersi da dove abbia tratto la convinzione, l’ignoto estensore
dell’appunto per il “ Serra “, che le tre bombe-libro fossero caratterizzate da
compresenza di parti di attivazione meccanica o pirica e parti di attivazione
elettrica. Un indizio potrebbe venire da un approfondimento analitico di taluni
documenti della DAR rinvenuti presso la Circonvallazione Appia. La Consulenza
Carucci, in merito all’Allegato ‘C’: “Attentati 1968-1978”, con riferimento
agli episodi menzionati: “Sc.29/5/19,Torino 68-7-30. Via Beaumont 22- Ab.
Sostituto Proc. Rep. Dr. Diego Amore”; “S4/1/2. 69/13137.4. Mantova 69-5-1.
Boutique Fanny – esplosione” e “S4/1/2. 70/332.4. Mantova 69-5-1. Boutique
Fanny – esplosione”; “S4/1/17. 73/615.3. Roma 69-5-21. Palazzo di Giustizia”; “S3/1/19.
73/617.3. Roma 69-8-19. Palazzo di Giustizia. Attentato fallito.”; “S4/2/19.
69/33124. Torino 69-10-28. Tribunale – libro contenente congegno orologeria” e “S4/2/19.
70/302.3. Torino 69-10-28. Tribunale – libro contenente congegno orologeria” e “S4/2/19.
73/616.3. Torino 69-10-28. Tribunale – libro contenente congegno orologeria.”“.

E’
chiaro che se nelle sentenze non vanno a finire questi elementi ma la sterile
configurazione della “ripulitura” effettuata per non far vedere e far capire
certamente Pm e Gip hanno (formalmente) ragione. Gip e Pm dovevano cercare sì gli
elementi che cito ma non nelle sentenze semmai negli scantinati di questo
Stato.

E’ chiaro infatti, che lo Stato, da Giuliano a
Piazza Fontana e oltre ha occultato in archivi tipo Via Appia, quello che
l’opinione pubblica e i magistrati non dovevano conoscere.

Ipotizzando
sempre e comunque la buona fede di quest’ultimi, naturalmente.

E
che aver sottratto questi elementi ha un ben preciso senso. Faccio un altro
esempio, solo parzialmente dissimile: se io mi rifacessi solo alle sentenze
citate dai Pm e dal Gip non dovrei prendere in considerazione due elementi
anch’essi spinti ai margini della ricostruzione ufficiale della strage e cioè
che in quegli stessi mesi, Ivo  Della
Savia, “l’artificiere” del gruppo romano “22 marzo” lavorava a Milano presso la
GPU di viale Washington, la concessionaria del brevetto dei timer in deviazione
poi utilizzati a Piazza Fontana oppure che il 5 novembre 1975 il Giudice
istruttore presso il Tribunale di Roma si rivolge al Giudice istruttore presso
il Tribunale di Catanzaro dicendo che “gli imputati (anarchici, Nota mia) sono
stati trovati in possesso di timer Dhil 60 m/n/d a deviazione ( venduti in
Italia dalla Ditta Gavotti di Milano , Viale Washington 83”. Ecco questo è un
esempio di un elemento fondamentale “affondato” nell’inchiesta giudiziaria, che
l’inchiesta giornalistica può recuperare, spesso con grande sforzo, e
riconsiderare. Lo stesso vale per quei particolari così importanti  che erano stati “affondati” nell’archivio di
Via Appia.

E
allora: “L’inchiesta giornalistica del Cucchiarelli aprioristicamente svaluta le risultanze processuali
stratificatesi all’esito dei successivi giudizi in cui si è articolata la
vicenda giudiziaria sui tragici fatti del 12.12.1969 e ricostruisce una propria
‘verità’ senza tuttavia addurre adeguato fondamento per la stessa”.

Non
è quella del Gip una sentenza di archiviazione ma una difesa questa si “aprioristica”
del giudicato.  Solo che compito del
giornalismo d’inchiesta è – se necessario- andare oltre il giudicato- che sulle
“doppie bombe” – per di più non esiste.

Il
Gip poi ha adottato una stravagante logica: prima ha detto che tutto è basato
su una fonte anonima e che quindi non è credibile nulla; poi ha sostenuto che
questa fonte non è poi così importante ( e allora perché sono stato iscritto
sul registro degli indagati?) poi dice che il libro è “inattendibile” perché
basato su “fonti”  (al plurale) anonime.
E ‘ i fatti?

Quindi
dopo essersi interessato solo della fonte anonima il Gip scrive: “Va
doverosamente precisato che, in ogni caso, le dichiarazioni della fonte
anonima, utilizzate dal giornalista, sono palesemente prive  di fondamento, oltre che in relazione alle
accuse rivolte a Valpreda e ad altre notizia, anche in ordine al presunto utilizzo
di due bombe nella strage di Piazza Fontana”.

Questo
sì che è un giudizio auto referenziale che mira a “scagionare” Valpreda, perché
se crolla il ruolo del ballerino anarchico nella vicenda, crolla tutto, vengono
giù tutte le vecchie sentenze.

C’è da
ricordare che la nonna e la zia di Valpreda furono condannate per aver fornito-
in contemporanea- un falso alibi al nipote.

Il “corto
circuito” logico è tutto del Gip che  “salta”
un libro di 695 pagine e si concentra su 5 pagine  facendo discendere da queste ultime la “inattendibilità
“ di tutto quanto era stato scritto in precedenza su base documentale.

Non
ho “aprioristicamente” svalutato le sentenze ma fatto notare – basta leggere la
parte sulle cassette, le borse e i timer, 
e l’esplosivo – che  alla
valutazione del giudice sono stati sottratti importantissimi elementi che hanno
“forviato” la lettura degli accadimenti 
con conseguenze dirette anche sull’ultimo processo che ha assolto il
gruppo Ordinovista a Milano.  Ma questo
non è stato né esaminato, né  “smontato”
dai Pm e dal Gip.

Basta
vedere che gran parte degli elementi proposti dall’inchiesta trova riscontro in
documenti o atti ritrovati poi nell’archivio 
degli Affari Riservati “dimenticato” sulla via Appia a Roma, come il
Vitezit di cui il Viminale sapeva bene che era stato utilizzato “ per gli
attentati del 1969”.

La ‘ostinazione
del Gip si desume dal giudizio finale: “ La ricostruzione storica del
Cucchiarelli, nel mutuare la propria fonte principale nell’anonimo è, inoltre,
ispirata a canoni metodologici incomparabilmente meno rigorosi di quelli
operanti in sede giudiziaria, fondati sulla rigorosa verifica
dell’attendibilità dei dati probatori addotti e sul serrato esercizio del
contraddittorio degli stessi”.

Il
Gip qui scherza. Io non sono uno storico. La mia è un’inchiesta. Forse non
conosce, non ha esperienza del settore, lo capisco.

Mi
sono misurato con i fatti e su questo Pm e Gip dovevano dire qualcosa solo che
hanno aggirato tutto quello che poteva incrinare i loro convincimenti, tutti i
fatti. La loro è per me una “non sentenza” ma una fuga dai fatti.

La
natura di “giornalismo d’inchiesta” poi non è senza conseguenze, evidentemente,
anche sul piano più strettamente tecnico-giuridico.

Basti
richiamare la recente e fondamentale pronuncia di Cass. sez. III, 9 luglio 2010
n. 16236 proprio sullo specifico tema del cd. “giornalismo di inchiesta”.

Sinteticamente,
la Suprema Corte ha stabilito che:

Con il giornalismo d’inchiesta l’acquisizione della notizia avviene “autonomamente”,
“direttamente” e “attivamente” da parte del professionista e non mediata da “fonti”
esterne mediante la ricezione “passiva” d’ informazioni.

Ora
Vincenzo Vinciguerra rilancia giustamente sul fronte della verità su questa
vicenda cruciale e con immense conseguenze sulla nostra storia collettiva. Io
contribuirò come posso: continuando la ricerca e scrivendo, l’unico modo che ha
un giornalista per difendere le sue opinioni e i fatti su cui se le è costruite,
onestamente e sotto gli occhi del lettore.

Ai
Pm e al Gip ho solo una cosa da dire : “Non c’e’
nulla più forte dei fatti”
che
sono, sentenze o no, la ragion d’essere del giornalismo d’inchiesta. Anche
oltre e “contro” le sentenze, se necessario.

Paolo
Cucchiarelli
 
Il generale Fernando Termentini, autore della ormai nota perizia che dà ragione a Cucchiarelli sulla presenza della doppia bomba nell’edificio della BNA di Milano il 12 dicembre 1969 

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