Carlo Mattogno sugli ultimi sviluppi del caso Priebke

Carlo Mattogno sugli ultimi sviluppi del caso Priebke

LA NUOVA
MATEMATICA: IPOCRISIA FARISAICA+IGNORANZA CAPRINA = LEGGE ANTI-“NEGAZIONISTA”
 

Di Carlo Mattogno 

L’11
ottobre Il Fatto Quotidiano ha pubblicato in rete un articolo dal titolo
Negazionismo, Nitto Palma: “Tutti d’accordo, introdurre reato al più
presto”,
che riferisce:

«Un iter accelerato per introdurre il reato di negazionismo.
Ad annunciarlo nel giorno della morte dell’ex ufficiale delle Ss Erich Priebke
è Francesco Nitto Palma, presidente della commissione Giustizia (Pdl).
“D’intesa con i capigruppo del Partito democratico, del Popolo della libertà,
di Scelta civica e del Gal, sentito il vice presidente Buccarella del M5S,
comunico che martedì 15 ottobre la Commissione procederà alla discussione
generale, alla fase emendativa e, se possibile, alla votazione dei singoli
emendamenti sul disegno di legge concernente il reato di negazionismo, sì da
poter licenziare il provvedimento nella serata stessa di martedì”.

“Con l’occasione – aggiunge Nitto Palma – ritenendo di
interpretare anche il pensiero dei colleghi della commissione Giustizia,
manifesto tutto il mio sdegno per le affermazioni di Erich Priebke, rese note
dopo la sua morte, ancor più gravi se si pensa che di qui a qualche giorno
cadrà il 70esimo anniversario del rastrellamento operato al ghetto di Roma”[1].

Dunque
il pretesto della riesumazione della proposta di legge è lo «sdegno per le
affermazioni di Erich Priebke»: che cosa tali affermazioni abbiano a che fare
con la ricerca scientifica revisionistica, lo sa soltanto il signor Nitto
Palma. Che consolazione, però, vedere tutte queste forze politiche, che già
hanno devastato economicamente e socialmente l’Italia e ora, al servizio
dell’usurocrazia europea, si accingono a infliggerle il colpo di grazia, così
lietamente concordi e unite quando si tratta di correre in soccorso di Israele,
alla faccia della costituzione italiana e delle libertà che garantisce!

Dopo
la morte di Priebke, il porcaio mediatico ha aperto i suoi cancelli,
diffondendo per ogni dove i suoi mefitici 
miasmi. Esso è il prodotto di una commistione di ipocrisia farisaica e
di ignoranza caprina. La furia parlamentare è stata vieppiù scatenata dal
suddetto porcaio mediatico, secondo il quale Priebke fu «il responsabile delle
Fosse Ardeatine», o, più idilliacamente, «il boia delle Fosse Ardeatine».

È
bene delineare sommariamente la vicenda processuale di Priebke, facendo parlare
le sentenze, le quali, ci spiegano i nostri onorevoli Garanti (a
chiacchiere) della costituzione, vanno “sempre rispettate”, ma anche
commentate.

L’ex SS-Obersturmbannführer
Herbert Kappler  fu processato per la
fucilazione delle Fosse Ardeatine dal Tribunale Militare territoriale di Roma,
che emise la sua sentenza il 21 luglio 1948. Ne cito gli stralci che mi
sembrano particolarmente degni di rilievo (i corsivi sono miei).

«Sul luogo rimanevano uccisi, oltre ai militari tedeschi, due
civili
dei quali uno (un bambino), si è accertato, dato il
particolare laceramento del corpo, che la morte avvenne a seguito dello scoppio
della bomba» (p. 38).

«Nel marzo 1944 il movimento partigiano aveva assunto
proporzioni di largo rilievo ed una discreta organizzazione, ma non aveva
ancora acquistata quella fisionomia atta ad attribuirle la qualifica di
legittimo organo belligerante
» (p. 93).

«Secondo il diritto internazionale (art. 1 della Convenzione
dell’Aia del 1907) un atto di guerra materialmente legittimo può essere
compiuto solo dagli eserciti regolari ovvero da corpi volontari, i quali ultimi
rispondano a determinati requisiti, cioè abbiano alla loro testa una persona
responsabile per i suoi subordinati, abbiano un segno distintivo fisso e
riconoscibile a distanza e portino apertamente le armi.

Ciò premesso, si può senz’altro affermare che l’attentato di
via Rasella, qualunque sia la sua materialità, è un atto illegittimo di
guerra
per essere stato compiuto da appartenenti ad un corpo di volontari
il quale, nel marzo 1944, non rispondeva ad alcuno degli accennati requisiti.

Stabilito che l’attentato di via Rasella costituì un atto
illegittimo di guerra
occorre ancora accertare, per le diverse conseguenze
giuridiche che ne derivano, quale era la posizione degli attentatori nei
confronti dello Stato italiano»  (pp.
94-95).

Gli
attentatori «facevano parte di una organizzazione militare inquadrata nella
Giunta Militare» che, al pari del Comitato di Liberazione Nazionale, «si poneva
come organo legittimo, almeno di fatto, dello Stato italiano» (p. 95), rendendo
in tal modo giuridicamente valida la rappresaglia contro cittadini italiani.

«L’istituto della rappresaglia è stato oggetto di accurato
esame da parte della dottrina internazionalista, la quale, sulla base delle
pratiche invalse, ne ha formulato il fondamento, il contenuto e i limiti.

Il fondamento della rappresaglia è dato dalla necessità di
attribuire allo Stato offeso un mezzo di autotutela in conseguenza e in
relazione ad un atto illecito di uno Stato straniero. L’esercizio di essa è
strettamente collegato alla esistenza di una responsabilità a carico dello
Stato cui si riporta quell’atto. È sulla base di questo presupposto che allo
Stato offeso è dato colpire, per rappresaglia, un qualunque interesse dello
Stato offensore.

Quanto al contenuto è principio unanimemente accolto che la rappresaglia
deve essere proporzionata all’atto illecito contro cui si dirige, ma non
necessariamente della stessa natura. Il principio della proporzione
caratterizza l’istituto della rappresaglia. Questa deve avere scopo repressivo,
non vendicativo. Con la rappresaglia si vuole fare cessare un’attività illecita
ovvero si agisce perché non si ripeta un atto lesivo» (pp. 96-98).

«Dall’accennato rapporto sussistente fra il movimento
partigiano e lo Stato italiano deriva che, in conseguenza dell’atto illegittimo
di Via Rasella, lo Stato occupante aveva il diritto di agire in via di
rappresaglia. La questione, quindi, si risolve nell’accertare se la fucilazione
di 335 persone alle Fosse Ardeatine costituisca una rappresaglia ovvero
un’azione diversa. Prima di dare una risposta al quesito è necessario
premettere che nell’esecuzione delle Fosse Ardeatine si devono distinguere due
momenti ben distinti, come si è chiarito nella esposizione del fatto.

Difatti, mentre la fucilazione di 320 persone si riporta
all’ordine dato dal Gen. Maeltzer, la fucilazione di altre dieci persone, in
relazione alla morte di un trentatreesimo soldato tedesco  dopo la trasmissione di quell’ordine,
costituisce un’attività diretta del Kappler. La fucilazione, infine, di altre
cinque persone dipende da un errore di cui in seguito saranno valutate le
conseguenze» (pp. 104-105).

«Distinta la fucilazione delle Fosse Ardeatine negli accennati
due momenti, ne viene come conseguenza che il quesito postosi dal Collegio si
riferisce solo alla fucilazione di 320
persone, che si riporta ad un ordine
emanato dalla autorità competente a disporre la rappresaglia, non alla
fucilazione delle altre dieci persone, la quale, essendo stata disposta da un
organo incompetente ad ordinare la rappresaglia, costituisce un’attività che,
sotto il lato oggettivo è senz’altro fuori dell’orbita della rappresaglia.
Al quesito per il Collegio deve darsi risposta negativa» (pp. 105-106).

«Fra l’attentato di Via Rasella e la fucilazione delle Cave
Ardeatine vi è una sproporzione enorme sia in relazione al numero
delle vittime sia in relazione al danno determinato» (107).

«Stabilito che la rappresaglia, nella maniera nella quale fu
disposta, deve considerarsi illegittima…» (p. 108).

«Dimostrata infondata la tesi della rappresaglia collettiva,
la fucilazione delle Cave Ardeatine assume la qualificazione di omicidio
continuato
» (p. 119).

«L’atto di Via Rasella giustificava, come si è detto, un’azione
di rappresaglia o di repressione collettiva
, a seconda della qualificazione
giuridica che l’esercito occupante avesse attribuito all’attentato, condotta
nel modo voluto dalle norme e dalle consuetudini internazionali, ma, dato che furono
fucilate persone in numero di gran lunga sproporzionato

a quello dei militari tedeschi uccisi nell’attentato e
senza che avessero alcun supporto di solidarietà con gli attentatori a quello,
l’esecuzione delle Cave Ardeatine rimane scissa dalla causa giustificatrice»
(p. 124).

«Ciò premesso, il Collegio ritiene che l’ordine di uccidere
dieci italiani per ogni tedesco morto nell’attentato di Via Rasella
concretatosi, attraverso il Gen. Maeltzer, nell’ordine di uccidere 320 persone
in relazione a 32 morti, pur essendo illegittimo in quanto quelle fucilazioni
costituivano per le considerazioni esposte degli omicidi, non può affermarsi
con sicura coscienza che tale sia apparso al Kappler» (p. 130).

Tutti gli elementi esaminati

«fanno ritenere al Collegio non possa affermarsi con sicurezza
che il Kappler abbia avuto coscienza e volontà di obbedire ad un ordine
illegittimo.

Diversa, invece, è la posizione dell’imputato per la
fucilazione di 10 ebrei, da lui disposta, come si è visto, per aver appreso che
era morto un altro soldato tedesco e senza che in merito avesse avuto alcun
ordine» (pp. 131-132).

«Le dieci fucilazioni, pertanto, concretano dieci omicidi
volontari i quali, essendo stati commessi in conseguenza di uno stesso disegno
criminoso, devono farsi rientrare nella figura giuridica dell’omicidio
continuato.

La fucilazione delle altre cinque persone fu dovuta, come si è
detto nella esposizione dei fatti, ad un errore che, per l’occasione in cui si
manifestò, dimostra come in Kappler e nei suoi collaboratori più vicini sia
mancato il più elementare senso di umanità» (p. 137).

Quanto ai subordinati di Kappler:

«Sulla base di questi elementi, considerato che gli imputati
appartenevano ad un’organizzazione dalla disciplina rigidissima, dove assai
facilmente si acquistava un abito mentale portato alla obbedienza pronta,
tenuto presente che il timore di una denunzia ai Tribunali Militari delle SS.
quanto mai rigidi ed ossequienti ai voleri di Himmler non poteva non diminuire
la loro libertà di giudizio, valutata infine la circostanza che gli imputati
erano ignari della esatta situazione che portava alla fucilazione delle Cave
Ardeatine mentre erano a conoscenza che ordini aventi lo stesso contenuto di
quello ad essi impartito dal Kappler spesso erano stati eseguiti in zone
d’operazioni, il Collegio ritiene debba escludersi che essi avessero coscienza
e volontà di eseguire un ordine illegittimo.

Il dubbio sulla colpevolezza, relativamente alla fucilazione
di 320 persone, sussiste nei confronti del Kappler che ha potuto avere una
tenue libertà di giudizio stante la conoscenza dei fatti inerenti
all’attentato, non sussiste per l’esecuzione in genere relativamente  a questi imputati, che furono all’ultimo
momento chiamati ad eseguire un ordine e non seppero che il numero delle
vittime, dopo l’ordine ricevuto, era aumentato. Essi, pertanto, vanno assolti
dal reato loro ascritto in rubrica per aver agito nell’esecuzione di un ordine»
(pp.142-143).

Ed ecco l’epilogo. Il Tribunale Militare

«DICHIARA Kappler Herbert responsabile del reato di omicidio
continuato… e lo condanna alla pena dell’ergastolo per il primo reato e ad
anni quindici di reclusione per il secondo reato [l’imposizione del tributo
dell’oro agli Ebrei di Roma
] …

ASSOLVE Domizlaff Borante, Clemens Hans, Quapp Johannes,
Schutze Kurt e Wiedner Karl del reato di omicidio continuato indicato nel primo
capo d’imputazione in quanto agirono per ordine di un superiore
» (pp.
153-154).

Riassumendo:

1)
Nell’attentato di via Rasella morirono 32 «militari tedeschi» e due civili
italiani, tra cui un bambino, successivamente un altro militare tedesco. In
realtà le vittime tedesche furono almeno 42.

2)
Gli attentatori erano combattenti illegittimi, ossia terroristi o banditi, e
appunto per questo   «l’attentato di via
Rasella costituì un atto illegittimo di guerra».

3)
Per questo motivo (e in virtù del fatto che gli attentatori «si ponevano come
organo legittimo, almeno di fatto, dello Stato italiano») la rappresaglia
tedesca era legittima, ma, secondo il Tribunale, «sproporzionata», nel senso
che il rapporto di 1:10 fu considerato spropositato.

4)
L’ordine proveniente dagli alti comandi tedeschi era pertanto illegittimo, ma
non è certo che Kappler se ne rese conto.

5)
Kappler fu condannato non già per la fucilazione delle 320 persone calcolate in
base al suddetto rapporto di 1:10 (32 vittime tedesche = 320 vittime italiane),
ma per le 10 persone che fece fucilare arbitrariamente, di sua iniziativa,
senza ordini superiori, a causa del decesso del trentatreesimo soldato tedesco,
e per le 5 persone fucilate per errore.

6)
Tutti i subordinati di Kappler presenti al processo furono assolti da ogni
imputazione.

Qui
si impone qualche riflessione.

Se la
legge è uguale per tutti, se la fucilazione da parte dei Tedeschi di 320
persone  costituì un  «omicidio continuato», l’attentato di via
Rasella, in quanto «atto illegittimo di guerra» perpetrato da attentatori che
non possedevano «la qualifica di legittimo organo belligerante», fu a maggior
ragione un «omicidio continuato», che coinvolse anche almeno due civili, tra
cui un bambino. Le vittime furono dunque non meno di 44. Che cosa fece  la “giustizia” italiota?

Lascio
la parola a Mario Spataro:

«Quattro degli esecutori della strage di via Rasella
ricevettero medaglie. Nel settembre 1949, con decreto del presidente della
repubblica, Carla Capponi venne decorata con medaglia d’oro al valor militare.
Poco dopo, il 13 marzo 1950, Rosario Bentivegna, Mario Fiorentini e  Franco Calamandrei, con decreto del
presidente del consiglio Alcide De Gasperi, ottennero medaglie d’argento e di
bronzo al valor militare: due medaglie a Bentivegna, due a Calamandrei e
una a Fiorentini. Nelle motivazioni ritornavano, insistenti, le parole
“intrepido ardimento”, “audacia”, e “decisione”. La Capponi fu poi eletta alla
Camera dei deputati»[2]
(corsivo mio).

Dunque,
per lo stato italiota, un «omicidio continuato» perpetrato dall’odiato nazista
è una atto di esecrabile barbarie, meritevole dell’ergastolo; lo stesso «omicidio
continuato», commesso da partigiani, è un atto di  «intrepido ardimento» meritevole di medaglia
«al valor militare», il che, è evidente, contrasta non poco con la
pronunciazione del Tribunale Militare 
che lo definì un  «atto
illegittimo di guerra», dunque né “valoroso”, né “militare”.

La
sentenza del Tribunale Militare di Roma, nel procedimento penale a carico di
Priebke del 1° agosto 1996, ribadì che l’attentato di via Rasella «dal punto di
vista del diritto internazionale fu un atto di guerra materialmente illegittimo
(art. 1 della Convenzione dell’Aia, del 1907)» (p. 55).

In
merito alla questione «se siano stati affissi o pubblicati bandi militari che,
qualche tempo prima della strage, avvertivano la popolazione romana della
ineluttabilità di rappresaglie, con uccisione anche di civili nel rapporto di
10:1» (p. 58), il Tribunale dichiarò che

«è storicamente accertato che lo Stato Maggiore della
Wehrmacht aveva emanato un ordine generale di rappresaglia, stabilendo un
rapporto di 10 ad 1 per le zone di operazione del fronte occidentale (in quello
orientale il rapporto era ancora più grande).

A tale direttiva dei massimi vertici militari tedeschi si
raccorda, dunque, il problema dell’eventuale esistenza di bandi militari
affissi sui muri di Roma prima della strage.

Non possono ignorarsi al riguardo alcune testimonianze che
affiorano dai verbali del dibattimento Kappler: quella del questore Presti
Umberto (15.6.1948, p. 412): “ricordo che, verso gennaio o febbraio 1944, venne
messo un manifesto con il quale si avvertiva la popolazione che in caso di
attentato ci sarebbero state rappresaglie di 1 : 10”; o quella di Frigenti
Emilio (28.6.1948): “ci furono altri attentati; ricordo quello di via Tomacelli
dove furono colpiti due ragazzi; dopo fu messo un bando il quale diceva che per
ogni soldato tedesco ucciso sarebbero stati fucilati 10 italiani; ciò fu il 19
marzo”» (pp. 58-59).

Poi,
contraddittoriamente, il Tribunale sentenzia che «è pacifico che nessun
avvertimento della imminente strage pervenne in alcun modo agli attentatori di
via Rasella»! (p. 60).  È chiaro che
queste anime candide si aspettavano che i Tedeschi avrebbero portato un numero
di civili italiani dieci volte superiore a quello dei morti loro inflitti
coll’attentato in alberghi di lusso sulle Alpi bavaresi, per una amena vacanza
tra canti e balli. Poi, con supina quanto aberrante prosternazione ai miti
resistenzialisti, il Tribunale afferma:

«Ma anche se questa minaccia [cioè l’avvertimento della
imminente strage
] fosse stata rivolta ai partigiani, non può ritenersi che
questi avessero il dovere, quanto meno morale, di presentarsi per
evitare il barbaro massacro» (p. 60) (corsivo mio).

C’è
da restare allibiti: i perpetratori di un «atto di guerra materialmente
illegittimo» non avevano neppure il “dovere morale” di presentarsi ai Tedeschi
per evitare la strage di 320 civili!

Qui
il fariseismo italiota assurge ad una delle sue più alte vette. Il conferimento
della medaglia d’oro al vice brigadiere dei Carabinieri Salvo d’Acquisto in
data 25 febbraio 1945 (alcuni anni prima che altre medaglie fossero concesse ai
gloriosi attentatori) recava la seguente motivazione:

«Esempio luminoso di altruismo, spinto fino alla suprema
rinunzia della vita, sul luogo stesso del supplizio, dove, per barbara rappresaglia,
era stato condotto dalle orde naziste, insieme con 22 ostaggi civili del
territorio della sua stazione, pur essi innocenti, non esitava a dichiararsi
unico responsabile d’un presunto attentato contro le forze armate tedesche.
Affrontava così, da solo, impavido la morte, imponendosi al rispetto dei suoi
stessi carnefici e scrivendo una nuova pagina indelebile di purissimo eroismo
nella storia gloriosa dell’Arma»[3].

Salvo
d’Acquisto, innocente, sacrificò la propria vita per salvare quella delle
vittime innocenti designate della rappresaglia, gli attentatori di via Rasella,
colpevoli, sacrificarono la vita delle vittime innocenti designate della
rappresaglia da essi provocata per salvare la propria: quale nobilissimo
sentire morale! Quale «intrepido ardimento»! Quale straordinaria «audacia»! Si
resta ammirati e orgogliosi che uno di cotanti eroi abbia fatto il suo
trionfale ingresso nella  Camera dei
deputati italiota.

Qualche
maligno potrebbe insinuare che siffatti eroi furono dei miserabili vigliacchi:
grave errore. Essi avevano realmente il “dovere morale” di non presentarsi per
evitare il massacro di civili innocenti, ovviamente secondo la “morale”
staliniana. Lo scopo dell’attentato era infatti appunto quello di provocare la
strage, sicché, se si fossero presentati salvando le vittime predestinate della
rappresaglia tedesca, avrebbero mancato al loro obiettivo primario, sarebbero
stati degli immorali.

Nel
marzo 1944 il partigiano monarchico Massimo De Massimi ospitò nella sua casa
uno degli autori del massacro, Franco Calamandrei. Successivamente egli,  nel quadro di una causa civile contro i
responsabili dell’attentato, riferì:

«La sera stessa del 23 marzo ebbi il sospetto che gli autori
dell’attentato fossero i miei ospiti. Quando Franco Calamandrei venne a
coricarsi lo investii a bruciapelo.

– Siete stati voi?

Egli mi guardò sorridendo.

– Sì, vuoi denunciarci?

– Non si tratta di denuncia,
replicai, ma la cosa non finisce qui. Ci sarà una rappresaglia sanguinosa.

– A la guerra comme à la guerre!
motteggiò il giovane.

– Ma come si può parlare con
tanta leggerezza?, gridai. Vite umane saranno sacrificate per voi, innocenti
saranno uccisi senza una ragione. Perché non dimostrate il vostro coraggio,
costituendovi? Non potrete mai vantarvi di un’azione simile finché vivrete.
Cercherete di farvi dimenticare e sarete tormentati dal rimorso.
Sacrificandovi, invece, ogni italiano ricorderà il vostro nome.

– Retorica, sentimentalismo!
Sono un marxista, caro mio, e come tale devo conservare la mia vita per la
causa. Quella degli altri conta sino ad un certo punto»[4].

Di
fronte a una tale nobiltà d’animo, la commozione prorompe e fa sgorgare dagli
occhi mute lacrime di ringraziamento e di gioia. Che orgoglio avere nelle
nostra storia italiota siffatti eroi!

Don
Angelo Fagiolo, sacerdote, ex partigiano ed eroe della resistenza, nel 1996
dichiarò:

«Rosario Bentivegna dice che il suo fu un atto di guerra.
Sconcertante: non ho intenzione di difendere i tedeschi, ma a Roma non si
facevano azioni di guerra. Si svolgevano solo attività civili. Quelli uccisi
nell’attentato di via Rasella erano militari che facevano solo servizi di
guardia. I partigiani sulle montagne, loro sì che combattevano a viso aperto e
rischiavano di persona. Non ci si traveste da spazzini per compiere un atto di
guerra. Chi sostiene che via Rasella fu un atto di guerra non si rende conto di
contraddirsi, perché in quel modo è costretto a giustificare anche la
rappresaglia tedesca: se via Rasella fu un atto di guerra, allora anche le
Ardeatine sono giustificabili come atto di guerra»[5].

Non
meno lucida è l’analisi del generale Franco Calissoni, che dirigeva
l’autocentro del Viminale:

«Quella bomba [di via Rasella] non aveva alcun senso
dal punto di vista militare. Chi ebbe l’idea dell’attentato volle tendere un
tranello al comando tedesco che ci cascò in pieno. Si voleva provare la
reazione dei romani, ben sapendo della rappresaglia. Gli esempi c’erano già
stati. Il sacrificio di Salvo d’Acquisto era già avvenuto. Qualche tempo prima
nella zona c’era stato un altro attentato, senza vittime. E il comando tedesco
aveva affisso manifesti in cui si annunciava il ricorso a rappresaglie.
Rappresaglie che, si badi bene, non facevano solo i tedeschi ma anche gli altri
eserciti. Ciò che è sicuramente contrario alle convenzioni internazionali è
definire l’attentato di via Rasella un atto di guerra: fino a quel momento i
tedeschi avevano sostanzialmente rispettato a Roma la qualifica di città
aperta»[6].

In
pratica,  gli attentatori sapevano della
rappresaglia (avevano perpetrato l’attentato proprio affinché fosse messa in
atto!), ma, come si dice volgarmente, se ne fregarono altamente delle vite
delle vittime, perché, nobilmente, dovevano 
«conservare la loro vita per la causa».

Non
senza ragione Marco Pannella, ad un convegno radicale che si svolse il 31 marzo
1979, dichiarò:

«Se il terrorismo [delle Brigate Rosse] va denunciato e
colpito, assieme al terrorismo di oggi dobbiamo denunciare, come corresponsabile,
l’intera storia della violenza di sinistra. Se Renato Curcio è colpevole,
allora anche l’azione di via Rasella configura una forma, da condannare, di
violenza omicida»[7].

Chiarita
la questione della legittimità e del valore militare e morale dell’attentato,
resta da esaminare, tornando alla sentenza del 1948, la condanna della
rappresaglia tedesca come “sproporzionata”, per aver i Tedeschi adottato un
rapporto di 1:10.  In una relazione
datata 17 giugno 1997, il prof. Franz W. Seidler, all’epoca titolare della
cattedra di storia sociale e militare presso l’Università di Monaco di Baviera,
mostrò che gli Alleati, contro i Tedeschi nella Germania invasa, adottarono
rapporti di gran lunga superiori. Qualche esempio:

«A Stoccarda il generale francese Lattre de Tassigny minacciò
l’uccisione di ostaggi tedeschi nel rapporto di 25:1 se fossero stati uccisi
soldati francesi. A Marktdorf erano previste fucilazioni di ostaggi nel
rapporto di 30:1. […]. Ad Harz le forze americane minacciarono esecuzioni
punitive nel rapporto di 200:1. Quando il generale americano Rose, nel marzo
1945, rimase vittima di una imboscata, gli americani fecero fucilare per
rappresaglia 110 cittadini tedeschi. […]. A Berlino l’Armata Rossa minacciò
fucilazione di ostaggi nel rapporto di 50:1. […]. A Soldin, Neumark, furono
fucilati dai russi 120 cittadini tedeschi perché un maggiore russo era stato
ucciso nottetempo da una guardia tedesca»[8].

Nei
due casi sopra contemplati in cui la rappresaglia fu inflitta effettivamente,
il rapporto fu di 1:110 e 1:120. Nessun Tribunale Militare ebbe alcunché da
ridire al riguardo, il che significa che una rappresaglia con un rapporto di
1:10 effettuata dai Tedeschi è esecrabilmente sproporzionata, ma una
rappresaglia con un rapporto di  1:110 o
1:120 compiuta dagli Alleati è un atto di sacrosanta giustizia!

Dopo
aver esposto questo luminoso episodio di eroismo, mi permetto un ovviamente
irriverente confronto tra gli atti degli “intrepidi arditi” e del “boia”
Priebke. Quale fu il suo ruolo nella tragica vicenda delle Fosse Ardeatine?
Lascio di nuovo la parola alla sentenza del Tribunale Militare di Roma:

«La partecipazione dell’imputato alla preparazione delle liste
contenenti i nominativi degli sventurati da mandare a morte, il controllo
dell’identità delle vittime che man mano scendevano dagli autocarri che
giungevano alle Cave, la personale fucilazione di due persone con un
colpo sparato alla nuca, costituiscono evidenze processuali incontestabili.
[…]. La colpevolezza del Priebke va riferita, a titolo di responsabilità
oggettiva, anche alle cinque persone erroneamente […] fucilate in eccedenza
al numero di 330» (pp. 67-68).

Priebke
si rese dunque colpevole di «omicidio aggravato» di due persone che «è
divenuto punibile con la pena della reclusione non inferiore ad anni ventuno
[…] e questa, sulla base degli argomenti finora esplicitati, sarebbe stata la
pena da infliggere all’imputato se egli fosse stato sottoposto a giudizio a
pochi anni di distanza dai fatti, e non mezzo secolo dopo. Ciò non è possibile
[…] per la prescrizione del reato di omicidio» (pp. 120-122).

La
prescrizione era valida per il caso in oggetto in quanto

«quello addebitato al Priebke, infatti, almeno formalmente, è
un crimine di guerra e non può essere qualificato come “crimine contro
l’umanità” al solo fine di renderlo imprescrittibile» (p. 122).

Non è
chiaro, se non in base all’adozione del principio dei due pesi e delle due
misure, per quale ragione per gli stessi atti da essi commessi (la fucilazione
di due persone),  tutti gli ufficiali SS
presenti alle Fosse Ardeatine  furono
considerati esenti da pena. Priebke stesso ricordò:

«Le esecuzioni cominciarono a partire dagli ufficiali di grado
più alto. Immediatamente prima di me aveva fatto fuoco Domizlaff, in un gruppo
forse comandato dallo stesso Kappler. Il primo gruppo in assoluto era agli
ordini di Schütz, proprio perché lui aveva il comando dell’intera operazione.
Io ero dovuto entrare nelle cave quasi subito, forse con il terzo gruppo. Fu il
capitano Clemens, altro ufficiale conosciuto per essere un duro, a dare
l’ordine di fuoco. Sparai con il mitra nella posizione di tiro singolo. Per
triste ironia della sorte, le armi usate alle Ardeatine furono proprio quei
mitra Beretta che io stesso avevo salvato dal saccheggio del deposito
dell’Aeronautica Militare Italiana, nel settembre del 1943. Io non avevo mai
ucciso prima di quel giorno e non l’ho, grazie a Dio, mai più dovuto fare.
L’essere la guerra fatta di massacri e di morte, non può alleviare il dramma di
chi ha una coscienza e deve sopprimere una vita: a quel modo per di più. Se
avessi potuto evitare quell’orrore lo avrei di certo fatto»[9].

Qui
vale la pena di ricordare che  la
sentenza del processo Kappler assolse Domizlaff, Clemens e  Schutze [Schütz] dal «reato di
omicidio continuato indicato nel primo capo d’imputazione in quanto agirono
per ordine di un superiore
». Dunque gli altri capitani SS che parteciparono
all’eccidio furono assolti in quanto obbedirono a un ordine superiore, mentre
Priebke, per la stessa imputazione, era 
passibile di punizione «con la pena della reclusione non inferiore ad
anni ventuno»! Misteri della giustizia italiota. Se Priebke si fosse per
avventura trovato tra gli imputati del processo del 1948, sarebbe stato assolto
al pari dei suoi colleghi capitani SS e forse  sarebbe stato al riparo dalle vicende
giudiziarie successive. Dico “forse”, perché, sebbene nella repubblica italiota
delle banane non si possa processare due volte la stessa persona per lo stesso
reato, probabilmente per Priebke sarebbe stata escogitata una porcata
giudiziaria per processarlo ugualmente, come fu fatta col suo riarresto
illegale ed arbitrario dopo la sentenza di assoluzione, di cui parlerò sotto.

Ciò
premesso, confrontiamo: gli attentatori di via Rasella provocarono la morte di
almeno 44 persone in un atto di 
«violenza omicida», di loro arbitrio (come Kappler fece per i 10
fuciliati in più rispetto ai 320 ordinati dai suoi superiori), senza alcun
ordine superiore; Priebke dovette uccidere 2 persone, se non altro
per  «il timore di una denunzia ai
Tribunali Militari delle SS. quanto mai rigidi ed ossequienti ai voleri di
Himmler» che «non poteva non diminuire la sua  libertà di giudizio»; ma gli uni sono
gloriosi esempi di alte virtù italiote, l’altro un bieco “criminale nazista”.

Sul
piano morale, il porcaio mediatico cui accennavo sopra, ha sempre sottolineato
con sdegno che Priebke “non si è mai pentito”: come può pentirsi chi sia
costretto a compiere un atto che, avendo libertà di scelta, non commetterebbe?
Egli invece fece l’unica cosa che poteva fare: espresse raccapriccio per
l’orrore che aveva dovuto commettere.

Viceversa,
nessuno mai si è sognato di chiedere il pentimento agli attentatori di via
Rasella, sebbene avessero piena libertà di scelta e avessero scientemente
compiuto il loro atto criminale. E si è anche visto quanto questi fulgidi eroi
si siano pentiti da soli: «Sono un marxista, caro mio, e come tale devo
conservare la mia vita per la causa. Quella degli altri conta sino ad un certo
punto».

La
vita degli altri conta sino ad un certo punto
: questa massima, da allora, è
diventata il principio di  tutte le
grandi “democrazie” occidentali, che hanno massacrato e massacrano  a destra e a manca in tutti i teatri mondiali
senza battere ciglio migliaia e migliaia di civili innocenti (per determinata
volontà omicida o per  “effetti
collaterali”), salvo stracciarsi le vesti e mandare alti lai e “sdegnarsi”  quando viene colpito “uno dei nostri ragazzi”
(ossia un americano, un israeliano, un italiano …). Un’altra applicazione del
principio dei due pesi e delle due misure che è in realtà una tacita forma di
razzismo: le razze inferiori (palestinesi, afgani, irakeni ecc. ecc.) possono
pure crepare; di loro non importa a nessuno.

Riprendo
le fila del caso Priebke. La sentenza del Tribunale di Roma del 1996

«DICHIARA non doversi procedere a carico di Priebke Erich in
ordine al reato ascrittogli in epigrafe, tenuto conto delle circostanze
attenuanti di cui agli artt. 62 bis C.P. e 59 n. 1, C.P.M.P., equivalenti alle
contestate aggravanti, essendo il reato stesso estinto per intervenuta
prescrizione; ORDINA la scarcerazione immediata dell’imputato, se non detenuto
per altra causa» (p. 123) (corsivo mio).

Ciò
che accadde dopo, è tipico della 
repubblica italiota dove “le sentenze vanno sempre rispettate”.

Ridiamo
la parola a Spataro:

«Alle 18,00 la sentenza. […]. Quasi secondo un copione, in
prima fila i teppisti. Dietro, a mo’ di alibi, i familiari delle vittime e gli
estremisti del ghetto con sul capo lo zucchetto kippah e al collo il
fazzoletto biancoazzurro dei deportati. […]. Nel frattempo un centinaio di
giovani giunti dal ghetto e da altre parti di Roma invadevano le scale e le
stanze… Non ce ne andiamo, urlava Riccardo Pacifici, dirigente dei giovani
della comunità ebraica. […]. Il rabbino capo di Roma, Elio Toaff, per
telefono dall’isola d’Elba, soffiava sul fuoco: “Chi in coscienza ritiene di
non dover lasciare uscire Priebke, rimanga pure lì”. E ancora, ribadendo il
concetto: “Chi secondo coscienza ritiene giusto restare dentro il tribunale è
giusto che rimanga per impedire a Priebke di uscire… Ve lo ripeto, agite
secondo coscienza. Se volete, restate!”.».

In
pratica la marmaglia ebraica sequestrò il tribunale. E che cosa fecero i
dirigenti della italiota repubblica delle banane? Questo:

«Nel cuor della notte, dopo una lauta (e, è lecito supporre,
bene annaffiata) cena, arrivava in tribunale, scortatissimo, il ministro [di
Grazia e Giustizia
] Giovanni Maria Flick che verso le 2,00 ordinava (e ne
dava notizia alla teppa precisando che il detenuto sarebbe stato tradotto “in
un carcere non militare”) il nuovo e illegale arresto di un uomo che, se
debitamente protetto dallo stato, già da otto ore sarebbe stato legittimamente
libero. In cambio, Flick otteneva che venisse tolto l’assedio al tribunale.

Così, con un atto d’imperio degno di una dittaturella
terzomondista, il potere politico strappava l’imputato dalle mani della
giustizia  che lo aveva reso libero e lo
affidava a quelle (forse più allineate politicamente) di un altro ramo della
giustizia: sicché l’ottantatreenne Priebke si ritrovava ammanettato e scaraventato,
sgomento, nella bolgia del carcere di regina Coeli, in mezzo ai delinquenti
comuni»[10].

L’unica
cosa che stupisce, in questo porcaio politico, è che Flick non abbia
abbandonato Priebke alla teppaglia ebraica affinché fosse linciato
pubblicamente e appeso da qualche parte a testa in giù.

Questo
episodio insegna  inoltre che nella
repubblica italiota delle banane il reato commesso da membri del “popolo
eletto” non è reato, o, se si vuole, costoro sono al di sopra delle leggi della
repubblica.

Riprendo
il discorso dall’inizio.  Francesco Nitto
Palma è un esponente del Pdl, partito che, è noto a tutti, si batte con
veemenza a favore di Silvio Berlusconi, che considera ingiustamente
perseguitato dalla magistratura. Dall’altra parte, il PD e gli altri partiti di
contorno affermano che la magistratura ha agito correttamente (se è così,
allora bisogna proclamare apertamente che Berlusconi, per il numero
impressionante di processi che ha subìto, è un criminale interplanetario e tutti
i suoi elettori devono essere bollati 
come suoi complici) e che, comunque, “le sentenze vanno sempre
rispettate”.

Ora
Priebke  da un lato è stato sottoposto a
un processo ingiusto (perché i suoi colleghi capitani SS erano stati assolti
per lo stesso reato al processo Kappler), sicché questo fatto dovrebbe essere
condannato dal Pdl, dall’altro la sua sentenza di assoluzione fu
vergognosamente dileggiata dal massimo rappresentante della giustizia
repubblicana, e questo fatto dovrebbe essere condannato dal PD… se non ci
trovassimo nella repubblica italiota delle banane, dove gli sforzi concentrici
dei parlamentari mirano a salvaguardare i loro privilegi e a crearne di nuovi;
quanto alla povera gente, essa, come sempre, 
«conta sino ad un certo punto», cioè niente.

E
questi sono i personaggi che osano proporre una legge anti-”negazionista” per
l’ “orrore” suscitato loro dalle dichiarazioni del “boia delle Fosse
Ardeatine”!

Anche
il porcaio clericale (non dico “religioso” perché questa pretaglia  dissacra e profana questo termine) merita un
commento. Il Messaggero, in data 14 ottobre, riporta la seguente
informazione:

«CITTÀ DEL VATICANO – “Non sono previste esequie per Erich
Priebke in una chiesa di Roma”. 
La voce che aveva diffuso l’avvocato del criminale
nazista, Paolo Giachini, che si sarebbe celebrata una funzione funebre nella
Capitale ha trovato l’immediata smentita da parte del portavoce del Vicariato,
don Walter Insero. La posizione della Chiesa è netta ed è frutto di una
meditata riflessione tenendo conto dei motivi di opportunità e probabilmente
anche per non creare sconcerto tra i fedeli, visto che Priebke fino all’ultimo,
sia negli scritti che ha lasciato, che nelle affermazioni raccolte poco prima
di morire, non ha dato segni di pentimento, non ha arretrato di un
millimetro dalle sue tesi negazioniste
»[11]
(corsivo mio).

Dunque,
a detta del quotidiano, la salma di Priebke non viene  ammessa in una chiesa cattolica per due
motivi:

1)
«non ha dato segni di pentimento»: ho già chiarito sopra quanto questa
affermazione sia insulsa e ipocrita; 2) «non ha arretrato di un millimetro
dalle sue tesi negazioniste», dal che si desume che un “negazionista” non
merita funerali religiosi e magari dev’essere seppellito in terra sconsacrata.

Quale
sublime esempio di pietà cristiana! Quale commovente e fedele applicazione del
principio evangelico “amate i vostri nemici”!

Ammetto
il colpo basso: il Novum testamentum graece et latine  di Augustinus Merk riporta. in
riferimento  a Matteo 5,44, una glossa
della Recensio Licinianea che dice: «agapàte tous ekhthroùs umòn: ei
me èi oùtoi nazistòi eisìn
», «amate i vostri nemici: a meno che costoro non
siano nazisti».

Così
anche la Chiesa è servita, coll’assordante silenzio di papa Francesco su una
tale ignobile decisione pretesca.

Sembra
una tragica allucinazione collettiva; sembra che il porcaio mediatico, nelle
sue deliranti farneticazioni,  abbia
preso un insignificante capitano delle SS per Himmler in persona.

Finora
ho parlato di ipocrisia farisaica. L’ignoranza caprina è evidentissima. I
nostri parlamentari non hanno la più vaga idea neppure della storiografia
olocaustica, figuriamoci del revisionismo storico. Essi giudicano e decidono a
scatola chiusa.

Se
qualcuno avesse almeno la curiosità (non si può pretendere l’onestà)
intellettuale di aprire la scatola, può dare un’occhiata allo studio
revisionistico di oltre 1500 pagine apparso di recente in pdf col titolo The
“Extermination Camps” of “Aktion Reinhardt
[12]
(I “campi di sterminio” dell’ “Azione Reinhardt”), che è stato redatto da
Thomas Kues, Jürgen Graf e Carlo Mattogno.

Il
revisionismo olocaustico è questo, non la ridicola parodia che ne presenta il
porcaio mediatico da cui tutti traggono le loro incrollabili, vuote certezze. 

                                                                                                                 
Carlo Mattogno
 
14 ottobre 2013
 
Fonte dell’immagine qui riprodotta: Mario Spataro, “DAL CASO PRIEBKE AL NAZI GOLD –  Storie di ingiustizia e di quattrini”, Roma 1998, Tomo I, p. 15 
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  

 

[2] M.
Spataro, Dal caso Priebke al Nazi Gold. Storie d’ingiustizia e di quattrini.
Edizioni Settimo Sigillo, Roma, 1999, 
Tomo I, p.138, nota 5.
[4]
M. Spataro, Dal caso Priebke al Nazi Gold, op. cit.,  p. 217.
[5]  M. Spataro, Dal caso Priebke al Nazi Gold,
op. cit., pp. 228-229.
[6]
Idem, p. 204.
[7]
Idem, p. 219.
[8]
Idem,  Tomo II, pp. 912-913.
[9]
E. Priebke, Autobiografia. Roma, 2003, pp. 125-126.
[10]M.
Spataro, Dal caso Priebke al Nazi Gold, op. cit., pp. 463-467.
One Comment
  1. Un piccolo ricordo personale: all'epoca dell'uscita del suo libro, parlai più volte al telefono con Mario Spataro il quale, alla mia domanda se considerasse la Resistenza come criminale in se (questa è l'opinione dei fascisti) rispose negativamente, aggiungendo che considerava come criminali solo gli atti, come quello di via Rasella, ingiustificabili dal punto di vista militare e sprezzanti l'incolumità dei civili. Tutto ciò, pur essendo Spataro persona chiaramente di destra e non sospetta di simpatie antifasciste. Ci tenevo a precisarlo e a ricordarlo.

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