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Yves Renier alias André Bellegarde |
Belfagor, ovvero Il fantasma del Louvre: capolavoro della tv degli anni ’60. Bellissimo, fin dal prologo, che si apre su quella veduta del mercato delle pulci (quello di Paris Saint Ouen), ricordate?
Con la voce narrante che dice: “Qui si incontrano persone strane, stravaganti, curiose, fuori dell’ordinario …”.
In particolare, del prologo mi aveva sempre intrigato la figura di quel vecchietto (apparentemente) strambo che irrompe nella conversazione tra il protagonista, André Bellegarde e il suo amico, quello che – quando Bellegarde racconta che la mamma era sbalordita, invece che dal progresso tecnologico, dalle coincidenze – afferma perentorio:
“Sua madre, caro signore, aveva ragione! … Soltanto in apparenza sono coincidenze, però, in realtà, non lo sono!”. E, allo sconcertato interlocutore, che gli chiede spiegazioni, risponde “che tutto si collega”.
Quello che, poi, nel suo appartamentino, al sempre più sconcertato Bellegarde, fa quello strano discorso, (apparentemente) scollegato con la vicenda dello sceneggiato, ma in sintonia con la sottile inquietudine che lo pervade:
“Lei va in barca sul mare, e vede un’isola, e dice: “È un’isola”, ma non è vero, si sbaglia, non è affatto un’isola. Tolga l’acqua e potrà vedere che anche un’isola è collegata alla terra ferma”.
E quando Bellegarde gli chiede:
“E per lei le coincidenze sono come isole?”, lui risponde:
“Ma naturalmente, tolga l’acqua e vedrà!”. E all’obiezione che non è un punto di vista molto scientifico, replica: “Ma su che cosa si basa la scienza? Sui fatti, e io ne ho di fatti da mostrarle: guardi, ne ho 25.000”.
E gli mostra un armadio in cui aveva raccolto migliaia di ritagli di giornale con le notizie più strane e curiose.
Chissà cosa voleva dire, mi chiedevo, questa enigmatica introduzione ad uno sceneggiato in cui si parla di occultismo, rosacroce e plagio mentale?
Ci ho ripensato anni dopo, quando Michael Hoffman mi parlò di un altro personaggio (apparentemente) strambo, lo scrittore americano Charles Fort, un autore che viene spesso scambiato (riduttivamente) per ufologo. Wikipedia così lo descrive:
“La relazione di Fort con i fenomeni anomali è frequentemente fraintesa e travisata. Per più di 30 anni, Fort fu assiduo frequentatore di biblioteche di New York e di Londra. Fu un assiduo lettore di riviste scientifiche, quotidiani, periodici, collezionando annotazioni su fenomeni che non erano accettati dalle teorie scientifiche del suo tempo. Tra questi fenomeni possiamo annoverare quelli riferiti all’occulto, ai fenomeni paranormali e supernaturali … “
[1].
Quando poi ho letto, sempre su Wikipedia, che Fort nel corso della sua vita raccolse decine di migliaia di annotazioni (si dice almeno 40.000) e che “queste venivano raccolte su scatole da scarpe” ho subito ripensato al vecchietto di Belfagor.
Navigando in rete, ho scoperto che la somiglianza è stata notata pure da qualcun altro:
“Viene alla mente quel bizzarro personaggio, nel vecchio sceneggiato TV
Belfagor, che conservava, all’interno di latte di pomodoro e fagioli, fogli di giornali arrotolati che riportavano tutti i fatti misteriosi che capitavano sul pianeta, o Charles Fort, che collezionava articoli di giornale che si riferivano a uragani di sangue o piogge di rane e di oggetti metallici”
[2].
L’articolo – di Massimo Pietroselli – da cui ho tratto la citazione, riguardava Peter Kolosimo[3], altro autore “strano”, di cui qui non parlerò per non allargare troppo un discorso, il mio, motivato da un interesse, che, è bene precisarlo, non riguarda tanto gli aspetti “paranormali” o “supernaturali” in se, toccati da Fort, quanto l’approccio epistemologico di tale autore ai “fatti” controversi di cui si interessava – e cioè al modo in cui i pregiudizi culturali della società – e degli stessi scienziati – interferiscono con l’indagine scientifica.
E infatti Hoffman, lui stesso un forteano, ne parla come di un epistemologo:
“
… I am attracted to Charles Fort’s epistemology in terms of the uses of measurements and how different standards of measurements are used to deny aspects of reality that do not fit a particular group’s yardstick”
[4].
Traduzione:
“… Sono attratto dall’epistemologia di Charles Fort riguardo all’utilizzo dei dati e al modo in cui differenti metri di giudizio vengono utilizzati per negare aspetti della realtà che non quadrano con i parametri di un particolare
gruppo”.
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Charles Fort |
Hoffman si riferiva qui al revisionismo olocaustico (non a caso definito “pseudo-scienza” dagli stati europei che lo hanno messo al bando per legge!), ma torniamo a Belfagor: la somiglianza notata da Pietroselli, secondo me, non è solo una somiglianza.
I discorsi dei due personaggi sono praticamente coincidenti (il primo ritaglio di giornale che il vecchietto di Belfagor tira fuori riguarda proprio una “pioggia di sangue”, classico argomento forteano) e questa non può essere una (mera) coincidenza.
Secondo me, si tratta di un’intenzionale citazione di Fort da parte del regista dello sceneggiato, Claude Barma. Come mai?
Cambiamo per un momento scenario. Tiro fuori, a mia volta, un “ritaglio di giornale” che mi è capitato in mano nei giorni scorsi. Si tratta di un articolo, tratto da IL VENERDÌ di Repubblica di qualche anno fa e intitolato Leggere Kafka fa bene. Di più, rende intelligenti[5].
È un trafiletto che merita di essere riportato integralmente:
“Leggere Franz Kafka favorisce le capacità cognitive, in particolare degli adolescenti. Lo sostengono alcuni psicologi degli atenei della California e della British Columbia, che hanno distribuito a un primo gruppo di volontari la versione di Un medico di campagna (un racconto del 1916 in cui il protagonista, fra l’altro, viaggia su una carrozza trainata da «cavalli irreali e senza testa») e a un secondo gruppo un testo rivisto per eliminare ogni elemento soprannaturale. I due gruppi hanno poi affrontato test logici e chi si era confrontato con il
Kafka autentico ha ottenuto risultati migliori, soprattutto gli adolescenti. Il motivo? «Quando il nostro cervello si confronta con situazioni all’apparenza non razionali, come appunto nel racconto di Kafka di chiara matrice surrealista, è portato comunque a cercare una forma di struttura coerente celata sotto la superficie» spiegano gli psicologi, «una capacità innata che, se non viene allenata, tende a indebolirsi».
Kafka come stimolo intellettuale (anche) per adolescenti? Non stento a crederlo.
Breve digressione personale: io, per la verità, lessi il volumetto Feltrinelli dei Racconti curato da Giorgio Zampa, più che da adolescente, da bambino (all’epoca avevo 11 anni), per passare, poco dopo, ai Romanzi.
Curiosamente, da allora, non ho più letto Kafka. Di lui ho però, un ricordo preciso: leggerlo mi metteva di buon umore, per quanto fossero tremende le storie che raccontava, mentre invece erano proprio certe letture normalmente catalogate “per l’infanzia” – come le fiabe di Grimm e Andersen – a mettermi addosso una tristezza indicibile.
Quel buon umore che mi suscitò qualche anno più tardi, anche Edgar Allan Poe (autore che invece ho costantemente riletto).
Il perché, forse, è dovuto al fatto che, sia Kafka che Poe, mantengono un distacco invidiabile rispetto alla materia narrata, senza scadere nel cinismo né, d’altro lato, nella morbosità (quella morbosità in cui talvolta scade un autore pur grandissimo come Dostoevskij).
Quel distacco che induce il lettore, a sua volta, a ragionare e a guardare alla realtà – anche a quella più “assurda” – con lucidità.
Quindi, in questo caso, il test degli psicologi americani non è così strampalato come può sembrare: “Una forma di struttura coerente, celata sotto la superficie” … un altro modo, sia pure squisitamente narrativo, di “togliere l’acqua all’isola” e di vedere i suoi collegamenti con la “terraferma”, di cui parlava il vecchietto di Belfagor.
Terzo scenario. C’è un discorso del poeta Gianni D’Elia sulla forma mentis di Pier Paolo Pasolini come scrittore che mi ha molto colpito. Si trova nella seconda parte del documentario PASOLINI, NERO PETROLIO (a partire dal minuto 7.33 in poi):
D’Elia, citando le pasoliniane Lettere luterane, afferma:
“Lui ha scritto … che noi, per forma mentale, siamo abituati a separare i fenomeni, e lui dice: «Io, in tutta la mia vita invece ho lottato contro la separazione dei fenomeni», e spiega: «Per esempio, voi parlate del Palazzo e non parlate del paese. Pensate che sia diverso? Invece, Palazzo e paese sono legati. Non solo, parlate del presente e non parlate del passato, invece passato e presente sono legati …”.
Si parla qui della “mutazione antropologica della classe dominante” (e del paese) e delle sue trame criminali (i neofascisti, le bombe, le stragi), il cui disvelamento, da parte del poeta, ha condotto – a quanto pare – al suo feroce assassinio.
Un’angolazione, quella di D’Elia, ripresa successivamente da Carla Benedetti:
“Negli ultimi anni della sua vita le accuse che Pasolini muove agli intellettuali sono forti e precise. La prima è appunto l’«imperdonabile colpa» di separare i fenomeni, di non voler guardare l’intero «mosaico della realtà italiana, che non si può guardare nel suo insieme se non a costo di restare impietriti»
[6].
Fort, Kafka, Pasolini: tre scrittori diversissimi tra loro ma accomunati dall’arte di collegare fatti e fenomeni (apparentemente) isolati.
Tutto ciò, ci riporta alla domanda iniziale: che senso ha il prologo di Belfagor, così (apparentemente) scollegato dal resto dello sceneggiato?
Una prima risposta è che “togliere l’acqua all’isola”, svelare la trama nascosta delle “coincidenze” può portare a delle scoperte non solo inquietanti ma spaventose (come possono essere spaventose la storia di Belfagor, i racconti di Kafka e le ricostruzioni di Pasolini).
La seconda risposta è che, forse, il regista di Belfagor voleva dirci che certe storie spaventose, per quanto romanzesche e improbabili possano sembrare, sono molto più reali di quanto non si creda.
Motivo di più per (ri)vedere con attenzione questo, come altri sceneggiati (penso ad esempio a I compagni di Baal) di quel periodo, che appartiene alla vera epoca d’oro della televisione (non solo in Italia), prima dell’invasione dei format e delle fiction, che hanno precisamente la funzione di istupidire e inondare[7]
le coscienze.
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Il format Masterchef: cibo tossico per la mente |
Post Scriptum. A proposito della morte di Pasolini, notai a suo tempo una curiosità che non ha cessato di intrigarmi. Una delle ultime persone a vedere Pasolini vivo, è stato Furio Colombo (per l’ultima intervista rilasciata dal poeta[8]).
Una delle prime persone a vederlo morto, è stato
Antonio Padellaro (fu uno dei primi giornalisti ad accorrere sul luogo del ritrovamento del cadavere
[9]).
Due giornalisti, Colombo
[10] e Padellaro, che nei decenni successivi troveremo spesso insieme
[11],
in esperienze diverse – dall’
Unità al
Fatto Quotidiano[12], ma sempre nell’ambito di quella “scienza italianistica”
[13] del potere descritta da Pasolini in
Petrolio.
Di quel potere che volle la morte, tra gli altri, proprio di Pasolini.
Coincidenza fortuita o forteana?
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