Vincenzo Vinciguerra: “Una diversione strategica: il circolo “22 marzo””

Vincenzo Vinciguerra: “Una diversione strategica: il circolo “22 marzo””

Una rara immagine dei locali del circolo “22 marzo” a Roma

UNA
DIVERSIONE STRATEGICA: IL CIRCOLO “22 MARZO”

Di
Vincenzo Vinciguerra, 2011

L’articolo che segue riassume quanto
pubblicato in un documento intitolato “1969: Piazza Fontana ed
oltre”, rubato da ignoti appar­tenenti alla polizia penitenziaria[1], all’interno del carcere
di Ope­ra, il 16 ottobre 2011, con l’evidente fine di impedirne la pubbli­cazione
su questo sito[2],
prevista per il 12 dicembre 2011, anniver­sario dell’eccidio di Stato.

Il documento sarà
integralmente riscritto e pubblicato, con buo­na degli ignoti ladri, ma,
intanto, anticipiamo la parte relativa agli “anarchici” del circolo
“22 marzo” di Mario
Merlino e Pietro Valpreda, limitandoci per ora a segnalare quanto interesse ci sia negli apparati
dello Stato ad impedire l’emergere della verità sul­la strage di piazza Fontana
a distanza di
42 anni dal suo compimen­to.

E che la verità sul
massacro all’interno della Banca dell’Agri­coltura di Milano, il 12 dicembre
1969, inizi dalla ricostruzione della operazione di infiltrazione negli
ambienti anarchici, avvia­ta nell’estate del 1968, a Roma, è una certezza.

Il 5 marzo 1970,
“Il Corriere della sera” pubblica un’intervista concessa da Serafino Di Luia a Giorgio Zicari, giornalista alle di­pendenze del servizio segreto militare, nella
quale, fra l’altro, afferma:

“Merlino è stato mandato fra gli anarchici e la
persona che lo ha plagiato è la stessa che fece affiggere il primo manifesto ci­nese in Italia”.

Sono passati meno di
tre mesi dal massacro di piazza Fontana e Serafino Di Luia, dirigente di “Avanguardia
nazionale”, rifugiato senza alcuna ragione apparente all’estero insieme al
fratello, Bruno Di Luia, offre la possibilità di ricostruire la verità partendo dall’inizio, dal
capolinea di un percorso che, sul pia­no operativo, va collocato nel mese di
gennaio del 1966.

Nella notte fra il
5 ed il 6 gennaio 1966, tre squadre di mili­tanti di “Avanguardia
nazionale” affiggono in varie città italiane, fra le quali Firenze,
Pistoia e Livorno,
manifesti firmati dal “Movimento
marxista leninista d’Italia” relativi ad una fornitura di armi da parte della Cina popolare al Vietnam del
Nord.

Un’operazione di
“propaganda nera” che vede i pseudo fascisti di “Avanguardia
nazionale” affiggere manifesti marxisti-leninisti di esaltazione della
Cina popolare, in quel momento in aperto con­flitto con l’Unione sovietica, per favorire lo sviluppo in
Italia di una sinistra extraparlamentare contrapposta al Partito comuni­sta
italiano notoriamente legato a Mosca.

A dare agli
“avanguardisti” l’incarico è stato Mario Tedeschi, direttore della rivista “Il Borghese”, amico e confidente del
que­store Umberto Federico D’Amato, punta di diamante della divisione Affari riservati del ministero degli
Interni,”mente” italiana di un piano che porta il marchio della Central
intelligence agency e, fra le altre, la firma di James Jesus Angleton.

Gli
“avanguardisti”, agli ordini ed al soldo di Mario Tedeschi, vengono a
sapere nel giro di pochi giorni che hanno, in realtà, la­vorato per Umberto
Federico D’Amato ma la scoperta non li turba, anzi costituisce un incentivo
ancora maggiore per rafforzare i le­gami con Tedeschi.

Il 5 marzo 1970,
quando Giorgio Zicari pubblica l’intervista a Serafino Di Luia, di tutto questo
nessuno sa niente. 0,
meglio, so­lo gli interessati sono in grado di comprendere il messaggio ricatta­torio
e minaccioso contenuto nella criptica rivelazione di Serafino Di Luia, perchè i
dettagli dell’operazione “manifesti cinesi” saran­no resi noti da chi
scrive alla metà degli anni Ottanta, puntualmen­te confermati da Stefano Delle Chiaie.

A fugare il dubbio
sulla intenzione dei fratelli Serafino e Bru­no Di Luia di minacciare la
divisione Affari riservati del ministe­ro degli Interni per essere protetti e
non abbandonati, giunge la lettera che, il 20 marzo 1970, il questore di
Bolzano invia alla stessa divisione Affari riservati per comunicare che i fratelli Bruno e Serafino Di Luia hanno incaricato un loro amico di
prende­re contatto con la polizia italiana del Brennero (dr. Ruggeri)

“per far sapere che, qualora non perseguiti da alcun ordine di
cattura o circolare di ricerca, sarebbero disposti a venire in territorio italiano
per incontrarsi con qualche funzionario di Ps al quale in­tenderebbero fare rivelazioni interessanti sui recenti attentati dinamitardi commessi a Milano ed a Roma e anche su
quelli della famo­sa ‘notte dei treni’”.

“Si potrebbe accedere alla proposta – scrive il questore – invitan­doli a presentarsi
all’ufficio di Ps del Brennero dove potrebbero recarsi ad attenderli il
Questore dr. Provenza, dirigente dell’uffi­cio politico della Questura di Roma,
ed il Questore dr. Russomanno di questa divisione”.

Il 10 aprile 1970,
effettivamente, al Brennero, il questore Sil­vano Russomanno incontra i fratelli Bruno e Serafino Di Luia, ma nulla si è mai saputo
del contenuto del loro colloquio che, come abbiamo visto, verteva sugli
attentati del 12 dicembre 1969 a Ro­ma e a Milano e su quelli della notta fra l’8 ed il 9 agosto 1969
sui treni.

Le “rivelazioni
interessanti” che i due fratelli promettevano di fare ai funzionari della
polizia italiana sono ancora oggi un se­greto ben custodito, come quello che li
aveva indotti a rifugiarsi all’estero e a pretendere la protezione del servizio
segreto civi­le pur non essendo indagati nelle indagini successive agli attenta­ti
a Roma e Milano del 12 dicembre 1969.

Il non gratuito
riferimento fatto da Serafino Di Luia all’incari­co dato a Mario Merlino di
infiltrarsi fra gli anarchici dalla stes­sa persona che fece affiggere in
Italia il primo manifesto cinese, chiarisce che Mario Tedeschi, direttore della
moderata rivista di destra “Il Borghese” e, successivamente, senatore
del Msi-Dn è sta­to un tramite, una cinghia di trasmissione fra la divisione
Affari riservati, in modo
specifico il questore Umberto Federico D’Amato, e gli uomini di
“Avanguardia nazionale” diretti da Stefano Delle Chiaie.

E i fatti, che ora esamineremo, lo
confermano.

Il 28 gennaio 1968, a
Sanremo, viene fotografato ed intervistato Pietro Valpreda che si presenta,
però, con il nome di “Alberto” e non come “anarchico”,
mentre insieme ad altri dodici suoi amici si prepara a contestare il Festival
della canzone italiana per con­to di Stefano Delle Chiaie.

La contestazione non ci sarà perchè il “patron” del Festival fa­rà sapere a Delle Chiaie di essere un
“camerata” e di non meritare il danno che sarebbe derivato
dall’azione di “Alberto” ed amici al suo Festival.

È la prima
apparizione pubblica di Pietro Valpreda.

Il 16 aprile 1968,
Mario Merlino si reca in Grecia insieme ad altri “camerati” per rendere
omaggio alla Giunta militare, in un viaggio organizzato da Pino Rauti.

L’8 maggio 1968, Mario
Merlino, Guido Paglia e Adriano Tilgher vengono denunciati per aver organizzato una
manifestazione di pro­testa contro l’esclusione del Sudafrica dalle Olimpiadi.

Il 18 giugno 1968, ancora Mario Merlino, questa insieme a Serafi­no Di
Luia, si prende una denuncia per non meglio specificati atti di violenza.

L’attivissimo
ammiratore dei colonnelli greci e del Sudafrica bian­co, Mario Merlino, nel
mese di maggio del 1968 ha fondato un circolo il “XXII marzo” , così
chiamato, con numeri romani, per ricordare gli incidenti del 22 marzo 1968
all’Università di Nanterre, in Fran­cia, che segnarono l’inizio del cosiddetto
“maggio francese”, orga­nizzati e fomentati dagli uomini dei servizi
segreti francesi, atlan­tici e dell’Oas, fra i quali quelli che facevano capo a
Yves Guerin Serac.

I componenti
del circolo “XXII marzo” sono tutti militanti di “Avanguardia nazionale”: Aldo Pennisi, Luciano Paulon,
Pietro Manlorico (detto ‘Gregorio’), Elio Guerino, Renato Granoni, Giovanni Nota, Guido Sciarelli, Antonio De Amicis, Lucio Aragona, Alfredo Sestili.

Insomma, nel mese di giugno
del 1968, Mario Merlino coltiva i miti dei colonnelli greci, del Sudafrica
bianco e della Roma imperiale. Poi, nel breve arco di un paio di mesi, come
Saul sulla via di Dama­sco, Mario
Merlino ed i suoi “camerati” si convertono all’ideale anar­chico.

Difatti, il 31 agosto
1968, con i soldi della benzina forniti da Guido Paglia (lo testimonia Alfredo
Sestili, mai smentito), gli “anarchici” romani Mario Merlino, Pietro
“Gregorio” Manlorico, Lu­ciano Paulon, Augusto De Amicis, Aldo Pennisi, Alfredo Sestili,
accompagnano Pietro Valpreda, non più “Alberto” ed ora ufficialmen­te
“anarchico”, a Carrara dove inizia, per concludersi il 3 settem­bre,
il congresso internazionale organizzato dalla Federazione anarchica italiana.

È l’esordio in veste
di “anarchico” di Pietro Valpreda che, al congresso prende anche la
parola per attaccare la Federazione anar­chica giovanile italiana accusandola
di “essere settaria e burocra­tizzata e strumento della Fai”.

Pietro Valpreda è un
“anarchico” che, poverino, non si rende con­to che tutti i suoi “compagni”
sono “fascisti” di “Avanguardia nazio­nale”: è troppo
ingenuo, tanto da non comprenderlo nemmeno dopo che il 15 ottobre 1968 l’anarchico Pietro “Gregorio”
Manlorico vie­ne arrestato per aver compiuto un attentato contro la sede del Pci al Quadraro, insieme ai militanti di
“Avanguardia nazionale” Lucio Aragona e Corrado Salemi.

Valpreda, fra tutti
gli “anarchici” di “Avanguardia nazionale”, compreso Mario
Merlino, è il più attivo sulla
piazza di Milano, dove si distingue come fondatore del gruppo “Gli Iconoclasti” che, in
real­tà, è formato da lui, Aniello D’Errico, Leonardo Claps, la sua ragazza e un
altro elemento mai identificato.

Nel momento in cui il ministro degli Interni, Franco Restivo, ac­cusa come principale fautore della violenza in
Italia l'”estremismo
anarcoide”, Pietro Valpreda scrive articoli che gli danno ragione e
mandano in visibilio i funzionari della divisione Affari riservati:

“Che gli anarchici facciano scoppiare le loro
bombe in zone isola­te è falso. Abbiamo visto dove sono scoppiate – scrive il 21 marzo 1969 – e
possiamo dire che non sempre, anzi quasi mai scoppiano in zone isolate … Centinaia di giovani
– rassicura Valpreda – sono pron­ti ad organizzarsi per riprendere il posto di
nemici dello Stato e a gridare né Dio né padrone, con la dinamite di Ravachol, col
pugna­le di Caserio, con la pistola di Bresci, col mitra di Bonnot, le bombe di Filippi e di Henry.Tremate borghesi!
Ravachol è risorto!”.

Certo, evidentemente, dell’impunità, nello stesso articolo pub­blicato
sul bollettino “Terra e libertà”, Pietro Valpreda elenca dieci
attentati compiuti, secondo lui, dagli anarchici in meno di un mese, e
prosegue:

“Altri attentati seguiranno a questi qui
elencati. La polizia brancola nel vuoto. I borghesi tremano e cercano di svignarsela con il capitale. Gli pseudocomunisti
pigliano posizione contro questi atti di terrorismo anarcoide. La coscienza popolare
comincia a risvegliarsi e … i botti aumentano!!!”.

Rivendicare 10 attentati dinamitardi, per quanto dimostrativi, porta in
galera o, almeno, in Tribunale ma è un rischio che Pietro Valpreda non corre,
mentre quando il 25 aprile 1969, a Milano, al­l’interno della stazione
ferroviaria e della Fiera campionaria so­no compiuti attentati stragisti,
nessuno dubita che siano stati compiuti dagli anarchici.

Non l’ha scritto l'”anarchico”
Valpreda, un mese prima, che gli anarchici le bombe le mettono in mezzo alla
gente?

Pietro Valpreda è uno
sconosciuto ma, il 20 aprile 1969, sul settimanale “L’Espresso”, in un
articolo a firma di Giuseppe Catalano, si cita il circolo
“XXII marzo” dell'”ex ordinovista ed ex fascista” Mario
Merlino come “il più noto dei gruppi anarchici gio­vanili”, si cita
il congresso anarchico di Carrara e, infine, Catalano aggiunge:

“Poi, in un altro congresso tenutosi a Milano
il 13 aprile Valpre­da aderì anche lui al ’22 marzo'”.

In realtà, non c’è traccia
del circolo
“XXII marzo” di Mario Mer­lino che, a Roma, non si distingue per lo
svolgimento di attività politiche ufficiali e pubbliche.

Non si comprende come
abbia fatto Catalano a citarlo come “il più noto” dei circoli anarchici
giovanili e chi gli abbia suggerito di citare Pietro Valpreda come aderente al
circolo diretto da un “ex fascista” come Merlino.

L’estate del 1969 non
segnala fatti rilevanti attribuibili a Pietro Valpreda e agli “anarchici”
di “Avanguardia nazionale”, ma nel mese di ottobre del 1969, questi
si muovono con decisione.

Il 17 ottobre 1969, difatti, aprono la sede del circolo “22 mar­zo”
in via del Governo vecchio, a Roma, per iniziare un’attività
“anarchica” che dovrebbe essere portata avanti dagli aderenti che, in
tutto, sono i classici “quattro gatti” senza arte né parte.

Certo, non è un
circolo qualunque se l’ufficio politico della Questura di Roma provvede ad
infiltrarvi subito un agente, Salvato­re Ippolito, che si presenta come Andrea Politi, stabilendo un con­trollo diretto sugli appartenenti al gruppo e sulle loro attività non
mediato dai
confidenti che pure non mancano.

A dare lustro al
neonato circolo anarchico ci pensa la rivista “Ciao 2001” che, con
un’azione di disinformazione intelligente, per mano di Tonino Scaroni, capo dell’ufficio stampa del cabaret di de­stra il “Giardino dei
supplizi” e caporedattore per gli spettacoli del quotidiano “Il
Tempo” di Roma, nell’articolo intitolato “Le guardie bianche di
Hitler” passa in rassegna i gruppi dell’estrema destra romana e vi inserisce quello
“anarcoide guidato da Mario Merlino, i cui adepti debbono farsi crescere
la barba e farla poi spiovere sulle camicie nere”. 

È un articolo che il
puro anarchico Pietro Valpreda non legge, men­tre sicuramente legge quello
pubblicato sulla stessa rivista, il 19 novembre 1969, sotto
il titolo “A come anarchia”, che contiene una intervista, concordata
in anticipo, con Mario Merlino e si conclude con il riconoscimento per lui e
gli aderenti al circolo “22 marzo” di essere autentici anarchici ai quali, inoltre, i
redattori di “Ciao 2001″ regalano la bella cifra, per quei tempi, di 40 mila li­re. 

Ora la
disinformazione scopre il suo vero obiettivo: accreditare Mario Merlino ed i
suoi amici come anarchici, anche se, per la ve­rità, nessun anarchico, di
quelli veri, non alle dipendenze del mi­nistero degli Interni, pare disposto a
crederci.

Difatti, lo stesso 19
novembre, l’anarchico Angelo Spanò decide di abbandonare il circolo “22 marzo” e sfratta Pietro
Valpreda dalla baracca in cui lo ospita perchè, dirà successivamente, il suo
comportamento  

“appariva sospetto.Temevo di essere coinvolto
in qual­che pasticcio che avrebbe potuto combinare”.
 
Il 29 novembre 1969,
a Roma, il responsabile del circolo anarchi­co “Bakunin”, Veraldo Rossi, accusa Pietro Valpreda di essere un delatore e lo
diffida, insieme ai suoi compagni, di ripresentarsi al circolo. Valpreda, Roberto Gargamelli, Enrico Di Cola, Leonardo Claps, vengono così buttati fuori dalla
sede del circolo “Bakunin”.

Non è finita perchè, il 1° dicembre 1969, a Milano, Giuseppe Pinelli, responsabile del circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa”,
scri­ve due lettere, rispettivamente indirizzate a Pio Turroni, ex com­battente anarchico in Spagna e a Veraldo
Rossi, capo del circolo “Bakunin” a Roma, nelle quali riporta l’accusa rivolta da Paolo Braschi a Pietro
Valpreda di aver rivelato al giudice Amati, che glieli ha contestati, due attentati, uno a Genova e
l’altro a Livorno, non­ché di aver rubato l’esplosivo “attribuendo allo
stesso Braschi l’o­rigine delle sue informazioni”.

Pinelli non dubita della veridicità delle accuse lanciate da Paolo Braschi a Pietro
Valpreda, difatti conclude:

“La prossima settimana vado a Roma per parlare
con Pietro Valpre­da, per vedere cosa intende fare il giorno del
processo”.

Giuseppe Pinelli conosce bene Pietro Valpreda.

Il 23 dicembre 1969,
su “Vie nuove”, nell’articolo intitolato “L’i­dealista che è
morto”, si riporta una dichiarazione della vedova, Licia Pinelli, che ricorda come nel mese di agosto il marito sia
andato nella Capitale,

“per
avvisare i compagni di Roma che di Pie­tro Valpreda non ci si doveva fidare;
aveva sentito dire allora che era un confidente di polizia”.

Licia Pinelli sarà
più precisa l’8 gennaio 1970, quando afferma che suo marito aveva cacciato
Pietro Valpreda dal circolo “Il Pon­te della Ghisolfa”:

“Non ne conosco i motivi. Posso, però,
ricostruirli per una circo­stanza narratami da mio marito. Egli, infatti, dopo
gli attentati del 25 aprile 1969, ebbe un colloquio con il dirigente dell’ufficio politico della
Questura – dottor Allegra – che gli disse che
non avrebbe preso provvedimenti nei suoi confronti perchè sapeva che aveva
escluso Valpreda dal Circolo, e gliene indicò anche le precise circostanze. Ritengo anche che il
Valpreda non fosse più un elemento che potesse riscuotere la fiducia del
movimento anarchico”.

Il riscontro, sia
pure indiretto, alle gravissime affermazioni di Licia Pinelli c’è: il 29 aprile
1969, dopo essere stato rilasciato dalla polizia il giorno precedente, Pietro
Valpreda, dei cui interro­gatori singolarmente non si sa nulla, abbandona Milano e si trasferisce a Roma dove, un
mese più tardi, si presenterà al circolo “Bakunin” per esserne cacciato, come abbiamo visto,
con l’ignominosa accu­sa di essere un confidente di polizia.

La storia del circolo
“anarchico” “22 marzo” è, in fondo, la sto­ria personale di
Pietro Valpreda, anarchico venuto dal nulla, con un passato di delinquente alle
spalle, un presente da fallito, che dal 30 agosto 1968 si accredita come anarchico, al congresso
della Fai di
Carrara, spalleggiato dai presunti fascisti di “Avanguardia na­zionale”.

Chi crea la figura dell'”anarchico” Pietro
Valpreda?

Lo cita il
settimanale “L’Espresso” il 20 aprile 1969, lo fotogra­fano mentre
seduto su un marciapiede, con una vistosa “A” di anar­chia sul petto
saluta con il pugno chiuso, ed è interessante scoprire chi lo ritraeva nelle sue pose di combattente anarchico.

Per ironia della sorte, a svelare il mistero sono stati gli auto­ri del
libro “La strage di Stato”, scritto per proclamare innocente l'”anarchico”
Pietro Valpreda.

Il 2 settembre 1972,
costoro, nel corso di un’intervista pubblica­ta dal quotidiano “Il
Manifesto” affermano:

“Come mai tutte quelle foto di Valpreda fatte
prima. Valpreda era uno sconosciuto … Allora organizzammo una rapida inchiesta per sta­bilire come le foto
erano arrivate ai giornali.E venne fuori che quel­le foto appartenevano tutte
ad un unico servizio ed erano state fatte dall’agenzia di Giacomo Alexis per lo ‘Specchio’, Alexis fa le foto anche per II Borghese”.

Il mosaico per
ricostruire l’operazione di infiltrazione negli ambienti anarchici portata
avanti da “Avanguardia nazionale” per conto della divisione Affari
riservati si arricchisce di un altro, ma non conclusivo, tassello.

Il 5 marzo 1970,
Serafino Di Luia accusa la persona che ha fatto affiggere il primo manifesto
cinese in Italia di aver mandato Mario Merlino fra gli anarchici.

La persona, che
agisce per conto del questore Umberto Federico D’Amato, è Mario Tedeschi come
pacificamente confermato dallo stes­so Stefano Delle Chiaie.

Ora, si scopre che il
solo servizio fatto allo sconosciuto Pietro Valpreda per ritrarlo in veste di
“anarchico” e diffondere la sua immagine, è stato eseguito da un
fotografo che lavora per la rivi­sta “Il Borghese”, diretta da Mario
Tedeschi.

Un ricatto non si
porta avanti con le menzogne, quindi non c’è da dubitare della veridicità delle
affermazioni rese al “Corriere della sera” da Serafino Di Luia che chiamano in causa Mario
Tedeschi e
Umberto Federico D’Amato, al quale il primo fa da paravento.

È normale, a questo
punto, che la persona che ha avviato l’opera­zione di infiltrazione degli
“avanguardisti” fra gli anarchici si preoccupi di creare l’immagine
pubblica
dell'”anarchico” Pietro Valpreda, utilizzando il proprio fotografo.

Il metodo utilizzato
da Serafino Di Luia e dal fratello Bruno, il 5 marzo 1970, viene ripreso dai
vertici di “Avanguardia nazionale” nel 1974, per scongiurare lo scioglimento dell’organizzazione deci­so dai
dirigenti democristiani nell’ambito della loro offensiva con­tro l’ala
oltranzista, militare e politica, dell’anticomunismo.

Obiettivo della
manovra ricattatoria sono ancora una volta il ministero degli Interni, il prefetto
Umberto Federico D’Amato e ovviamente, Mario Tedeschi, l’anello di congiunzione
nelle operazioni
“sporche” fra il servizio segreto civile e i pseudo fascisti di
“Avanguardia nazionale”.

Ogni mezzo è ritenuto
lecito. Così, l’11 ottobre 1974, una
nota informativa proveniente da Milano segnala al ministero degli Interni che Pino Romualdi sta preparando un’azione intesa a stroncare la
candidatura di Mario Tedeschi a segretario nazionale del Msi-Dn, pre­sentandolo
come legato ai servizi segreti, e Avanguardia nazionale porterebbe come prova
un assegno di un milione di lire consegnato dal ministero degli Interni a Mario
Tedeschi e da questi versato al­la stessa “Avanguardia nazionale”.

L’avvertimento è
preciso. La minaccia viene
reiterata il 15 otto­bre 1974, in occasione di una conferenza stampa, alla
presenza del­l’avvocato Giorgio Arcangeli, svolta da Adriano Tilgher e Felice Genoese Zerbi.

I due
“avanguardisti” denunciano le “sporche e criminali operazio­ni di potere” da
parte della Dc, e affermano che numerosi sono sta­ti i tentativi degli apparati di
Stato (Sid e Affari riservati) di strumentalizzare l’organizzazione, facendo
infine due nomi: Mario Tedeschi e Mario Tanassi.

Mentre il
socialdemocratico Mario Tanassi qualcosa potrebbe fare per favorire gli
“avanguardisti”, è escluso che altrettanto possa fare Mario Tedeschi,
direttore de
“Il Borghese” e senatore del Msi- Dn, in una posizione cioè in cui non ha la
possibilità di far modi­ficare la decisione democristiana di sciogliere
l’organizzazione pseudo fascista.

Gli
“avanguardisti” rivelano che Mario Tedeschi li finanziava con 300
mila lire al mese, negli anni Sessanta, non fanno parola però dei “manifesti cinesi”, ma
anche se l’avessero
fatto non sarebbe stato un motivo sufficiente per indurre il ministero degli Interni a proteggere
Stefano Delle Chiaie ed i suoi amici.

Come aveva già fatto
Serafino Di Luia, l’attacco ricattatorio a Mario Tedeschi è rivolto, in realtà,
a persone di ben altro livel­lo e potere, fra questi ultimi c’è il prefetto Umberto Federico D’Amato.

A quanti “giochi sporchi
di potere” abbiano partecipato gli “avan­guardisti” lo conferma
l’ennesima minaccia, basata sul ricatto, avanzata da Tilgher ed amici nel mese
di giugno 1975.

In un bollettino che, umoristicamente, è qualificato
di “contro-informazione nazionale rivoluzionaria”, gli
“avanguardisti” scrivo­no:

“Chi pensasse ad un indolore provvedimento
amministrativo contro Avanguardia nazionale ha sottovalutato la forza e la
decisione di questa organizzazione. Se poi si arriverà al processo, Avanguardia nazionale chiamerà sul banco
dei testimoni ministri, uomini politi­ci, segretari di partito, corpi separati
e quanti in un modo o nel­l’altro, hanno prima cercato l’amicizia di
Avanguardia nazionale e, poi, visti respinti i tentativi, hanno deciso la fine
di una orga­nizzazione non incasellabile nei giochi di sistema”.

Le millanterie di
“Avanguardia nazionale” qualcosa ottengono per­chè qualche
“amico” fa filtrare, nel mese di settembre del 1975, sul­la stampa la
notizia che sono pronti 64 mandati di cattura per gli “avanguardisti”
e l’operazione deve essere necessariamente postici­pata di un paio di mesi.

Quando, poi, si
arriverà al processo, Tilgher ed amici non daran­no seguito ad alcuna minaccia
e saranno premiati
con una sentenza che commina pene irrisorie e li rimette in libertà, dopo poco più di sei
mesi di detenzione.

Il ruolo di mediatore
svolto da Mario Tedeschi fra il servizio se­greto civile e “Avanguardia
nazionale” è una certezza data dal suo coinvolgimento nell’operazione
“manifesti cinesi” del gennaio del 1966; dai finanziamenti elargiti per
conto del ministero degli In­terni agli “avanguardisti” che,
ufficialmente, erano su posizioni estremiste, lontane dalla linea moderata del
direttore de “Il Bor­ghese”; dal ruolo svolto – e denunciato dai
fratelli Bruno e Serafi­no Di Luia il 5 marzo 1970  —  nell’infiltrazione dei militanti di “Avanguardia”
nell’ambiente anarchico nell’estate del 1968 e, successi­vamente; dall’essere divenuto, per queste ed altre ragioni, la figura da
ricattare pubblicamente da parte di “Avanguardia nazionale” e de­gli
“avanguardisti” in difficoltà.

Il circolo “anarchico” “22 marzo” si palesa, quindi,
come una “di­versione strategica” ispirata e controllata dal servizio segreto ci­vile che
ha riunito quattro confidenti e quattro sprovveduti in un gruppo che aveva il
compito di screditare il movimento anarchico sia con la propaganda che con
attentati dinamitardi nei quali riu­scire a coinvolgere anche persone che erano
realmente anarchiche.

È sintomatico della
divisione dei
compiti fra i gruppi della estrema destra che quelli di “Ordine nuovo” si siano infiltrati
ne­gli ambienti marxisti-leninisti e quelli di “Avanguardia
nazionale” fra gli anarchici e tutti insieme fra i “cinesi”, fra
i quali opera­va anche Robert Leroy, braccio destro di Yves Guerin Serac.

Una “diversione
strategica” condotta in modo grossolano visto che il suo uomo di punta,
Pietro Valpreda, è stato cacciato dal circolo anarchico de “Il Ponte della
Ghisolfa” di Milano, da quello “Bakunin” di Roma, tacciato di
confidente di polizia e delatore, il tutto prima degli attentati del 12
dicembre 1969.

Una “diversione
strategica” che si è rivelata un fallimento e si è trasformata in un
successo solo dopo la strage di piazza Fontana, quando la sinistra tutta ha
deciso di proclamare Pietro Valpreda “anarchico” e, in quanto tale,
perseguitato innocente dalla giusti­zia borghese.

Un fenomeno di
isteria collettiva che meriterà di essere appro­fondito.

Pietro Valpreda non è riconosciuto come
anarchico – ed i
suoi ami­ci con lui – dal movimento anarchico italiano.

Se Licia Pinelli lo
indica come estromesso dal mondo anarchico nell’aprile del 1969, il 27 dicembre
1969, il giornale anarchico “Umanità nova” scrive che Pietro Valpreda “era
l’animatore, circon­dato da un gruppo di giovani esaltati, di un circolo
sedicente anar­chico dove pullulavano elementi squadristi, fascisti del culto
del­la violenza distruttiva”.

Altrettanto netto il
giudizio ufficiale della Federazione anarchi­ca italiana (Fai) riportato dalla
rivista

“Panorama”
nell’articolo intitolato “Le prove e i dubbi” del 22 gennaio 1970:

“La Fai,
Federazione anarchica italiana, ha detto di Pietro Valpreda e dei frequentatori del circolo ’22 marzo’: ‘Non li conoscia­mo.
Per quel che ci riguarda non sono anarchici'”.

E, infine, quando il quotidiano “Il Manifesto” annuncia che
candi­derà Pietro Valpreda alle elezioni politiche del maggio 1972, vari gruppi
anarchici fanno sapere alla stampa che non lo voteranno.

Insomma, Pietro
Valpreda è
“anarchico” solo per coloro che non sono mai stati anarchici e con
l’anarchia non hanno mai avuto nulla da spartire.

Se Mario Merlino e Pietro Valpreda hanno operato contro gli anar­chici,
il riscontro si deve necessariamente trovare anche nei loro verbali
d’interrogatorio, resi successivamente al loro arresto.

Sul conto del primo,
il 12 novembre 1997, il prefetto Umberto Improta dichiara al giudice istruttore veneziano Carlo Mastelloni:

“Il Merlino fece alcune ammissioni sull’attività
del Circolo e ciò mi destò qualche perplessità sulle dichiarazioni, che comunque riportai
integralmente nel verbale trasmesso all’Autorità giudizia­ria: aveva buttato
troppo verso gli anarchici”.

Il suo amico Pietro
Valpreda non è da meno.

Il 16 dicembre 1969, Valpreda guida la polizia alla ricerca del de­posito
di esplosivi, senza però individuarne il luogo, di cui ave­va già parlato Mario
Merlino.

Dichiara, pertanto:

“Ricordo che Ivo Della Savia, prima di partire da Roma l’ultima vol­ta, passando
per la via Tiburtina all’altezza della Siderurgica romana e della ditta Decama, a circa 200-300 metri dal
Silver cine, mi indicò un tratto di boscaglia dicendo: ‘Non molto lontano
dalla stra­da, ai piedi di una pianta non molto alta, tengo della roba conser­vata’…”.

Per essere sicuro di
non essere frainteso dai poliziotti l'”anar­chico” Valpreda specifica:

“Non mi precisò di che cosa si trattasse. Comunque con la
parola roba noi intendiamo fare riferimento a esplosivo, detonatori e micce”.

Come difesa degli
anarchici e del compagno Ivo Della Savia è piuttosto singolare.

Il 9 gennaio 1970, Pietro Valpreda spiega il
riconoscimento effettuato dal taxista Cornelio Rolandi avanzando, per la prima
volta, l’ipotesi di un sosia. Asserisce,
difatti, di aver visto nella pri­mavera del 1969 un tale “Gino” che
parlava al bar “Gabriele” di rifornirsi di armi, di esplosivi e di
altro materiale connesso.

Fedele al suo ruolo
di “anarchico”, Pietro Valpreda si precipi­ta a chiarire ai
poliziotti che, per carità, non si trattava di un fascista, di un capitalista,
di un democristiano ma di un anar­chico.

Il 13 gennaio 1970, Tommaso Gino Liverani, scortato da un
gruppo di amici si presenta in Questura, a Milano, prevenendo un arresto
scontato dopo le dettagliate dichiarazioni di Pietro Valpreda, e viene
arrestato per reticenza.

Il “sosia” di
Pietro Valpreda si farà un mese di carcere circa e, dopo la scarcerazione,
militerà nelle Brigate rosse.

Più che due
“anarchici” imputati, Merlino e Valpreda si presenta­no come due
testimoni della pubblica accusa contro gli anarchici, ma mai, nemmeno una
volta, i due si accuseranno reciprocamente, an­zi chi prende le difese di Mario
Merlino è proprio l'”anarchico” Valpreda che gli conserverà la sua
amicizia per tutta la vita va­nificando i tentativi di quanti cercano di
presentare Merlino co­me colui che ha “incastrato” il Valpreda e lo
ha candidato all’er­gastolo come responsabile della strage di piazza Fontana.

L’amicizia fra i due,
la loro comune difesa, la sintonia nell’accusare i compagni anarchici, avvalorano la
sensazione che i due ab­biano agito sempre di comune accordo e che se Pietro
Valpreda nega che Mario Merlino sia stato infiltrato da Avanguardia nazionale
(e dal ministero degli Interni) fra gli anarchici, noi possiamo ragio­nevolmente
negare che lui –
Valpreda – sia mai stato un
anarchico.

Del resto, i
componenti di una “diversione strategica” come il circolo “22
marzo” non sono stati abbandonati dagli uomini del ser­vizio segreto
civile.

La prima difesa
attuata dalla Questura di Roma nei loro confronti è rappresentata dalla pretesa
che l’agente di Ps infiltrato nel cir­colo, Andrea Politi, non ha più redatto
rapporti a partire dal 20 novembre 1969.

Solo in un Paese sventurato come il nostro, dove la magistratura è quella
che tutti conosciamo, questa affermazione non ha avuto con­seguenze per i
funzionari della Questura di Roma.

Difatti, è una nota comica, se non fosse inserita in una tragedia, la
pretesa che un agente di polizia infiltrato in un covo di everso­ri anarchici
smetta di riferire ai suoi superiori quanto fanno e di­cono a tre settimane di
distanza dagli attentati del 12 dicembre.

Quali informazioni sul conto di Mario Merlino, Pietro Valpreda ed i loro amici ha
occultato per sempre la Questura di Roma?

In apparenza grottesco anche il comportamento dei funzionari dell’Ufficio politico di
Roma che, quando Mario Merlino chiama in cau­sa per sostenere il suo alibi i
congiunti di Stefano Delle Chiaie, Leda Minetti ed il figlio Riccardo, asserendo di essere
stato a ca­sa loro il pomeriggio del 12 dicembre, sanno che mente perchè l’abi­tazione
della donna ed un secondo appartamento nella disponibilità del Delle Chiaie
erano sotto il controllo visivo degli agenti dello stesso Ufficio politico che, ovviamente,
no hanno mai
visto Mario Merlino presentarsi a casa di Leda Minetti.

A quel punto, però,
la Questura di Roma se ne lava le mani e la­scia che Stefano Delle Chiaie, Leda
e Riccardo Minetti siano inter­rogati dai carabinieri.

È un modo per
guadagnare tempo concordato fra la Questura ed i carabinieri.

Per quali ragioni?

Come abbiamo visto,
il 10 aprile 1970, i fratelli Bruno e Sera­fino Di Luia incontrano il questore
Silvano Russomanno, in forza alla divisione Affari riservati. Hanno promesso – e non dubitiamo che
l’abbiano fatto –
rivelazioni interessanti sugli attentati del 12 dicembre 1969 a Roma e a Milano e su quelli ai treni dell’8-9 agosto
1969.

Nessuno ha mai saputo
cosa abbiano rivelato i due fratelli al funzionario del servizio segreto civile.

C’è altro.

Il 15 dicembre 1969, a Milano, il
brigadiere di Ps Vito Panessa arresta Pietro Valpreda, alle ore 11.30.

La sera dello stesso
giorno, il brigadiere Vito Panessa è presen­te all’interrogatorio di Giuseppe
Pinelli in Questura e, secondo un giornalista, può essere stato proprio lui a sferrare un pugno
all’anarchico
determinandone
la caduta dalla finestra e la morte.

Panessa si dimette
per ragioni mai chiarite dalla polizia, ma non esce dalla vicenda di piazza
Fontana perchè due giorni prima dell’interrogatorio, dinanzi alla Corte di
assise di Catanzaro, di Pietro Valpreda tira fuori un appunto informale nel
quale è scritto che, al momento dell’arresto il 15 dicembre 1969, il presunto
anar­chico aveva dichiarato di essere stato malato per tre giorni.

L’appunto informale,
redatto di suo pugno dal brigadiere Vito Pa­nessa, non era mai stato esibito ai
superiori, non era stato tra­smesso ai magistrati, era rimasto nelle tasche del
sottufficiale che si ricorda della sua esistenza due giorni prima dell’interro­gatorio
di Pietro Valpreda.

L’intervento del
brigadiere Vito Panessa contribuirà in modo de­terminante all’assoluzione di
Pietro Valpreda.

A questo punto, è
doveroso porsi una demanda: perchè è stato ucci­so Giuseppe Pinelli?

Da quanto abbiamo scritto, su basi inoppugnabili,
Giuseppe Pinelli
non
poteva aver agito insieme a Pietro Valpreda quel 12 dicembre 1969 perchè lo aveva
cacciato dal suo circolo “Il Ponte della Ghisol­fa” alla fine di
aprile del 1969, lo disprezzava come confidente di polizia e delatore.

Uccidere Giuseppe
Pinelli per “incastrare” Pietro Valpreda è tesi non sostenibile.

È più realistico
pensare, anche alla luce delle dichiarazioni di Licia Pinelli, che Giuseppe
Pinelli avrebbe denunciato il ruolo di provocatore, confidente di Questura e
delatore di Pietro Valpre­da, ponendolo sullo stesso piano di Mario Merlino, e
provando che il circolo “22
marzo” era uno strumento del ministero
degli
Inter­ni e non un gruppo anarchico.

Benché possa
dispiacere a molti, l’anticomunismo degli anarchici italiani che non avevano
dimenticato il massacro degli anarchici in terra di Spagna per mano dei
comunisti italiani, uno dei quali, Luigi Longo, era nel 1969 segretario nazionale
del Pci, ha
reso possibile una “collaborazione” a titolo individuale fra
anarchici e “neofascisti”. 

Giuseppe Pinelli che
era in ottimi rapporti con un ex combattente in Spagna, non rifuggiva
dall’avere rapporti con Nino Sottosanti, ma aveva emarginato Pietro Valpreda.

La sua testimonianza
avrebbe demolito
l’immagine romantica dell’”anarchico” Pietro Valpreda perseguitato dalla giustizia borghe­se,
così che la sua morte ha, viceversa, consentito di creare la leggenda
dell'”anarchico” Valpreda vittima del sistema ed eroe dell’anarchia.

Gli apparati segreti
dello Stato uccidono quanti possono mettere in pericolo, denunciandoli, i loro
piani, possono testimoniare con­tro di loro, non certo chi possono portare,
innocente, in un’aula di giustizia senza temere alcuna conseguenza.

Giuseppe Pinelli,
invece, rappresentava un pericolo per Pietro Valpreda e gli
“anarchici” del circolo “22 marzo”, ovvero- per
quel servizio segreto civile che, in concorso con altri apparati dello Stato,
aveva sviluppato un’operazione di infiltrazione a sinistra utilizzando i
cosiddetti “neofascisti” alle proprie dipendenze.

In molti,
sicuramente, troveranno eccessivamente ardita la ipote­si che la morte di
Giuseppe Pinelli abbia giovato a Pietro Valpreda, a Mario Merlino e ad Umberto
Federico D’Amato, ma i fatti ci dico­no che così è stato, a prescindere dalla
volontarietà dell’aggres­sione a Giuseppe Pinelli all’interno della Questura di
Milano.

A distanza di 42 anni dai fatti, ci sono testimoni che non sono mai stati
interrogati come, oltre ai fratelli Bruno e Serafino Di Luia, Guido Paglia, oggi vicedirettore generale della Rai[3].

Lo abbiamo visto
mentre pagava la benzina agli “anarchici” che si stavano recando al congresso di
Carrara, il 30
agosto 1968, lo ritroviamo come testimone dell’alibi di Stefano Delle Chiaie
per il pomeriggio del 12
dicembre 1969, lo reincontriamo ancora il 10 gennaio 1970  quando viene ritrovato il suo
portafoglio, rubato qual­che giorno prima, con all’interno un elenco di
nominativi e numeri telefonici del circolo anarchico “Bakunin” di via
Baccina n. 35, ed un secondo elenco di saponette esplosive, rotoli di miccia,
de­tonatori e capsule elettriche con, al fianco di ogni voce, indicata la
quantità di materiale presente.

Gli elenchi sono
stati redatti da Mario Merlino, come dallo stes­so ammesso il 30 giugno 1973, e
provano che Guido Paglia, stretto collaboratore di Stefano Delle Chiaie,
manteneva i contatti con Mer­lino mentre questi fingeva di essere anarchico.

Guido Paglia, mai
inquisito, forse nemmeno mai interrogato a do­vere sui fatti che lo hanno visto
protagonista, è uno di quelli che la verità sull’operazione di infiltrazione
fra gli anarchici la conosce bene e, di conseguenza, molto ha da dire sulla
strage di piazza Fontana e gli attentati a Roma del 12 dicembre 1969.

Oggi,costui è
vicedirettore generale della Rai e, ovviamente, si occupa anche dei documentari
che vengono fatti su piazza Fon­tana, in nessuno dei quali compare il suo nome
o traspare il suo ruolo.

Qualcuno, dopo 42
anni, vuole rivolgere la sua attenzione a Gui­do Paglia?

Se nel carcere di
Opera, fra le tante cose fatte contro chi scri­ve in 18 anni di permanenza in
questo istituto, si giunge a rubare un plico raccomandato per eliminare un
documento su piazza Fontana, vuol dire che la verità fa ancora paura.

Ma noi non abbiamo
paura di dirla …

E quello che è stato
sottratto lo riscriveremo in forma ancora più dettagliata perchè, per noi,
strage di Stato non è uno slogan ma una realtà storica che non è passata di
attualità, non appartiene al passato, ma fa parte del presente di tutti noi e
non si potrà mai edificare un futuro se non si ha il coraggio di affermare la
verità, la sola arma che consentirà di spazzare via questa classe dirigente e
di renderci la libertà.
 
Il finto anarchico Pietro Valpreda
 
[1] Vinciguerra ha poi
approfondito questo episodio nell’articolo IL
PASSATO CHE NON PASSA
, pubblicato qui: http://www.archivioguerrapolitica.org/?p=1628
[2] Si riferisce a questo
blog, dove poi il saggio è stato pubblicato: https://www.andreacarancini.it/2011/12/vincenzo-vinciguerra-piazza-fontana-ed/
[3] Attualmente in pensione.
4 Comments
    • Anonimo
    • 26 Febbraio 2013

    Egr sig Carancini,
    Le scriviamo per chiederLe l'autorizzazione a riprendere il presente – interessantissimo – contributo di Vinciguerra sul nostro sito, nel quale ci proponiamo di raccogliere tutti i suoi lavori.
    Speranzosi di un suo assenso, La ringraziamo per l'attenzione.
    Distinti saluti
    http://www.archivioguettapolitica.org

    Rispondi
  1. D'accordo.

    Rispondi
  2. Desidero portare a conoscenza dell'opinione pubblica che, dopo la pubblicazione di questo articolo, l'ultima lettera in ordine di tempo da me inviata a Vinciguerra (alla fine di febbraio) a quanto pare non è stata consegnata al destinatario (non ho mai ricevuto la ricevuta di ritorno della raccomandata). Se qualcuno ha occasione di contattare Vinciguerra glielo dica pure! Nella lettera in questione, tra l'altro, gli chiedevo delucidazioni sul libro di Roberto Gremmo "Il triangolo delle bombe" e sugli eventuali rapporti tra Pacciardi e Valpreda…

    Rispondi

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