Robert Faurisson: le vittorie del revisionismo (seguito)

Robert Faurisson: le vittorie del revisionismo (seguito)

Faurisson con P.-E. Blanrue (a destra)



Dal professor Faurisson ricevo e pubblico:

Robert FAURISSON                                                                          
11 settembre 2011
 

Le Vittorie del revisionismo (seguito) 

            L’11
dicembre 2006 firmavo uno studio di una ventina di pagine intitolato “Le
Vittorie del Revisionismo” (http://robertfaurisson.blogspot.it/2006/12/le-vittorie-del-revisionismo.html). In esso presentavo, a titolo di esempi,
venti vittorie ottenute dai revisionisti sul piano strettamente storico e
scientifico, mentre sul piano mediatico e quello giudiziario la parte avversa
continuava ad occupare quasi tutto il terreno. I religionari dell’“Olocausto”
nascondevano le loro sconfitte e continuavano ad ingannare il gran pubblico
come facevano dal 1945. Ma ecco che, improvvisamente, lo sviluppo accelerato di
Internet e l’evoluzione della situazione internazionale, così incresciosa per
lo Stato d’Israele e per gli Stati Uniti, a poco a poco hanno cambiato le carte da gioco. Le vittorie del revisionismo
hanno cominciato a far parlare di sé. In particolare, si sono moltiplicati i
siti, i forum ed i blog in cui si è potuto apprendere prima le ammissioni fatte
ai revisionisti da alcuni storici dell’“Olocausto”, e poi le vere e proprie
capitolazioni a cui sono stati costretti alcuni di questi storici.
Innanzitutto, fin dal 1979, un gruppo di 34 professori universitari francesi
aveva firmato una dichiarazione comune che la diceva lunga sulla loro
incapacità a descrivere il funzionamento della “magica camera a gas” (Céline);
costoro, in modo pietoso, avevano dichiarato:
“Non bisogna chiedersi come, tecnicamente, sia stato possibile un tale
assassinio di massa. È stato possibile tecnicamente perché è avvenuto” (Le
Monde
, 21 febbraio 1979, p. 23). Nel 1985, Raul Hilberg, il più
illustre storico dell’“Olocausto”, finiva col riconoscere che in fondo non si
aveva in mano nessuna prova della reale esistenza di un ordine, di un piano, di
una qualsiasi organizzazione che avesse come mira la distruzione fisica degli
ebrei d’Europa e, volendo però continuare a sostenere la finzione, decideva di
ricorrere a spiegazioni stupefacenti che rientrano nel campo di ciò che si
potrebbe chiamare “la parapsicologia di gruppo”) (vedere qui sotto). Nel 1995 Jean-Claude
Pressac, l’uomo ligio a Serge Klarsfeld, deponeva definitivamente le armi e
firmava un atto di resa (vedere qui sotto). Negli anni successivi si è potuto
constatare negli storici dell’“Olocausto” una sorta di diserzione o di disfatta generalizzate: fingendo di ignorare ciò che nel 1968
la storica ebrea Olga Wormser-Migot, nella sua tesi fondamentale, era costretta
anch’essa a chiamare “il problema delle camere a gas” e passando sotto silenzio
numerosi altri “problemi” storici dello stesso genere, costoro si
accontentavano di ripetere le affermazioni meramente gratuite dei giudici di
Norimberga e, per quanto riguarda la maggior
parte di essi, non si arrischiavano più a cercare le
prove storiche e scientifiche del loro “Olocausto”. Ma all’inizio dell’anno
2007 un solo ricercatore ebreo rimaneva sulla pista, colui che da parte mia
chiamavo “l’ultimo dei Mohicani ebrei”; in questo modo mi riferivo a Robert Jan
van Pelt. Orbene, ancora una volta, la questione era destinata a concludersi
con una specie di capitolazione. Come si vedrà più avanti, il 27 dicembre 2009
il nostro autore concludeva le sue lunghe ricerche con la seguente
constatazione: per quanto concerne Auschwitz, quasi tutto di ciò che “sappiamo”
su questo campo (capitale dell’“Olocausto”, visitata da milioni di credenti)
non trova la sua prova… ad Auschwitz; ne traeva la conclusione che era meglio
non spendere più tanti soldi per custodire un tale posto; la natura vi dovrebbe
riassumere i suoi diritti! Si capisce l’imbarazzo di questo ricercatore: L’Express gli piacerebbe veder sparire
le pure e semplici costruzioni per turisti come quella del crematorio di
Auschwitz I: “Tutto lì è falso”, aveva finito col constatare nel 1995 lo
storico Eric
Conan (L’Express, 19-25 gennaio 1995
,
p. 68, così come al punto 16 del testo a http://robertfaurisson.blogspot.it/2006/12/le-vittorie-del-revisionismo.html; vedi pure, ugualmente, in inglese,
l’articolo di Mark Weber http://www.ihr.org/jhr/v15/v15n1p23_Weber.html). 

            Dal
1979 al 2009, cioè durante
30 anni, i sostenitori della tesi autorizzata hanno così fallito nei loro
tentativi di rispondere ai revisionisti sul piano della storia, della scienza,
della ricerca concreta e dello studio attento dei documenti e delle
testimonianze. Per compensare questo fallimento gli adoratori dell’“Olocausto”
hanno cercato rifugio nelle risorse dell’immigrazione o della credenza; da qui un proliferare di romanzi, di
“testimonianze” notoriamente false, di lavori teatrali, di film, di cerimonie,
di pellegrinaggi. Ed è così che lo “Shoah Business” e la “Religione
dell’Olocausto” hanno sommerso il mondo coi loro prodotti e con le loro
fantasmagorie.

          
Da parte loro, sentendo ormai di avere il vento in poppa, i revisionisti
persisteranno a calcare la strada che li ha visti impegnati sin dalla fine
degli anni quaranta, particolarmente Maurice Bardèche e Paul Rassinier. Autori
revisionisti o attivisti del revisionismo sono apparsi in numerosi paesi,
soprattutto in Europa e negli Stati Uniti. Il più importante di questi autori è
senza dubbio l’Americano Arthur Robert Butz; per non compromettere la sua
sicurezza personale, eviterò di nominare qui il più straordinario degli
attivisti. Ho in mente molti altri nomi di autori in particolare di origine
tedesca, austriaca, belga, spagnola, francese, italiana, svizzera, canadese,
australiana o sudamericana. Relativamente importante è la lista dei
Nordamericani che hanno partecipato in passato o che, come Bradley Smith e i
suoi amici, partecipano oggi alla battaglia revisionista.

            Un’immagine
ossessiona i nostri contemporanei, quella dei cumuli di cadaveri scoperti alla
liberazione dei campi di concentramento tedeschi nel 1945.
In questa immagine assillante credono di vedere la prova
dell’efferatezza dei “Nazisti” e, perciò, istintivamente si fanno l’idea che i revisionisti sono essenzialmente
persone che si assumono il compito di riabilitare Adolf Hitler. Vorrei
sperare che queste persone inesperte che, di primo acchito, chiudono così il
loro cuore e il loro spirito davanti al revisionismo lasciandosi portare
dall’onda emotiva si mettano a riflettere sul reale significato di quelle fotografie e di quei
film, in cui credono di vedere le prove, che le
sconvolgono, delle “atrocità naziste”. 

Le fotografie ed i film che mostrano i
cadaveri
 

            Anch’io,
quando ero giovane, ero rimasto sconvolto a vedere i morti o i cadaveri
ambulanti del campo di Bergen-Belsen. Lo spettacolo era offerto da un bulldozer
che spingeva verso il bordo di grandi fosse i cadaveri dei detenuti che poi
delle donne delle SS gettavano dentro quelle fosse. Ci veniva mostrato un
medico delle SS, un certo dott. Fritz Klein, piantato a gambe divaricate
proprio al centro di una fossa apparentemente con un atteggiamento
spocchioso, mentre Franz Hössler, un  altro SS, davanti a un camion carico di cadaveri, sembrava
che tenesse un discorso di autocompiacimento. Parecchi anni dopo avrei capito
di essere stato vittima degli artifici di un film di propaganda.

            Nel
corso degli ultimi mesi di una guerra atroce, nel caos in cui era stata ridotta
la Germania, il campo di Bergen-Belsen, brulicante di detenuti provenienti
dall’Est, era stato devastato da un’epidemia di tifo. Nei giorni successivi
alla liberazione di questo campo (15 aprile 1945), allorché i Britannici
avevano in mano il controllo di quei luoghi, migliaia di persone (circa 14
mila?) sarebbero ancora morte, specialmente di tifo. In quello che rimaneva
delle loro città i civili tedeschi si erano ridotti allo stato di trogloditi
che, interrati in buche di fortuna, erano in preda alla fame e al freddo. A
Bergen-Belsen per così dire non c’erano più approvvigionamenti né medicamenti
né mezzi di disinfezione. È in questa situazione disastrosa che l’SS Josef
Kramer, comandante del campo, decise di inviare una delegazione con bandiera bianca
incontro alle truppe del Field Marshal britannico Montgomery per
avvertirle che si stavano avvicinando ad un vasto focolaio d’infezione:
bisognava evitare che i detenuti, una volta liberati, andassero propagando il
tifo nei ranghi dei soldati alleati e tra la popolazione tedesca. Un accordo di
cooperazione veniva concluso tra, da una parte, la Wehrmacht (escluse le SS) e,
dall’altra parte, i responsabili dell’armata britannica. Questi ultimi,
arrivati sul posto, decisero di aprire i carnai, di contare i morti, poi, dopo
il conteggio, di sotterrare questi morti dentro nuove fosse. Effettivamente un
bulldozer spingeva quei cadaveri sul bordo delle fosse ma il conducente era un
Tommy, che io, al pari di folle d’altri spettatori, un tempo avevo scambiato per
un soldato tedesco. Ancora nel 1978, probabilmente per conservare meglio
l’errore nella mente dei lettori, veniva pubblicata una fotografia che
“decapitava” il conducente del bulldozer (Arthur Suzman & Denis Diamond, Six
Million Did Die: The Truth Shall Prevail
, Johannesburg, South African
Jewish Board of Deputies, seconda edizione, 1978, p. 19). Sui bordi delle fosse
le donne SS, a mani nude, erano state costrette a gettare i cadaveri. Quanto al
dott. F. Klein e a F. Hössler, costoro erano stati obbligati a darsi un
contegno apparentemente per illustrare la fierezza che avrebbe ispirato alle SS
la loro pretesa opera di morte. Per fiaccare la sua “arroganza”, alcuni soldati
della “Reale Artiglieria britannica” pestarono di santa ragione Josef Kramer e
poi lo rinchiusero per un’intera notte in una cella frigorifera (dott. G-L
Fréjafon, Bergen-Belsen Bagne Sanatorium, Parigi, Librairie
Valois, 1947, p. 22). Molti altri campi hanno offerto lo spettacolo di tanti
cadaveri e s’immagina facilmente la nausea dei liberatori investiti dall’odore
delle vittime del tifo o della dissenteria che, visto il loro numero, non si
era potuto sotterrarli. 

            Per
prendere un altro esempio di inganno fotografico, tutti i lettori, sul momento,
si sono indignati alla vista dei cadaveri
accuratamente allineati nel campo di Nordhausen; tuttavia alcuni ricercatori
dovevano finire col mostrare che quei morti erano in realtà vittime di un
bombardamento alleato che aveva di mira principalmente le costruzioni della
Blöke Kaserne. Nello stesso momento, a Dachau, a Buchenwald e altrove identici
spettacoli accreditavano la leggenda secondo la quale questi campi, concepiti e
amministrati come “campi della morte”, erano dotati di “camere a gas” omicide con rendimenti quotidiani stravaganti. Fatte le
dovute verifiche, gli storici ufficiali finirono con l’ammettere, sotto la
pressione esercitata da autori revisionisti e specialmente da Paul Rassinier,
l’autore di La Menzogna d’Ulisse,
che a dispetto di tante “testimonianze” di preti, di professori, di medici,
queste pretese “gasazioni” di detenuti non avevano mai avuto luogo (Martin
Broszat, dell’Institut fur Zeitgeschichte di Monaco,
“Keine Vergasung in Dachau [Bergen-Belsen, Buchenwald, …]”, Die Zeit,
19 agosto 1960, p. 16).

Vergogna dei Tedeschi? O degli Alleati? O
della guerra?
 

            Il
giorno in cui Copernico ha dimostrato che il sole non girava intorno alla terra
ma che al contrario la terra girava intorno al sole si è prodotta quella che in
seguito si è presa l’abitudine di chiamare “rivoluzione copernicana”.
L’espressione vuol dire non solo che la realtà può differire dall’apparenza –
cosa che si constata facilmente – ma anche che la realtà può situarsi
all’esatto opposto dell’apparenza. È quello che è avvenuto dopo la guerra quando certi ricercatori si sono resi
conto che molti orrori in un primo momento imputati ai vinti, cioè in Europa
principalmente ai Tedeschi, erano forse in realtà imputabili agli Alleati. Quindi, davanti a tutte quelle fotografie che
inducevano ad esclamare: “Si vergogni la Germania!” sarebbe probabilmente più
giusto dire: “Si vergognino gli Alleati che hanno ridotto la Germania in quello
stato!” o ancora concludere: “Vergogna della guerra e del suo corteo di
abominazioni!”. Addentrandosi in territorio tedesco gli stessi GI erano rimasti
sorpresi dall’estensione dei danni provocati dai bombardamenti della loro
aviazione. Bisogna sapere che Churchill e Roosevelt avevano introdotto una
novità quando, dotando le loro flotte aeree delle capacità adeguate, avevano
intrapreso una guerra sistematica contro i civili, la cui ampiezza non era
ancora mai esistita prima nella storia. Avevano deciso di radere al suolo le
città grandi e piccole, e talvolta anche i villaggi. Dal loro punto di vista
bisognava, col fuoco dal cielo, col bombardamento intensivo delle città e dei
villaggi, col mitragliamento a volo radente sia dei fuggitivi che cercavano di
scappare dalle fornaci, sia dei contadini nei loro campi, rendere la vita
impossibile a tutti i Tedeschi senza eccezioni. Case, ospedali, scuole,
università, uomini, donne, bambini, vecchi,
bestiame, tutto era destinato a sparire. I treni non dovevano più poter
circolare: occorrevano vari giorni per coprire un tragitto che in tempi normali
sarebbe stato di poche ore: si può immaginare
in quale stato arrivavano a destinazione i convogli, per esempio, di internati
che, forzatamente o per scelta, avevano lasciato i campi dell’Est davanti
all’arrivo dei Sovietici. Riflettendo sulla decisione presa da Churchill e
Roosevelt, dobbiamo ammettere che era più facile fare così la guerra ai civili
piuttosto che ai militari. Talvolta, nel campo degli Alleati occidentali, alte
coscienze, specialmente ecclesiastiche, levavano proteste contro tale barbarie, di cui i bombardamenti di “Dresda” restano
l’esempio emblematico. Ma la propaganda, da parte sua, imponeva l’obbligo di
distruggere tutto ciò che vicino o lontano rappresentava Satana o, per i
propagandisti ebrei, Amalek. A dire il vero, in seguito, in Giappone, in
Vietnam, in Iraq ed in altri angoli del mondo, gli Americani sono stati condotti a fare questo stesso tipo di
guerra devastatrice.

Le mascherate giudiziarie
dei vincitori che giudicano i vinti
 

            Personalmente,
ponendomi, se lo posso dire, all’estremo
centro
delle opinioni in materia di politica o di storia, non sarei in
grado di condannare il fatto che nel corso di una guerra un tale belligerante,
come in una sorta di competizione in materia, abbia cercato di inventare ancora più numerosi strumenti di morte che
l’avversario. Mi accontenterei di dire che, secondo me, essendo ogni guerra
una macelleria, il vincitore è un buon macellaio e il vinto un meno buon
macellaio; invece, alla fine di una guerra, il vincitore può a rigore impartire
al vinto lezioni di macelleria ma non lezioni di diritto, di giustizia o di
virtù.
Tuttavia, è proprio quello che è accaduto al processo di Norimberga
(1945-1946) e nel caso di mille altri processi dello stesso calibro, e questo
fino ai nostri giorni in cui si vedono delle organizzazioni ebraiche esigere
che persone nonagenarie ammalate vengano trasportate in barella davanti ai
tribunali per supposti crimini che risalgono generalmente a settant’anni prima
e per i quali non c’è nessuna prova e neppure talvolta il
minimo testimonio. Semplicemente l’accusato si era forse trovato nel
posto sbagliato nel momento sbagliato; per esempio, sarebbe potuto trovarsi a
Treblinka, campo nel quale, senza la minima prova, si osa affermare che
funzionavano, secondo alcuni, delle “camere a vapore” omicide [steam
chambers
] (documento PS-3311), secondo altri, delle “camere a gas” omicide;
quanto alle “testimonianze” su questo campo, come su molti altri, esse sono
vaghe, contraddittorie, e mai che ci si sia data la pena di verificarle, cosa
che, come l’hanno provato alcuni ricercatori, tipo l’Australiano Richard Krege,
era tuttavia possibile e dava ragione ai revisionisti (“Treblinka Ground Radar
Examination Finds no Trace of Mass Graves”, in The Journal of Historical
Review
, maggio-giugno 2000 (vol. 19, n° 3), p. 20: http://www.ihr.org/jhr/v19/v19n3p20_radar.html).

            A
Norimberga i vincitori hanno giudicato i vinti: erano dunque giudici e parte in
causa; avevano deciso in anticipo che all’occorrenza si sarebbe fatto a meno di
prove vere e proprie: “il Tribunale non sarà vincolato dalle regole tecniche
relative alla produzione delle prove […]. Il Tribunale non imporrà che si
adduca la prova di fatti di pubblica notorietà ma li riterrà come acquisiti
[…]” (articoli 19 e 21 dello Statuto [Charter] del Tribunale militare
internazionale. Inoltre, la giustizia dei vincitori violava gli usi della
giustizia normale ignorando la separazione dei poteri (hanno partecipato alla
redazione dello Statuto uomini che sarebbero diventato giudici e procuratori),
istituendo la responsabilità collettiva (ogni membro di un gruppo dichiarato
criminale era per ciò stesso considerato anch’esso criminale), praticando la
retroattività delle leggi e negando ai condannati ogni possibilità di appello.
Nessun rappresentante delle nazioni neutrali figurava tra i giudici e i
procuratori. Con la maggiore serietà di questo mondo i Sovietici, col consenso
dei giudici americani, britannici e francesi, avevano particolarmente la faccia
tosta di rimproverare ai Tedeschi di
aver proceduto a deportazioni e di avere fatto uso di campi di concentramento o
di campi di lavoro forzato.
Ricorrendo a una specificazione
complementare dell’articolo 19 dello Statuto, il procuratore sovietico otteneva
dai giudici che fosse negato ogni esame approfondito del crimine di Katyn,
imputato ai Tedeschi. Quanto al principale giudice sovietico, il Maggior
Generale I. T. Nikicenko, egli aveva ricoperto l’ufficio di procuratore nel
1936 nelle mascherate giudiziarie precedenti chiamate “processi di Mosca”. Il
che non gli aveva impedito di essere reclutato a Norimberga.

            In
fondo, se si tengono presenti nella mente i crimini perpetrati contro il popolo
tedesco per mezzo di una guerra aerea che mirava allo sterminio dei civili, se
ci ricordiamo delle deportazioni (dette spostamenti) delle minoranze tedesche
dell’Europa orientale e centrale, se a ciò si aggiungono gli stupri continui
delle donne e delle ragazze tedesche (tra gli altri, fu questo il caso, all’età
di dodici anni, di Hannelore Kohl, futura moglie del cancelliere; vedere
Heribert Schawn, Die Frau an seiner Seite / Leben und Leiden der
Hannelore Kohl
; Monaco, Wilhelm Heyne Verlag, 2011, p. 54-58), se si
tengono a mente i saccheggi, l’accaparramento ufficiale da parte degli Alleati
dell’argento, dell’oro, del platino, dei gioielli, dei valori, di alcune
proprietà, delle banche, dei musei, dei brevetti scientifici ed industriali e
se, per coronare il tutto, ci si rende conto del fatto che a Norimberga il
processo ai dirigenti tedeschi ha meritato di essere chiamato una mascherata o,
secondo le parole di Harlan Fiske Stone, presidente della corte suprema degli
Stati Uniti (Chief Justice of the Supreme Court of the United States),
una “high-grade lynching party
(una sofisticata operazione di linciaggio), non si può che trovare deplorevole
il fatto che, dopo 66 anni, si persiste nelle scuole, all’università e nei
media a predicare che, durante l’ultima guerra mondiale, i vincitori hanno
rappresentato il Bene ed i vinti, il Male.

Elie Wiesel: un teste quanto mai fallace

            Elie
Wiesel incarna idealmente questa incomprensione della natura umana, che
dappertutto, in realtà, è fatta d’una
combinazione di Bene e di Male. Tale
incapacità lo induce, per sostenere la tesi che il popolo d’Israele è il sale
della terra e patisce il Male più di qualunque altro popolo, a mentire
sfacciatamente, a predicare l’odio dell’avversario e a chiedere
instancabilmente che si vada in qualche modo a sputare sulle tombe dei vinti.
Nel gennaio 1945 aveva avuto insieme al padre la possibilità di scelta, offerta
loro dai Tedeschi, tra il restare ad Auschwitz fino all’arrivo dei Sovietici o
l’essere trasferiti in un campo ubicato all’interno della Germania; tutti e
due, dopo matura riflessione, avevano scelto di partire insieme ai loro
“sterminatori” piuttosto che attendere i loro “liberatori”. Arrivato a
Buchenwald, dove il padre sarebbe morto di dissenteria e dove i Tedeschi
sembrava uccidessero quotidianamente 10.000 persone (Stephan Kapter, “Author,
Teacher, Witness”, Time Magazine, 18 marzo 1985, p. 79), non per
questo gli veniva meno l’occasione di giocare, ogni tanto, a scacchi (Jorge Semprún e
Elie Wiesel, Se taire est impossible, Parigi, Arte Editions,
1977, p. 12). In E. Wiesel si notano molti tratti tipici del clown che sa che
più esagererà, più sarà apprezzato dal pubblico. Il 7 febbraio 1996 riceveva i
distintivi di dottore honoris causa dall’Università Jules Verne della
Piccardia. Nel numero del 9 febbraio Le Courrier Picard scriveva
a proposito della conferenza tenuta da E. Wiesel e delle sue risposte alle
domande rivoltegli nella sala: “Una domanda urge:
‘Che ne pensa dell’emergenza delle correnti revisioniste e negazioniste?’
[risponde E. Wiesel:] ‘Si tratta di antisemiti virulenti, viziosi, organizzati
e ben finanziati. Il giorno in cui ho ricevuto il Premio Nobel [il 10 dicembre
1986 ad Oslo], ce n’erano alcune centinaia nella strada che manifestavano
contro di me. Io non gli accorderei mai la dignità del dibattito. Sono degli
individui moralmente malati. Credo di saper combattere contro l’ingiustizia, ma
non so combattere contro la laidezza’”. Pierre Guillaume e Serge Thion, che mi
accompagnavano a Oslo nel 1986, possono attestarlo insieme a me: il numero di
questi manifestanti è stato rigorosamente uguale a zero. La verità è che insieme a questi due miei
amici revisionisti avevamo distribuito quel giorno alcune copie in inglese e
svedese (di facile lettura per i Norvegesi) del mio volantino su “Un grand faux témoin :
Elie Wiesel” (riprodotto nei miei Ecrits révisionnistes (1974-1998),
p. 606-611, così come a http://robertfaurisson.blogspot.com/1986/03/un-grand-faux-temoin-elie-wiesel.html). All’entrata della sala dove si
stava per fare la consegna del premio, con un’azione rapidissima, avevamo
distribuito il testo ad una quarantina di persone, quindi a nostra volta
eravamo entrati nella sala dove, da parte mia, a fatica mi sono trattenuto
dallo scoppiare a ridere quando il candidato al premio si è messo ad intonare
non so quale canto, forse ebraico ma sicuramente di effetto comico. All’uscita,
il filosofo miliardario Bernard-Henri Lévy accompagnava al fianco sinistro Elie
Wiesel e lanciava un’occhiata torva verso di noi.

 Bisogna ritornare alla cura
dell’esattezza

            Ma
personalmente io ho fatto un sogno: forse verrà un giorno in cui, dopo la
proiezione, imposta a tutti i ragazzi di Francia, di Notte e nebbia (film
classico di propaganda firmato da Alain Resnais), il maestro, invece di nutrire
nell’allievo la tendenza all’indignazione irriflessa e al giudizio temerario,
lo inviterà alla riflessione. Gli insegnerà a valutare la distanza che ci può
essere, in questo film come in molti altri documentari-documentatori, tra
l’immagine ed il commento. Le immagini che ci vengono proposte, che cosa
significano esattamente? Che cosa vogliono dire quegli orrori, quelle pile di
cadaveri, quel bulldozer? Quella
stanza di calcestruzzo dal “soffitto con solchi fatti dalle unghie” su quale
perizia criminale ci si fonda per chiamarla una “camera a gas”, cioè un
mattatoio chimico per esseri umani? Dove si è mai visto che delle unghie (cioè
della cheratina) possano “lasciare solchi” in una superficie di calcestruzzo? Alla vista di tanti cadaveri, chi incriminare? Il vinto? O
molto più semplicemente la guerra col suo inevitabile corteo di orrori? O
ancora, a ben riflettere, in questo caso preciso, non sarebbe la spietata
politica bellica attuata dal vincitore? Più tardi, ci sarà sempre tempo di insegnare
sia all’adolescente, sia all’adulto che quell’allievo sarà diventato che, come
troppo spesso nell’avventura umana, “la prima vittima di una guerra è la
verità”, che “è il vincitore che scrive la storia”, che “la giustizia giace
volentieri nel letto del vincitore” e che, secondo la formula di Céline, “il
deliro di mentire e di credere si attacca come la rogna”
. Sì, menzogna e
credulità vanno sovente di pari passo. Da questi due mali bisogna cercare di
premunirsi e di guarire. A questo scopo è necessario, prima di pronunciare un
giudizio, lavorare, riflettere, scrutare, soppesare poi, di nuovo, soppesare,
scrutare, riflettere e lavorare ancora. Non c’è scuola più rude di quella della
revisione delle idee ricevute. Questa scuola altra non è che quella del revisionismo.
I revisionisti non negano. Non sono né negatori, né “negazionisti”. Essi si
sforzano di essere costruttivi, positivi e talora alcuni di loro potrebbero
essere qualificati come positivisti. Il loro metodo di ricerca è antico come il
mondo; esso è come la sete di conoscenza o come l’amore della scienza e
dell’esattezza. Siamo modesti: non pretendiamo di ricercare la verità o di
averla trovata. “La verità”, soprattutto quando la parola s’impennacchia con la
maiuscola, rischia di essere vaga o inaccessibile. Ciò che va ricercato è
l’esattezza, cioè in ogni momento la scoperta di una piccola verità
verificabile; alla fine la somma di queste piccole verità verificabili
permetterà di enunciare una conclusione che, a sua volta, avrà qualche
possibilità d’essere esatta.

Bisogna cercare le scatole nere
dell’“Olocausto” per esaminarne il contenuto

            Questo
tipo di ricerca o di attività revisionista non è senza rischio. Per lanciarsi e
soprattutto per persistere nell’azione revisionista bisogna avere il cuore ben
saldo. Elie Wiesel ed i suoi amici fanno buona guardia intorno alle scatole
nere dell’“Olocausto”: è proprio escluso per noi di avvicinarle per vedere quel
che contengono. Personalmente, un giorno ho avuto la fortuna di scoprire e
aprire per un attimo la scatola nera d’Auschwitz e di Birkenau al Museo
di Stato d’Auschwitz. Ciò è avvenuto in due tempi. Nel 1975, in occasione della
mia prima ispezione dei luoghi del “crimine”, avevo riscontrato alcune vere
anomalie in quello che ci veniva presentato come un crematorio “allo stato
originario” (il Krema I ad Auschwitz I) o dei crematori in rovina (i Krema II e
III come anche IV e V a Birkenau o Auschwitz II). Avevo costretto allora un
alto responsabile del Museo di Stato a riconoscere che il Krema I era stato
“ricostruito”, laddove invece il pubblico credeva di avere a che fare con un
crematorio autentico conservato allo stato originario. Io gli avevo fatto
constatare l’assenza di fuliggine nella bocca di un forno crematorio, che lui
mi garantiva essere “originario”; allora mi disse che il forno suddetto era in
realtà una “ricostruzione”. Su questo punto lo avevo costretto ad ammettere che
questa “ricostruzione” implicava necessariamente la conoscenza e quindi
l’esistenza di progetti originali. Gli ho chiesto dove si trovassero questi
progetti. Non senza imbarazzo mi ha confessato che si trovavano negli Archivi del museo. Obbligato di tornare in Francia, rimettevo all’anno
prossimo la mia visita agli Archivi. Sorvolerò qui sui dettagli delle difficoltà allora
incontrate, arrivando subito al punto: il 19 marzo 1976 negli Archivi del
Museo di Stato trovai le piante dei crematori di Auschwitz e di Birkenau
che
si supponeva aver contenuto delle “camere a gas” omicide.
Queste piante, ci erano state tenute nascoste fin dal 1945
(vedere il mio scritto “Retour sur ma découverte, le 19
mars 1976, des plans des crématoires d’Auschwitz et de Birkenau”: http://robertfaurisson.blogspot.com/2010/09/retour-sur-ma-decouverte-le-19-mars_14.html). E a ragion veduta, dal momento
che esse scoprivano gli altarini. Nel Krema I il locale che si pretendeva
essere stato una “camera a gas” omicida altro non era stata in realtà che una “Leichenhalle”, cioè un inoffensivo deposito fatto
apposta per metterci i cadaveri in attesa di cremazione. I grandi Krema II e
III di Birkenau non avevano avuto che dei “Leichenkeller”, cioè dei depositi costruiti in
parte sotto terra per assicurare al loro interno una relativa frescura. I Krema
IV e V, ugualmente ubicati a Birkenau, non avevano che delle camere inoffensive
alcune delle quali erano dotate di stufe e perciò non avrebbero mai potuto
servire da “camere a gas”. Al termine di studi prolungati attinenti allo Zyklon
B (a base di acido cianidrico, il prodotto è stato inventato nel 1922 da un
assistente del chimico ebreo tedesco Fritz Haber; il brevetto d’invenzione data
dal 27 dicembre 1926), alle camere a gas di disinfezione o di spidocchiamento,
e soprattutto alle camere a gas americane per le esecuzioni (al gas cianidrico)
concludevo che le “testimonianze” o “confessioni” riguardanti l’esecuzione
sistematica degli ebrei in “camere a gas” cozzavano contro drastiche
impossibilità fisiche e chimiche.
Ancora oggi rimango stupito dal fatto che
gli Stati Uniti, abbeverati di letteratura olocaustica ma che annoverano tanti
uomini di scienza, tanti chimici ed ingegneri, non abbiano avuto uno di costoro
che procedesse ad un confronto tra le “camere a gas” naziste, discretamente
approssimative, e la realtà facilmente verificabile (almeno fino ad un’epoca
recente) delle camere a gas americane. Basta dare uno sguardo ad una camera a
gas americana per rendersi immediatamente conto che le “camere a gas” naziste
sono una pura creazione mentale. Una vera camera a gas americana per
l’esecuzione di una sola persona è necessariamente di una straordinaria
complessità dato che bisogna evitare che il gasatore gassi se stesso 1) sia
durante l’esecuzione, 2) sia durante la ventilazione, 3) sia nel momento di
entrare nella camera per manipolare e tirare fuori un cadavere profondamente
cianurato e che, proprio per questo, rimane molto pericoloso. Ripeto: basta
anche ad una persona profana gettare uno sguardo da vicino ad una camera a gas
di un penitenziario americano e farsene spiegare il funzionamento per capire
che non solo le “camere a gas” naziste non sono esistite ma nemmeno sono
potute esistere.
Da parte mia, nel 1979, io avevo visto e studiato la
camera a gas di Baltimora (Maryland). È così che nel 1979 stesso, a Los
Angeles, in occasione della prima conferenza internazionale dell’Institute for
Historical Review, avevo potuto rendere pubblica insieme a queste piante la mia
scoperta della scatola nera d’Auschwitz e di Birkenau. “Questa è
dinamite!”, aveva sentenziato una partecipante.  

Le
vittorie del revisionismo
           

            Tre
anni prima, nel 1976, un professore universitario americano, Arthur Robert
Butz, aveva pubblicato sul preteso sterminio degli ebrei una magistrale opera
intitolata The Hoax of the Twentieth Century. Nel 1985, e poi nel
1988, a Toronto, nei processi contro Ernst Zündel, i revisionisti annientavano
dapprima Raul Hilberg, lo storico n° 1 della tesi sterminazionista, e poi
Rudolf Vrba, il testimone n° 1 delle pretese gasazioni criminali di Auschwitz;
infine grazie in particolare alle perizie e al rapporto di Fred
Leuchter
(193 pagine), tutto quanto
il mito di queste gasazioni è entrato in agonia il 20 aprile 1988. Più tardi si
vedrà disgregarsi lentamente questo elemento centrale, questo “cuore” delle
accuse rivolte contro i Tedeschi del III° Reich. Ma, già dal 1988, Arno Mayer, professore di storia a
Princeton, scriveva: “Le fonti per lo studio delle camere a gas sono nello
stesso tempo rare e dubbie” [Sources for the study of the gas chambers are
at once rare and unreliable
] (Why did the Heavens not Darken? The
“Final Solution” in History
, New York, Pantheon Books, p. 362). Altri
ricercatori che avevano per il passato strombazzato la loro certezza riguardo
l’esistenza di queste “camere a gas” hanno finito con l’ammettere che non se ne
avevano prove. Il Francese Jean-Claude Pressac, che era il protetto di Beate e
Serge Klarsfeld, “cacciatori di ex-nazisti”, è arrivato fino al punto di scrivere
che tutto quanto il dossier della storia della deportazione era “marcio” per le
eccessive menzogne e che questo dossier, a dispetto delle reali sofferenze di
tanti deportati, era buono solo per le “pattumiere
della storia”; lo ha scritto nel 1995 ma la sua capitolazione non è stata
rivelata che nel 2000. A coloro che desidererebbero saperne di più
sull’argomento io mi permetto di raccomandare la lettura del mio studio su “Le
Vittorie del revisionismo” dell’11 dicembre 2006 (http://robertfaurisson.blogspot.it/2006/12/le-vittorie-del-revisionismo.html). 

Il colpo di grazia inferto, il 27 dicembre
2009, al mito delle “camere a gas” naziste
 

            Tre
anni dopo, il 27 dicembre 2009, il mito di Auschwitz ha ricevuto il colpo di
grazia. Questo colpo gli è stato inferto da un professore universitario ebreo,
Robert Jan van Pelt, che si può considerare come l’ultimo ad aver voluto provare
scientificamente
che Auschwitz, capitale dell’“Olocausto”, era stato un
“campo di sterminio” (espressione americana coniata nel novembre 1944), vale a
dire un campo che sarebbe stato dotato di “camere a gas” di sterminio. I
revisionisti non avevano un avversario più determinato e più deciso a
combatterli sul piano storico e scientifico di questo professore che
insegnava storia dell’architettura all’Università di Waterloo (Ontario,
Canada). Egli difendeva la tesi abituale secondo la quale, per gasare parecchie
migliaia di ebrei in una volta, un SS, salito sul tetto di certe “camere a
gas”, versava dei granuli di Zyklon B attraverso quattro orifizi praticati nel
soffitto di calcestruzzo delle suddette “camere a gas”. Sempre sotto la spinta
delle scoperte revisioniste, si dovette ammettere che gli orifizi del Krema I
erano stati creati dai… Sovietici e dai comunisti polacchi. Sennonché R. J. van Pelt ed i suoi amici si dicevano sicuri
di trovare tali orifizi nel tetto di calcestruzzo, in rovina, dei Krema
II e III. Tuttavia, dopo anni di ricerche, essi si rivelavano incapaci di
fornire una sola fotografia di questi orifizi o dei condotti perforati (?) –
che, sotto, avrebbero permesso la diffusione del gas cianidrico – e di
raccogliere una sfida che io avevo riassunto nella formula: “No holes, no
Holocaust”
(Niente orifizi, niente Olocausto). Di qui la capitolazione di
R. J. van Pelt. Il 27 dicembre 2009, citato in un articolo del Toronto Star,
egli rivelava che secondo lui la conservazione del campo di
Auschwitz-Birkenau non aveva tanto
significato: era meglio lasciare che la natura
riprendesse i suoi diritti. E aggiungeva testualmente, parlando di ciò che si ritiene che si sappia circa il campo (cioè che vi si trovavano delle “camere a
gas”, ecc.): “il 99% di ciò che noi sappiamo, noi non abbiamo
in effetti gli elementi fisici per provarlo
[Ninety-nine per cent of what we know we do not
actually have the physical evidence to prove
] e di pretendere che in
futuro: “Noi desumeremo la nostra conoscenza [dell’Olocausto in generale] nei
libri e nelle testimonianza dei testimoni oculari […] Esigere da noi stessi
che si abbiano più prove materiali è in realtà, in un certo modo, cedere ai
negatori dell’Olocausto fornendo una specie, in qualche modo, di prova speciale”
[To demand that we have more material evidence is actually us somehow
giving in to the Holocaust deniers by providing some sort of special evidence
]
(“A case for letting nature take back Auschwitz”: http://www.thestar.com/news/insight/article/742965–a-case-for-letting-nature-take-back-auschwitz). 

            Ecco
una cosa che non era senza ricordare la straordinaria confessione, tale da far
rallegrare i revisionisti, alla quale era stato costretto il giudice inglese
Charles Gray quando, a Londra, l’11 aprile del 2000, aveva emessa la sua
sentenza nel processo per diffamazione che era stato intentato da David Irving
contro le edizioni Penguin e Deborah Lipstadt. La signorina Lipstadt aveva
ottenuto la presenza ed il sostegno di R. J. van Pelt mentre invece David
Irving, che aveva una mediocre conoscenza delle argomentazioni revisioniste,
per timore di essere associato a Germar Rudolf e a me stesso non aveva voluto
la nostra assistenza: egli era arrivato fino al punto di basare la sua querela
sul fatto che era stato presentato a tutti come un “Holocaust denier
(negatore dell’Olocausto). Questa confessione del giudice era devastante per R.
J. van Pelt, che aveva consacrato una parte della sua vita a cercare di trovare
le prove dell’esistenza delle “camere a gas” omicide. Ecco qui la confessione
del giudice Charles Gray: “Io devo riconoscere” – scrive – “che, come, penso, la maggior parte delle persone, avevo
supposto che le prove di uno sterminio di massa di
ebrei nelle camere a gas di Auschwitz erano inoppugnabili. Tuttavia, ho
escluso questa idea preconcetta quando ebbi soppesato il pro e il contro delle
prove che le due parti hanno apportato ai dibattiti”
[I have to
confess that, in common I suspect with most other people, I had supposed that
the evidence of mass extermination of Jews in the gas chambers at Auschwitz was
compelling. I have, however, set aside this preconception when assessing the
evidence adduced by the parties in these proceedings
] (High Court of
Justice, Queen’s Bench Division, 1996-I-1113, Judgment § 13.71: http://www.fpp.co.uk/docs/trial/judgment/extract1.html). Proprio dopo il paragrafo che contiene la
sua sbalorditiva “confessione”, il giudice ci fornisce, nei § 13.72, 13.73 e
13.74, le ragioni precise per cui egli ha, “alla maniera di un revisionista”,
rivisto e corretto la sua “idea preconcetta”. In fondo, si vede qui un giudice
britannico adoperare nell’aprile del 2000, a Londra, ciò che, diciassette anni
prima, il 26 aprile 1983, a Parigi, la prima camera della Corte d’appello
(sezione A, presieduta da François Grégoire) aveva concluso da parte sua: per
essa, Robert Faurisson, accusato da organizzazioni essenzialmente ebraiche di
avere, nei suoi lavori, dato prova 1) di leggerezza, 2) di negligenza, 3) di
ignoranza deliberata e 4) di menzogna, e questo per arrivare alla conclusione
che le “camere a gas” naziste non erano mai esistite, in realtà aveva compiuto
un lavoro in cui non si poteva trovare traccia 1) né di leggerezza, 2) né di
negligenza, 3) né di ignoranza deliberata, 4) né di menzogna. I magistrati
avevano allora sentenziato: “La validità delle conclusioni difese dal signor
Faurisson [circa il problema delle “camere a gas”] rientra nel campo dunque
[sottolineo questa parola] della esclusiva valutazione degli esperti, degli
storici e del pubblico”. Chiaramente ciò significava che,
visto il carattere serio degli scritti di Faurisson sull’argomento, tutti
dovevano avere il diritto di dire: “Le pretese camere a gas hitleriane non sono
mai esistite”.

            Ma,
beninteso, ero stato cionondimeno condannato a Parigi questo 26 aprile 1983 per
il fatto che, apparentemente, avevo dato prova di malevolenza; in particolare
la Corte d’appello mi rimproverava di non aver “mai saputo trovare una parola
per esprimere il mio rispetto alle vittime” (il che era inesatto) ed essa
pensava che il mio “‘revisionismo’ [poteva] figurare come un tentativo di
riabilitazione globale dei criminali di guerra nazisti” (il che era un pensiero
o un retro-pensiero che non avevo mai avuto). Da parte sua, a Londra, il 14
aprile 2000, David Irving ha visto la sua querela
respinta ed è stato condannato a versare due milioni di sterline ai convenuti essenzialmente
per il fatto che, a quanto sembrava, egli era stato tanto malevolo quanto lo
può essere un razzista. 

Gli Einsatzgruppen: nessun ordine di uccidere
gli ebrei
 

            Divenendo
la tesi dell’esistenza delle “camere a gas” naziste sempre più difficile da
sostenere, gli storici ufficiali e i media si sono messi ad insistere sul caso
degli Einsatzgruppen. Non indietreggiando davanti a nessun imbroglio
essi hanno, in qualche caso, cominciato ad affibbiare a questi “Gruppi
d’intervento” il nome, inventato da loro, di “Gruppi mobili della morte”. Gli Einsatzgruppen
esercitando la loro attività in URSS avevano, in effetti, la missione di
garantire la sicurezza alle spalle del fronte particolarmente a causa della
presenza dei franchi tiratori e dei partigiani che moltiplicavano gli
assassinii di soldati tedeschi ed i sabotaggi. Mai gli Einsatzgruppen hanno
ricevuto ordine di giustiziare degli ebrei in quanto tali. Degli ebrei potevano
essere giustiziati o per atti di terrorismo o per sabotaggio, o in qualità di
ostaggi in seguito, ad esempio, di attentati, o per tal’altro motivo di questo
genere. Le affermazioni in senso contrario e le costruzioni mentali su un preteso “Kommissar Befehl” o a proposito
della confessione del Generale SS Otto Ohlendorf a Norimberga appartengono alla
sfera del mito. In modo generale, “malgrado le più erudite ricerche” (François
Furet alla fine di un colloquio alla Sorbona, il 2 luglio 1982), mai un tale
ordine è stato trovato. Anche i più compiacenti storici hanno dovuto
ammetterlo; vedere, ad esempio, per gli Einsatzgruppen, in particolare,
Helmut Krausnick e Hans-Heinrich Wilhelm in Die Truppe des
Weltanschauungskrieges / Die Einstazgruppen des Sicherheitspolizei und des SD
,
Stuttgart, Deutsche Verlags-Anstalt, 1981, p. 634, o ancora Yaacov Lozowick in
“Rollbahn: The Early Activities of Einsatzgruppen C”, Holocaust and
Genocide Studies,
1987, Vol. 2, p. 221-241.

In mancanza di prove, Raul Hilberg spiega
tutto con il paranormale
 

            Per
quel che riguarda il carattere intenzionale d’un preteso sterminio degli ebrei
su tutto un continente, Raul Hilberg non ha avuto paura di affermare, nel 1961,
nella prima edizione della sua opera di riferimento, che erano esistiti due
ordini di Hitler di uccidere gli ebrei (The Destruction of the European
Jews
,
Chicago, Quadrangle Books, 1961, p. 177). In seguito all’irrompere del
revisionismo storico sulla scena internazionale egli ha rinunciato a questa
affermazione, che non era accompagnata da nessun documento, da nessuna prova ed
è giunto ad un’altra affermazione secondo cui, se non si poteva scoprire nessun
documento, nessuna prova, è perché la distruzione degli ebrei d’Europa si era
realizzata spontaneamente, senza ordini, senza piano, senza nulla, grazie
all’iniziativa ed all’azione d’una ampia burocrazia che lavorava tramite la
trasmissione di pensiero
(The Destruction of the European Jews, Revised
and Definitive Edition, New York & Londra, Holmes & Meier, 3 volumi,
1985, p. 53, 55, 62). Secondo il nuovo Hilberg, questa strana burocrazia, che era considerata come disciplinata e puntigliosa,
aveva di botto preso l’iniziativa di gettare a mare ogni esigenza burocratica,
ogni obbedienza ad un qualunque ordine venuto dall’alto, alfine di uccidere gli
ebrei; da quel momento, essa non aveva operato che “per mezzo di un
incredibile incontro di menti, una trasmissione di pensiero consensuale
” [by
an incredible meeting of minds, a consensus-mind reading
], e ciò senza un “piano di
base” [basic plan], con
delle “direttive scritte non pubblicate” [written directives not published], con delle “ampie deleghe di potere
ai subordinati, non pubblicate” [broad authorisations to subordinates not
published
], con delle
“direttive ed autorizzazioni orali” [oral directives and authorisations], con degli “intese implicite tra
funzionari, facendo nascere delle decisioni che non necessitavano ordini e
spiegazioni” [basic understandings of officials resulting in decisions not
requiring orders or explanations
].
R. Hilberg ce lo spiega che “l’operazione non fu affidata ad un’agenzia unica”
[no one agency was charged with the whole operation]; “non ci fu mai un organismo
centrale incaricato di dirigere e coordinare da solo l’intero processo” [no
single organisation directed or coordinated the entire process
]; “non fu creato nessuna agenzia
specializzata, e nessun progetto di spesa particolare era ideato per distruggere gli ebrei d’Europa.” [No
special agency was created and no special budget was devised to destroy the
Jews of Europe
]; “in ultima
analisi”, scrive, “la distruzione degli ebrei non fu tanto un risultato di leggi e di ordini quanto una questione di stato
d’animo, una comprensione tacita, una consonanza ed una sincronizzazione” [In
the final analysis, the destruction of the Jews was not so much a product of
laws and commands, as it was a matter of spirit, of shared comprehension, of
consonance and synchronization
]
(“Raul Hilberg explique maintenant le génocide par télépathie”, http://robertfaurisson.blogspot.com/1988/09/raul-hilberg-explique-maintenant-le.html). Non si può che rimanere sbalorditi davanti a queste fantasmagorie inventate dal numero
1 degli storici dell’“Olocausto”, davanti a queste assurde spiegazioni mediante
l’intervento dello Spirito Santo della burocrazia germanica, davanti a questo
“incontro di menti” qualificato dallo stesso Hilberg come “incredibile”,
davanti a questo ricorso al potere della “trasmissione del pensiero”, davanti a
questo “stato d’animo”, questa “tacita comprensione”, questa “consonanza” e
questa “sincronizzazione”. Mai, penso, nella storiografia mondiale era stata
espressa e difesa una tesi ricorrendo a delle nozioni che a questo punto
sconfinano nella magia. Una magia nera, quando pensiamo agli
effetti nocivi o criminali che la credenza generale nella “distruzione degli
Ebrei d’Europa” ha potuto avere dal 1945 fino ad oggi su miliardi di uomini un
po’ dovunque nel mondo. 

Fatti concreti escludono che si sia
verificata una distruzione degli ebrei d’Europa
 

            Curiosamente
gli autori che osano sostenere la tesi secondo la quale il III° Reich ha svolto
una politica di sterminio degli ebrei non ci spiegano un numero considerevole
di fatti che, se fosse esistita una tale politica, non avrebbero potuto
verificarsi. Come scrive A. R. Butz, “La più semplice ragione valida per essere
scettici per quanto riguarda l’affermazione che c’è stato uno sterminio è anche
la più semplice ragione che si potesse concepire: alla fine della guerra
costoro erano ancora lì” (The Hoax of the Twentieth Century, p.
10) [The simplest valid reason for being skeptical about the extermination
claim is also the simplest conceivable reason: at the end of the war they were
still there
]. Nel 1945,
alla fine della guerra, il numero dei “sopravvissuti” o dei “miracolati” ebrei
era stupefacente. Tanti “miracolati” non potevano costituire un miracolo ma
piuttosto la manifestazione di un fatto naturale. Ogni sopravvissuto che osi
testimoniare che si massacravano sistematicamente le persone della sua categoria si infligge una smentita per il solo fatto
che egli è ancora vivo: è una “prova vivente” del fatto che la sua affermazione
è assurda. Ancora nel 1997, cioè cinquantadue anni dopo la guerra, il numero
ufficiale dei sopravvissuti ebrei era stimato, secondo alcuni, in 834.000 e
secondo altri in 960.000 (“Holocaust Survivors” di Adina Mishkoff,
Administrative Assistant, Amcha,
Gerusalemme, 13 agosto 1997; si trattava di cifre fornite dal gabinetto del
Primo ministro israeliano). Secondo una stima dello studioso di statistica
svedese Carl Nordling, a cui avevo sottoposto le valutazioni del governo
israeliano, se queste cifre si riconducono ad una media di 900.000 abbiamo il
diritto di concludere che nel 1945 il numero dei sopravvissuti superava di poco
la cifra di tremilioni. Ancora oggi, le organizzazioni dei “sopravvissuti”
pullulano sotto le più diverse denominazioni; queste riuniscono vecchi
resistenti ebrei, lavoratori forzati ebrei, fuggiaschi o clandestini ebrei così
come anziani “bambini d’Auschwitz”, questi
ultimi comprendendo bambini ebrei nati in questo campo o internati fin dalla
loro più giovane età coi loro genitori. Auschwitz, come tanti altri campi, era
dotato di fabbricati ospedalieri o d’infermerie dove gli ebrei, come lo stesso
Elie Wiesel, avevano accesso alle cure.

In pieno Reich, in piena guerra, case di cura
ed ospedali per ebrei
 

            In
alcune città tedesche, fino alla fine della guerra, ci sono stati degli
ospedali, delle case di cura riservate agli ebrei.
Prendiamo l’esempio di Vienna: secondo un documento tedesco, pubblicato in
inglese dallo stesso Raul Hilberg, si constata che in data 17 ottobre 1944,
vale a dire qualche mese prima della fine della guerra, il Consiglio ebreo di
Vienna [the Council of Elders of the Jews in Vienna] aveva la responsabilità di ospedali
ebrei, di una kinderheim e d’una scuola [Children’s
Home and Dayschool
], d’una
cucina comunitaria [Community Kitchen], d’uno stabilimento di bagni [Bath], d’una casa di cura per persone anziane [Poor People’s Home], d’un magazzino di vestiti e di
mobili [Clothes and Furniture Depot], d’un ufficio di assistenza sociale [Relief Division], d’una biblioteca [Library], d’una amministrazione cimiteriale
[Cemetery Administration and Grounds], d’una agenzia tecnica con annesso il suo laboratorio [Technical
Column and Workshop
]. Il
tutto era ripartito in undici punti differenti della città. Il 17 ottobre 1944
un bombardamento degli Alleati ha completamente distrutto l’ospedale
pediatrico. Nella notte seguente si è dovuto installare un nuovo ospedale di
fortuna [as an emergency measure a new hospital had to be set up overnight] e, in accordo con la Gestapo /
Direzione Generale della Gestapo di Vienna e l’Ufficio municipale delle
costruzioni [the Secret State Police / Secret State Police Main Directorate
Vienna, and the City Construction Office
], il Consiglio ha potuto pagare in un unico versamento un
architetto competente per la ricostruzione e la falegnameria dell’ospedale [the
Council handed the supervision of construction and carpentry to a competent
architect against payment of a lump sum
]. La cucina della comunità, riservata prioritariamente ai
lavoratori ebrei (43.892 pasti nel 1944), è
stata danneggiata durante il raid del 5 novembre 1944 ma i danni sono stati
riparati molto velocemente (Yad Vashem document O 30/5, Excerpts from the
Annual Report of the Director of the Council of Elders of the Jews in Vienna,
signed Josef Israel Lowenherz, dated Jan. 22, 1945, Documents of
Destruction / Germany and Jewry 1933-1945
, Edited with Commentary by Raul
Hilberg, Chicago, Quadrangle Books, 1971, p. 125-130; p. 127-128). 

            Un
altro esempio, del tutto eloquente, è quello di Berlino e, in particolare, del
suo “Ospedale della comunità ebraica” (Krankenhaus der Jüdischen Gemeinde)
al n° 2 dell’Iranischenstrasse. Bisogna leggere, di Daniel B. Silver, Refuge
in Hell / How Berlin’s Jewish Hospital Outlasted the Nazis
(Boston,
Houghton Mifflin, 2003, 352 pagine) o, in mancanza, la traduzione in francese
di quest’opera: Refuge en Enfer / Comment l’Hopital juif de Berlin a
survécu au nazisme
(Bruxelles, André Versaille editore, 2011, 304
pagine). L’autore, un giurista ebreo, ed i
suoi testimoni ebrei si arrabattano inutilmente per trovare una soluzione alla
domanda seguente: “Poiché Hitler aveva deciso lo sterminio degli ebrei, com’è
possibile che molti ebrei abbiano, durante tutta la guerra, ricevuto molte cure
in questo ospedale diretto dal dottor Walter Lustig?” La risposta, in fin dei
conti, si può riassumere in due frasi: questo non potrebbe spiegarsi; si è trattato di un miracolo. Questo stesso miracolo
sarebbe da doversi a due fattori principali: “la pura e semplice fortuna ed i
conflitti burocratici interni in seno alle organizzazioni naziste” (“sheer
blind luck and bureaucratic infighting among Nazi organisations
”, come l’indica la presentazione del
libro in 4° pagina di copertina). Se c’era una paura che ossessionava gli ebrei
di Berlino, ivi compresi, in questo ospedale, i malati, i chirurghi, i dottori,
gli infermieri ed il resto del personale, era quella dei terrificanti
bombardamenti alla cieca dell’aviazione anglo-americana. 

            Infine,
su questo capitolo dei fatti che contraddicono l’affermazione, senza prove,
secondo cui la Germania del III° Reich sterminava gli ebrei conviene leggere
uno studio, ricco di stupefacenti rilevazioni; intitolato “Vie
quotidienne des juifs allemands pendant la guerre (Trois documents)”,
è apparso nella Revue d’histoire révisionniste
6 (maggio 1992) alle pagine 131-140; con la firma di “Célestin Loos”, in realtà
ha avuto due autori: il Belga Pierre Moreau, recentemente deceduto, ed io
stesso. Il caso dell’ospedale ebraico di Berlino, diretto dal dottor Walter
Lustig, vi è menzionato di sfuggita (p. 138, n. 3)

 La collaborazione degli ebrei con l’occupante
tedesco
 

            Nel
1992, in uno studio consacrato agli “ebrei bruni” e riprodotto nei miei Ecrits
révisionnistes (1974-1998)
alle pagine 1421-1433 (http://robertfaurisson.blogspot.com/1992/05/propos-de-larret-touvier-laffaire-des.html), io ho ricordato l’esistenza ed il ruolo
dei “Consigli ebrei in Europa” (p. 1429-1430) nei termini seguenti:  

Già dalla fine del 1939, i
Tedeschi imposero la creazione di “Consigli ebrei” per l’amministrazione delle
comunità ebree di Polonia secondo città, ghetti o
province. Certi Consigli si sforzarono di contrastare la politica tedesca, ma
la maggior parte contribuirono notevolmente allo sforzo bellico tedesco.
Fornirono manodopera e prodotti manifatturieri. Questa politica di
collaborazione risoluta fu perseguita dal famoso Mordechai Chaim Rumkowski, “il
re di Lodz”, che arrivò fino a battere la sua
propria moneta, Jacob Gens di Vilna, Mosche Merin di Sosnowiec in Slesia ed
Efraim Barasz di Byalistok. Questi Consigli condannavano la lotta armata contro
i Tedeschi e certi arrivarono fino a combattere i resistenti. La Germania ebbe
la sua “Rappresentanza degli ebrei tedeschi del Reich”, la Francia ebbe la sua
“Unione generale degli Israeliti di Francia” (UGIF), il Belgio una
“Associazione degli ebrei in Belgio”. I Paesi Bassi, la Slovacchia, l’Ungheria,
la Romania e, in Grecia, Salonicco ebbero i loro Consigli ebrei. Quelli dei
Paesi Bassi, di Slovacchia e dell’Ungheria furono particolarmente cooperativi.
Grazie alla loro collaborazione con i Tedeschi, molti ebrei assicurarono
ampiamente le sostanze: certuni come Joinovici e Skolnikoff costruirono delle
colossali fortune.

             Durante
la guerra i contatti tra certi ambienti sionisti e i Tedeschi persisterono. Nel 1941 il
“Gruppo Stern” o “Lehi” arrivò fino a proporre un’alleanza militare alla
Germania contro la Gran Bretagna. A questo proposito un emissario di questa
organizzazione ebrea, Naftali Lubenchik, incontrò a Beirut il diplomatico Otto
Werner von Hentig.

La Germania era pronta a consegnare gli ebrei
agli Americani
e ai
Britannici
 

            Dopo
aver preso in esame numerose soluzioni territoriali della questione ebraica,
soluzioni che, come il “Madagaskar Projekt”, si sono rivelate
impraticabili, la Germana era pronta a consegnare gli ebrei d’Europa agli
Americani e ai Britannici ma alla condizione che questi ultimi trattengano
questi ebrei presso di loro fino alla fine della guerra e non permettano loro
di emigrare in Palestina, e ciò per proteggere “il
nobile e valente popolo arabo
”.

            Effettivamente,
per esempio nel 1944, Il Ministero degli Affari esteri (diretto da Joachim von
Ribbentrop) fa sapere al governo britannico che la Germania è pronta a
rimettergli 5000 persone “non ariane” – 85% di bambini e 15% di adulti per
accompagnarli – originari della Polonia, della Lituania e della Lettonia ma
alla condizione di ricevere la garanzia che costoro saranno ospitati fino alla
fine della guerra nell’Impero britannico (per esempio in Canada) ad eccezione
della Palestina e del Vicino Oriente. “Il
Governo del Reich non può prestarsi ad una manovra che tende a permettere agli
ebrei di cacciare il nobile e valente popolo arabo dalla sua madrepatria, la
Palestina
”. (Documento di
Norimberga NG-1794; Eberhardt von Thadden, il 29
aprile ed il 5 maggio 1944; Wagner, il 29 luglio 1944. Henri Monneray, ex
sostituto al Tribunale Militare Internazionale, La Persécution des juifs
dans les pays de l’Est présentée à Nuremberg
, Parigi, Editions du
Centre de documentation juive contemporaine, 1949, p. 168-169).

            Il
15 gennaio 1945 Heinrich
Himmler incontra a Bad Wildbad, nella Foresta Nera, lo Svizzero Jean Marie Musy
, ex presidente della Confederazione
elvetica, venuto da parte degli Americani per discutere una volta ancora del
“miglioramento della sorte degli ebrei”. Le trattative hanno avuto già il loro
effetto su un punto; finora assegnati talvolta come tutti gli altri ai lavori
più duri, gli ebrei si sono visti accordare un privilegio, quello di non essere
più destinati ai “lavori duri” ma solamente ai “lavori normali”. In una nota
consacrata a questo incontro H. Himmler giunge a scrivere:  

Gli ho di nuovo precisato la
mia posizione. Noi assegniamo gli ebrei al lavoro e, beninteso, inclusi i
lavori duri quali la costruzione di strade, di canali, gli scavi minerari e lì
vi trovano una forte mortalità. Da quando sono in corso le discussioni sul
miglioramento delle condizioni di vita degli ebrei, essi sono impiegati ai lavori
normali, ma va da sé che devono, come ogni Tedesco, lavorare negli armamenti. Il
nostro punto di vista sulla questione ebraica è il seguente: la presa di
posizione dell’America e dell’Inghilterra verso gli ebrei non ci interessa in
alcun modo. Ciò che è chiaro è che non li vogliamo avere in Germania e
nell’ambito della vita tedesca in ragione dell’esperienza più che decennale
dopo la [prima] guerra mondiale, e che non intavoleremo alcuna discussione su
questo argomento. Se l’America li vuole prendere, ce ne rallegreremo. Ma deve
essere escluso, e su ciò una garanzia ci dovrà esser data, che gli ebrei che
lasceremo uscire [dall’Europa continentale] tramite la Svizzera non possano mai essere respinti
verso la Palestina. Noi sappiamo che gli Arabi, tanto quanto lo facciamo noi
Tedeschi, rifiutano gli ebrei e noi non
vogliamo prestarci ad un’indecenza quale quella di inviare dei nuovi ebrei a
quel povero popolo martirizzato dagli ebrei (zu einer solchen
Unanständigkeit, diesem armen, von der Juden gequälten Volke neue Juden
hinzuschicken
)

(Documento dell’US-Document-Center, Berlino. Fotografia in Werner Maser, Nürnberg,
Tribunal der Sieger, Monaco-Zurigo, Droemer Knauer, 1979, p. 262-263).

Gli eccessi
commessi contro gli ebrei potevano essere puniti con la pena di morte
 

     Molti altri particolari materiali escludono che le autorità
tedesche abbiano seguito una qualunque politica di sterminio degli ebrei; ma
penso che la maggior prova dell’inesistenza d’una tale politica risiede nel
fatto che l’uccisione d’un solo ebreo o d’una sola ebrea rischiava di costare
al suo autore delle condanne che potevano arrivare fino alla pena di morte
seguita dall’esecuzione. In mancanza di spazio, rinvio a questo proposito alle
note in inglese d’una conferenza che ho pronunciato nel 2002 presso l’Institute
for Historical Review (IHR): “Punishment
of Germans, by the Third Reich authorities, for mistreatment of Jews
(1939-1945)”
; successivamente
apparirà una traduzione in francese sotto il titolo di “Repressione da parte
delle autorità del III° Reich degli eccessi commessi dai Tedeschi contro gli
ebrei (1939-1945)”. 

L’impostura dei Sei Milioni. Wilhelm Höttl e
il Tribunale di Norimberga smascherati

            Nelle
righe seguenti mi propongo di mostrare in prima istanza come è nato il mito dei
pretesi Sei Milioni di ebrei uccisi o morti durante la Seconda Guerra mondiale,
poi grazie a quale mentitore e a quali menzogne è stato avallato dal Tribunale
militare internazionale (TMI) di Norimberga e, infine, come, nel 1987, io sono
personalmente riuscito, davanti a testimone, a
smentire Wilhelm Höttl, ex ufficiale SS, facendogli riconoscere di aver addotto
falsa testimonianza nel dichiarare per iscritto e sotto giuramento che aveva
appreso questa cifra dalla stessa bocca di
Adolf Eichmann.

            È
nel 2003 che l’Americano Don Heddesheimer, di professione avvocato, ci ha
rivelato che il mito dei Sei Milioni ha avuto la più sordida origine che si
possa immaginare: dal 1900 (e forse anche prima?) degli ebrei di New York
avevano fabbricato e lanciato un efficace slogan pubblicitario che permetteva
loro di raccogliere milioni di dollari durante le campagne di raccolta- fondi (fund-raising campaigns). Lo slogan messo a punto da
questi ebrei si riassumeva, se lo si può dire, in due frasi: “In questo momento
milioni di nostri fratelli stanno per morire in Europa; donateci del denaro per
venire in loro soccorso”. In generale, questi ebrei europei si supponeva che fossero
numericamente “cinque milioni” oppure “più di cinque milioni” o, soprattutto,
“sei milioni”. Secondo il caso ed i periodi storici, erano i Russi, gli
Ucraini, gli Zar, i Polacchi che venivano presentati come carnefici degli
ebrei… (The First Holocaust / Jewish Fund-Raising Campaigns with
Holocaust Claims During and After World War One
, Preface by Germar
Rudolf, Theses & Dissertations Press, Chicago, ottobre 2003, 144 p.). Il
giornale che ha contribuito di più alla diffusione degli slogan propri di queste
campagne di raccolta-fondi è stato il New York Times. Una delle
personalità più attive è stato il rabbino Stephen Wise (1874-1949), amico
successivamente dei presidenti Wilson e, soprattutto, F. D. Roosevelt;
fondatore del World Jewish Congress, egli era un militante sionista.

            A
partire dalla Seconda guerra mondiale i carnefici designati sono diventati
Hitler o i Tedeschi mentre gli ebrei europei erano indicati “morti” o “uccisi”
e non più soltanto “in procinto di morire”. Nel 1945-1946 la delegazione
americana nel Processo di Norimberga si è trovata, sembra, costituita da ebrei
nella proporzione del 75%; questa stima è quella dell’avvocato generale
americano Thomas J. Dodd (vedi, nel libro di suo figlio Christopher J. Dodd e di Larry Bloom, Letters of Thomas J. Dodd
from Nuremberg
, Crown Publishers [Random House], la lettera del 20 settembre 1945 a sua moglie, p.
136; in francese, Lettres de Nuremberg /
Le procureur américain raconte
, Parigi, Presses de la
Cité, 2009, p. 163). Si può pensare che almeno una parte di questi ebrei,
cullati dal ritornello dei “milioni di ebrei europei morti o destinati a
morire”, hanno finito col credere in buona fede a ciò che essi sentivano o
leggevano su questo argomento. Per costoro, l’essenziale era di far avallare questa
credenza dai giudici di Norimberga. Allora, per raggiungere il loro scopo essi si sarebbero serviti
di un personaggio tra i più ambigui, un ex comandante, poi tenente-colonnello
delle SS, che, negli ultimi mesi della guerra, in Italia, venendo a sapere che
rischiava l’esclusione dalle SS per malversazioni e per contatti con il nemico,
aveva avuto un abboccamento con le autorità alleate. Alla fine della guerra,
fatto prigioniero e dimostratosi di una esemplare docilità, viene trasferito a
Norimberga dove collabora pienamente con l’accusa. Si deve a lui,
specificatamente, se l’accusa dispone, firmato di suo pugno,
dell’impressionante organigramma della Polizia di sicurezza e del Servizio di
Sicurezza tedeschi (Documento PS-2346). Costui accetta di firmare un affidavit
(una dichiarazione scritta sotto giuramento) il 26 novembre 1945 (Documento
PS-2738) in cui pretende che alla fine del mese d’agosto 1944, nel suo
appartamento, a Budapest, ha ricevuto la visita del suo collega il
tenente-colonnello Adolf Eichmann, che gli avrebbe detto d’avere poco tempo
prima fatto pervenire un rapporto a Himmler, che voleva sapere il numero esatto
degli ebrei finora uccisi. Secondo questo rapporto, A. Eichmann avrebbe testualmente
dichiarato che circa quattro milioni di ebrei erano stati uccisi (getötet)
nei diversi campi di sterminio (Vernichtungslagern) mentre altri due
milioni avevano trovato la morte in un altro modo, per la maggior parte essendo
stati fucilati dagli Einsatzkommando della Polizia di Sicurezza durante la campagna
di Russia
. E A.
Eichmann aveva aggiunto che Himmler non aveva apprezzato questo rapporto
poiché, per lui, il numero degli ebrei uccisi doveva essere superiore a sei
milioni. L’affidavit è letto davanti al tribunale, il 14 dicembre 1945,
dal sostituto americano William Walsh che commette la disonestà di tradurre il
dubbio termine Vernichtungslagern dal classico “campi di
concentramento
”. Interviene un avvocato tedesco. Richiede la comparizione
di Höttl. Non l’otterrà mai. Ed il colmo sarà raggiunto quando, nella sentenza
finale, il Tribunale oserà concludere il 30 settembre 1946: “Adolf Eichmann,
che Hitler aveva incaricato di questo programma [di sterminio], ha stimato che
questa politica aveva causato la morte di sei milioni di Ebrei, di cui quattro
milioni perirono nei campi di sterminio” (TMI, I,
p. 266). La verità è che mai Hitler aveva incaricato A. Eichmann o chiunque
altro d’un tal programma e che questa stima non era di A. Eichmann, ma gli era
stata attribuita da W. Höttl. Dopo la guerra, W. Höttl aveva continuato
a collaborare con gli Alleati nel timore di essere consegnato ad una Ungheria
governata dai comunisti che non avrebbero mancato di metterlo a morte. In
questo frattempo il suo collega A. Eichmann viveva in Argentina fino al giorno
in cui, nel 1960, è stato prelevato dal Mossad
e condotto forzatamente in Israele per esservi condannato
al termine d’una farsa giudiziaria ancor peggiore di quella di
Norimberga. In sede di istruttoria del suo caso il giudice Avner Less, capitano
dell’esercito israeliano, chiede al prigioniero se ha da fare dei commenti
sulle dichiarazioni di W. Höttl riguardanti lui; la sua risposta è la seguente:
“Senz’altro! Le dichiarazioni di Höttl sono un guazzabuglio di fandonie che
quest’uomo si è ficcato in testa! (Jawhol! Die Angaben von Höttl,
das ist ein Sammelsurium von Durcheinander, das der Mann hier in seinen Kopf
bekommen hat
; vedere
Jochen von Lang, Das Eichmann-Protokoll, Berlino, Severin und Siedler,
1982, p. 107). A. Eichmann dimostra in seguito che l’emergere dopo la guerra di
milioni di sopravvissuti non fa che contraddire la possibilità che sia esistito
un programma di sterminio fisico degli ebrei. Egli dichiara, ad esempio, alla
pagina seguente: “Caro Capitano, dopo la guerra gli Alleati hanno censito –
credo – 2,4 milioni di ebrei. E centinaia e centinaia di migliaia di ebrei sono
riemersi dai campi di concentramento” (Herr Hauptmann, da sind immerhin –
glaube ich – wie gesagt, es sind 2,4 Millionen von den Allierten nach
Kriegsschluss gezählt worden. Und Hunderttaunsende von Juden kamen aus den
Konzentrationslagern
). Quando, da parte sua, egli usa a proposito degli
ebrei la parola Vernichtung,
egli la intende nel senso di annientamento del potere degli ebrei
(nell’ambito della ricerca d’una possibile “soluzione finale territoriale della
questione ebraica”) e non nel senso che i traduttori amano darle di “sterminio
fisico” (p. 110).

             Nel
1987 W. Höttl, fatto oggetto dai suoi compatrioti di critiche o di domande di
chiarimenti riguardo alle sue parole che egli ha attribuito al suo collega A.
Eichmann, comincia a battere in ritirata. Improvvisamente pretende che è sotto
l’effetto dell’alcool che quest’ultimo aveva parlato; Höttl gli aveva, pare,
fatto bere a profusione del l’alcool ungherese suo preferito, il barack, che
è a base d’albicocca (Welt am Sonntag, 8 marzo 1987, p. 2). Io
gli scrivo al suo domicilio di Altaussee in Austria dove è direttore di scuola.
Ottengo di vederlo per due giorni di seguito in compagnia di un Austriaco di
nome R. M. Il 3 febbraio 1989 R. M. ed io siamo ricevuti nel suo ufficio. Non
gli avevo assolutamente nascosto le mie convinzioni revisioniste. Gli pongo
qualche domanda sul suo colloquio dell’agosto 1944 con A. Eichmann. Lo lascio parlare lungamente ma ad un tratto gli dichiaro che, per almeno due
ragioni, non credo al contenuto del suo affidavit: dapprima i sei milioni di ebrei uccisi nel luglio o agosto
1944, mentre restavano ancora nove mesi di guerra, ciò lascerebbe supporre per
tutta la durata della guerra una cifra ancora superiore a questa, già enorme e
non provata, dei sei milioni (l’equivalente della popolazione d’un paese come
la Svizzera); poi, rilevo in questo stesso affidavit una parola che mi
sembra essere veramente un anacronismo – e si sa che in storia l’anacronismo è uno dei segni di falsità.
La parola in questione è quella di Vernichtungslagern, cioè “campi di
sterminio”. È precisamente la traduzione in tedesco di un neologismo americano,
quello di “extermination camps”, apparso nel novembre 1944 a Washington
in un celebre rapporto: lo “War Refugee Report “o “Auschwitz
Protocol[s]
”, dovuto al testimone mitomane Rudolf Vrba (http://www.holocaustresearchproject.org/othercamps/auschproto.html). È inverosimile che A. Eichmann abbia usato
una tale espressione nell’agosto 1944 a Budapest. Visibilmente colpito
dall’argomentazione, il nostro interlocutore, perdendo ogni sicurezza, ci
dichiara con un tono lamentoso: “Ma perché accordate tanta importanza a questa
dichiarazione di Eichmann?” E a spiegarci che l’uomo era allora sotto l’effetto
dell’alcool e che soffriva nei suoi confronti, di lui, W. Höttl, d’un complesso
d’inferiorità che lo conduceva ad ingrandire i fatti e le cifre
. In altre
parole, W. Höttl rimetteva d’un tratto in dubbio il
punto centrale della propria dichiarazione sotto giuramento. Anzi, lo privava di ogni valore. Ordunque è proprio
questa rimbombante dichiarazione che, in seguito, doveva permettere al
Tribunale di gettare in faccia al mondo che la Germania aveva sterminato sei
milioni di ebrei. W. Höttl aveva mentito poi, come lo si è visto, a questa
menzogna i giudici di Norimberga avevano dopo aggiunto la loro propria menzogna
attribuendone freddamente la detta dichiarazione ad A. Eichmann in persona.

             L’indomani
mattina, cioè il giorno dopo il nostro primo
colloquio, ci preparavamo, R. M. ed io, a lasciare il nostro hotel per
recarci, come convenuto, al secondo quando il
telefono ha squillato: la Signora Höttl ci comunicava che suo marito, poiché
stava male, non poteva riceverci.

            Fino
ad oggi, R. M. è ancora vivo e può attestare quello che dico qui e che, in ogni modo, si trova registrato
nella nostra corrispondenza. Devo dire che, in seguito, ho continuato ad
intrattenere con W. Höttl una corrispondenza. Gli ho suggerito di lasciare ai
posteri uno scritto in cui ristabilirebbe la verità. La sua risposta e le
lettere che ne sono seguite mostrano un uomo deciso a rifiutare il mio
suggerimento ma turbato. Nel 1997, pubblicherà Einsatz für das Reich (Al
Servizio del Reich) (Coblenza, edizioni S. Bublies). Curiosamente, nella parte
consacrata a “Eichmann ed i sei milioni”, si mostrerà discreto e sfuggente
sulla parte essenziale dell’argomento e arriverà al punto di scrivere: “questa
cifra dei 6 milioni sembra essere in ogni modo magica” (Diese Zahl von 6
Millionen scheint irgendwie magisch zu sein
) (p. 83). Certe sue
osservazioni saranno francamente revisioniste (p. 82-85 e 420-423) ma egli avrà la precauzione di concludere con una
professione di fede olocaustica che qualificherei da verbale. Morirà due anni
più tardi all’età di 84 anni. La storia ricorderà la sua vigliaccheria. Ma
Höttl può vedersi riconoscere delle circostanze attenuanti: in un primo
momento, personalmente, se egli avesse rifiutato di collaborare con gli
Americani, sarebbe stato consegnato agli Ungheresi, che l’avrebbero impiccato;
successivamente, avrebbe dovuto essere un eroe per sfidare contemporaneamente
la giustizia dei vincitori, la polizia ebraica del pensiero e questa religione
dell’“Olocausto”, avvolta da un’aura di sacro terrore e che, a poco a poco,
negli anni 80 invaderà tutto l’Occidente.

Il bilancio

            Finora,
sul piano strettamente storico e scientifico, il bilancio è disastroso per i
sostenitori della verità ufficiale. Non rimane più pietra su pietra
dell’edificio costruito dal Tribunale di Norimberga nel 1945-1946, dal
Tribunale di Gerusalemme nel 1961, così come da Léon Poliakov, Gerald
Reitlinger, Raul Hilberg ed una folla di autori principalmente ebrei. Per
limitarci ai tre elementi essenziali dell’accusa portata contro Adolf Hitler ed
il III° Reich, nessuno, nei sessantacinque anni e più che sono seguiti alla
guerra, ha potuto trovare un solo ordine di uccidere gli ebrei, né una sola
prova che sia esistita una sola camera a gas o un solo camion a gas omicida, né
una sola prova che sei milioni di ebrei europei siano stati assassinati o anche
solamente abbiano trovato la morte durante la Seconda Guerra mondiale. Quando
il revisionista americano Bradley Smith, responsabile della Committee for Open
Debate on the Holocaust (CODOH), domanda ai professori universitari del suo
paese di volergli fornire, prova alla mano, il nome d’una sola persona che sia
morta in una camera a gas d’Auschwitz, gli si risponde con l’insulto o il
silenzio; perché?

       Da parte sua, E. Wiesel ha scritto nel
1994: “Le camere a gas, è meglio che restino chiuse a sguardi indiscreti. E
all’immaginazione” (Tous les fleuves vont à la mer / Mémoires,
Parigi, Seuil, 1994, p. 97) (Let the gas chambers remain closed to
prying eyes, and to imagination
, All Rivers Run to the Sea, Memoirs,
New York, Knopf, 1995, p. 74); con ciò egli ci fa una confessione, quella di un
terribile imbarazzo che condivide con i suoi simili, storici compresi. Quando
aggiunge: “Non si saprà mai ciò che è avvenuto dietro le porte d’acciaio”, si
lascia andare alla sua “immaginazione” poiché la sola pretesa “camera a gas”
che si possa visitare ad Auschwitz possiede due comunissime porte di legno, di
cui una è in parte di vetro (e si apre verso l’interno, laddove si sarebbero
accumulati i cadaveri!); quanto alla terza apertura, essa offre libero accesso
al locale contemporaneamente dei forni, del deposito di coke e delle urne: questi forni, arroventati talvolta a 900°,
sarebbero stati ubicati nell’immediata vicinanza della “camera a gas” piena di
un prodotto (di disinfezione, lo Zyklon B) che lasciava sprigionare del gas
cianidrico, un gas conosciuto per la sua caratteristica di essere esplosivo!
Nel secondo volume delle sue Mémoires Wiesel ritorna su questa
necessità di nulla dire, nulla raccontare, nulla immaginare in merito alle
pretese “gasazioni”: “Credo di saper tutto, di indovinare tutto sulle ultime
ore delle vittime. Non dirò nulla. Immaginare sarebbe indiscreto. Raccontare
sarebbe indecente
” ed aggiunge che, in quel luogo, ad Auschwitz-Birkenau, “proprio
mentre ci avviamo verso il luogo in cui gli uccisori avevano costruito le
loro camere a gas e i loro crematori
[in realtà, delle rovine di semplici
crematori – RF], bisogna stringere i denti e reprimere il desiderio di
urlare
”. Eppure con i suoi compagni ebrei egli va dapprima a mormorare, poi
il mormorio diviene un pianto, il pianto d’una comunità divenuta pazza,
pazza di dolore e di lucidità
(et la mer n’est pas remplie / Mémoires 2,
Parigi, Seuil, 1996, p. 291 [1]). Ancora più
avanti Wiesel ripeterà: “Io mi proibisco di immaginare ciò che è avvenuto
all’interno delle camere a gas, non facendo altro che seguire con lo sguardo i
vivi che vi entravano per morire soffocati” (p. 482). Qui siamo in pieno pathos.
Ne La Nuit non si trova alcuna menzione delle “camere a gas”;
Wiesel lì ci racconta che ad Auschwitz come a Buchenwald è all’aria aperta, nel
fuoco dei bracieri, che i Tedeschi sterminavano gli ebrei. Nella traduzione
tedesca del suo libro, le “camere a gas” fanno irruzione: in quindici occasioni
il traduttore ha inserito la parola “gas” laddove l’autore non l’aveva fatto
(vedere: “Un grand faux témoin: Elie Wiesel (suite)” sia nei miei Ecrits
révisionnistes (1974-1998)
, p. 1526-1529, sia nel mio
blog a http://robertfaurisson.blogspot.it/1986/03/un-grand-faux-temoin-elie-wiesel.html). È François Mauriac che, nella
sua prefazione, aveva parlato della “camera a gas” nonché del “forno alimentato
da creature viventi” e, per cominciare, aveva ricordato “questi vagoni
imbottiti di bambini” (p. 10; qui si sarà notata la parola “imbottiti” e la
totale assenza di ogni bambina). L’intellettuale cattolico Mauriac (“Anus
Dei
”, secondo un’espressione attribuita a Paul Léautaud) era stato sedotto
dal giovane Wiesel e non poteva rifiutargli nulla. La traduzione del libro in
inglese non manca d’interesse (Night, New York, Bantam Books, nell’edizione tascabile del 1982, con, nel frontespizio, la seguente precisazione:
This edition contains the complete text of the original hardcover edition [1960].
NOT ONE WORD HAS BEEN OMITTED, XIV, 111 p.). La prefazione di F. Mauriac
è l’oggetto di alcune trasformazioni o attenuazioni significative: in tre
riprese “Israeliano” o “israeliano” è tradotto con “Jew”; l’“occhio blu”
del giovane Elie Wiesel si trasforma in “dark eyes”; “milioni di morti”
si attenuano in “thousands of dead” e, soprattutto, “questi vagoni
imbottiti di bambini” divengono “those trainloads of little children”.
All’inizio del capitolo II di La Nuit si poteva leggere
nell’edizione francese originale (1958) che, nei vagoni riempiti di 80 persone,
“liberati da ogni censura sociale, i giovani si lasciavano andare apertamente
ai loro istinti e col favore della notte, si accoppiavano in mezzo a noi, senza
preoccuparsi di chi ci fosse, soli al mondo.
Gli altri facevano finta di non veder nulla”. Nelle edizioni più recenti, ad
esempio nel 2007, “si accoppiavano” è diventato “si toccavano”. Le traduzioni
in inglese hanno talvolta conservato “to copulate” (The Night
Trilogy
, Paperback edition, first published 1987, Canada,
Harper, Collins, fifteenth printing, 1997) ed altre hanno scelto “to flirt”.
Con Elie Wiesel, o che parli o che scriva, le trasformazioni e gli imbrogli si
incontrano ad ogni angolo di strada.

            Durante
tutta la sua esistenza pubblica “il papa della religione dell’Olocausto” ha
supplito al fallimento degli storici ufficiali. Noi non abbiamo una sola prova,
un solo documento per provare “l’Olocausto” ma abbiamo le prestazioni del clown
Elie Wiesel e dei suoi accoliti. Laddove un argomento storico così importante
esigeva degli storici seri, noi non abbiamo che degli istrioni; Elie Wiesel è
il primo di loro: un clown, un istrione coronato da un Premio Nobel. 

Una buona novella per la povera
umanità

            Grazie
ad Internet, le acquisizioni e le vittorie del revisionismo vanno ad essere
infine alla portata del mondo intero. Per E. Wiesel ed i suoi emuli, per le
organizzazioni ebraiche nel loro insieme, per i sionisti e lo Stato d’Israele,
la novella è cattiva ma, per la comune umanità, essa è buona. Ritenuta capace
di ogni orrore possibile, l’umanità non ha commesso l’orrore supremo che
sarebbe consistito nel voler freddamente sterminare tutta una “razza”, in
particolare in vere e proprie fabbriche di morte. Questo “crimine dei crimini” non è
stato commesso: la Germania non ha commesso l’irreparabile. Essa è stata
atrocemente calunniata. Si è giunti ad uccidere persino la sua anima? Il futuro
ce lo dirà. 

            Durante
66 anni, partendo dal principio che questo orrore senza precedenti s’era
incontestabilmente prodotto, siamo stati sommersi dalle stesse antifone: “Come
il paese di Goethe e di Beethoven, la patria di tanti grandi spiriti, di
sapienti, di benefattori dell’umanità ha potuto commettere il crimine dei
crimini?” o ancora: “Come ha potuto tacere il mondo? Come si spiega che il Papa
Pio XII, così ostile ad Adolf Hitler, non abbia mai denunciato un tale crimine
né durante né dopo la guerra?” o: “Come si spiega che né nelle loro
dichiarazioni né nelle loro rispettive memorie Churchill, Eisenhower, de
Gaulle, pur essendo spietati nelle loro denunce dei crimini del nazionalsocialismo,
non abbiano mai menzionato queste camere a gas che erano per eccellenza l’arma
di distruzione di massa degli ebrei?” o: “Come si spiega che tanti ebrei –
chiamati per derisione “ebrei bruni” – abbiano accettato nei paesi occupati
dall’armata tedesca o nei ghetti o nei campi di collaborare con i Nazisti?” o
infine: “Che significa questo silenzio generale delle nazioni e, in
particolare, quello della Svizzera e quello del Comitato internazionale della
Croce Rossa di fronte a questo Olocausto in quel momento in corso?”. Queste
domande ed altre della stessa natura hanno una risposta: il crimine dei
crimini non è stato commesso.
Gli ebrei sono stati trattati dalla Germania
nazional-socialista come dei nemici dichiarati o potenziali ma essi non sono
mai stati destinati allo sterminio fisico: durante una guerra totale in cui
milioni di civili sono morti, molti civili ebrei sono morti ma molti sono
sopravvissuti. Più di sessantacinque anni dopo la guerra attendiamo sempre
delle stime che possano essere verificate.

            Dopo
la guerra i sopravvissuti o i miracolati ebrei si sono contati a milioni, e
questo fino al punto di popolare un nuovo Stato, quello di Israele, e di
disperdersi in una cinquantina di paesi del vasto mondo. 

I tempi cambiano in fretta e profondamente 

            L’“Olocausto”
passerà alla storia come una delle più favolose imposture di tutti i tempi. Lo
Stato d’Israele non ha dovuto fin qui la sua sopravvivenza che a questa
impostura che, ai suoi occhi, giustifica la rapina di un territorio, un crudele
apartheid e la guerra perpetua: questo Stato si avvia, anch’esso, alla propria
rovina. Le organizzazioni ebraiche della diaspora hanno fallito. La loro
arroganza, le loro pressioni, i loro modi di procedere di ricattatori, i loro
costanti appelli alla repressione contro coloro che aprono, uno dopo l’altro,
le scatole nere dell’“Olocausto” non hanno potuto impedire lo sviluppo
attraverso il mondo d’uno scetticismo e d’una stanchezza generalizzata nei
riguardi dei racconti che illustrano il preteso carattere eccezionale
dell’incomparabile sofferenza ebraica. Gli ebrei nel loro insieme hanno avuto
dei malvagi pastori, che li conducono verso l’abisso. Essi farebbero bene ad
ascoltare quelli di loro, per il momento in piccolo numero, che, a voce bassa o
a voce alta, denunciano la Grande Impostura dell’Olocausto, la Grande Impostura
dello Stato d’Israele ed i Grandi Falsi Testimoni del tipo di Elie Wiesel.

            I
revisionisti hanno scoperto le sinistre scatole nere dell’“Olocausto”, le hanno
aperte e ce ne hanno decifrato il contenuto. Essi sono stati in grado di
smascherare gli apostoli o i discepoli d’una religione secolare fondata
sull’orgoglio, la menzogna, l’odio e la cupidigia. A tutti gli uomini, senza
distinzione, i revisionisti possono arrecare un sollievo: essi ci insegnano
che, benché capace di ogni orrore, ciononostante l’umanità non ha mai commesso
l’innominabile massacro che, dopo parecchie generazioni, certuni le osano
rimproverare ad ogni ora del giorno o della notte esigendo sempre più
compensazioni finanziarie, sempre più privilegi. Eccoci oggi di fronte ad una
religione secolare, quella dell’“Olocausto” o della “Shoah” che per sempre resterà
nella storia come il disonore degli uomini
. Questa religione è nata nel
mondo occidentale, vi si è sviluppata con una rapidità fulminea ma già si avvia
verso la sua decrepitezza. Il resto del mondo non la vuole e talvolta la
rigetta espressamente. L’Occidente “giudeo-cristiano” dovrà rendersene conto
e seguire l’esempio che gli offre il resto del mondo

Traduzione a
cura di Germana Ruggeri

[1] Le parti in corsivo non
figurano nell’edizione inglese. Secondo un ricercatore americano, la
traduttrice, Marion Wiesel, moglie di Elie Wiesel, aveva già per il passato
deliberatamente alterato la traduzione di alcune parole e, in parecchi passi
de La Nuit, essa aveva fatto uso di questa pratica per rettificare le
confusioni nella cronologia del racconto. Questo ricercatore, che padroneggia
perfettamente il francese, ci informa ugualmente che, come è qui il caso,
Marion Wiesel ha talvolta scelto di omettere alcune parole o alcune frasi
nell’idea che una traduzione fedele offrirebbe il risveglio al lettore di
lingua inglese che scoprirebbe che dopo tutto E. Wiesel non è un testimone
degno di fede.

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