Guido Salvini: PIAZZA FONTANA O DELLA PERSEVERANZA

Guido Salvini: PIAZZA FONTANA O DELLA PERSEVERANZA

Da Guido Salvini ricevo e volentieri pubblico questo testo pubblicato nell’ultima edizione appena uscita del libro “Nessuno è stato”, di Fortunato Zinni, bancario sopravvissuto alla strage e attualmente sindaco di Bresso.

PIAZZA FONTANA O DELLA PERSEVERANZA

Di Guido Salvini – magistrato
Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, incontrando a Milano nel dicembre 2009, quarantesimo anniversario di piazza Fontana, i famigliari delle vittime della strage e anche i congiunti di Giuseppe Pinelli e del commissario Luigi Calabresi, aveva esortato a conservare vivo nella memoria del Paese il ricordo e il significato di quell’eccidio e, rivolto alla magistratura, a cercare ancora ogni “fram­mento di verità”.
È stata ascoltata questa esortazione?
Qualcosa è avvenuto ma incomprensibili ostacoli burocratici, insensibilità politica e la poca attenzione di chi sarebbe chiamato a cer­care ancora qualche pezzo di verità hanno in gran parte vanificato questo messaggio.
Per spiegarlo dobbiamo ricordare tre eventi che da quel giorno si sono aggiunti alla storia di piazza Fontana.
Nell’autunno 2010 è giunto alla conclusione il lungo lavoro di digitalizzazione di tutti gli atti del processo di Catanzaro, le cui carte rischiavano di deteriorarsi irrimediabilmente in un vecchio deposito.
Questa iniziativa era stata resa possibile nel 2007 dall’impegno del Ministro di Giustizia che, durante il governo Prodi, aveva stanziato i fondi necessari. Si era così aggiunta all’autonoma ed encomiabile iniziativa curata dal Tribunale di Cremona che, affidando il lavoro a detenuti come momento di recupero sociale, aveva già consentito la digitalizzazione di tutti gli atti delle indagini riaperte a Milano negli anni ’90 e del processo poi celebrato nella nostra città.
I 9 CD che contengono tutti gli atti dei processo di Catanzaro sono stati ufficialmente presentati in una manifestazione che si è svolta, nel 41° anniversario della strage, in una sala comunale di tale città, alla presenza del Sindaco e delle associazioni della società civile che avevano fatto partire la battaglia per il salvataggio di quegli atti dalla distruzione.
I documenti di quel processo non sono infatti semplici atti giudiziari ma una fotografia insostituibile di una parte della storia dell’Italia contemporanea in cui la sfilata di neonazisti protetti dal SID, di ufficiali dei Servizi segreti e del Ministero dell’interno, di Ministri che invocano il segreto di Stato racconta le collusioni, i compromessi e le ambiguità con i quali una parte delle istituzioni è giunta a sacrificare la verità sulla morte di 17 cittadini pur di salvaguardare interessi ed equilibri politici, anche internazionali, che in quegli anni sembravano incrinati portando ad aperture a molti potenti non gradite.
Molti, studiosi, studenti, semplici cittadini sono ancora oggi interessati, e lo testimonia la partecipazione alle manifestazioni in ricordo di piazza Fontana, a studiare quelle carte sino a ieri non consultabili.
Ma il frutto di questo lavoro è divenuto oggi accessibile a tutti ?
Purtroppo non ancora.
I nove CD, per una incomprensibile resistenza, sono ancora considerati dal Ministero copie di “atti giudiziari” e non atti pub­blici come sarebbe stato logico pensare una volta conclusa la loro digitalizzazione.
Non sono quindi a tutt’oggi, in tempo di internet, ancora consultabili da chi ne abbia interesse, uno studente per scrivere une tesi, un circolo culturale per organizzare un dibattito.
Le copie possono esse­re rilasciate solo al termine di una complessa procedura burocratica che comporta anche il pagamento dei “diritti” ammontanti a varie migliaia di euro.
È stato così vanificato in gran parte il senso dell’iniziativa e di tanta fatica: gli atti sono digitalizzati ma nessuno o quasi li può leggere.
Questo inaspettato ostacolo deve essere superato. Gli atti di Catan­zaro, come quelli di altri processi che hanno segnato la storia d’Italia, dovrebbero essere collocati in un sito internet ufficiale del Ministero e le copie dei CD dovrebbero essere rilasciate a chi ne fa richiesta ad un semplice prezzo di costo o comunque a prezzo simbolico, senza pagare i “diritti” come avviene in Tribunale per le copie di un pro­cesso in corso.
Solo in questo modo il lavoro svolto assolverà il suo significato che è quello di conservare e diffondere la memoria anche tra i più giovani che non hanno vissuto quegli eventi.
Nel dicembre 2010, un appello al Capo dello Stato promosso da giornalisti, parlamentari, storici, magistrati e poi firmato da oltre 50.000 cittadini ha chiesto la piena attuazione della legge 3.8.2007 n.124 che regola i Servizi di informazione e il segreto di Stato e che pre­vede che, trascorso 30 anni da un evento, nessuna classifica di riser­vatezza sia più opponibile. L’appello ha chiesto che tutti i documenti del passato diventino pubblici e consultabili per facilitare la ricerca storica. Accessibilità quindi e completa catalogazione e pubblicità, sul modello del Freedom of Information Act statunitense, di tutti i do­cumenti non solo dei Servizi segreti ma anche dei Carabinieri, della Polizia e della Guardia di Finanza ed anche degli archivi diplomatici e politici.
Un completo cambio di rotta quindi non solo rispetto ai segreti di un tempo ma alle proposte emerse proprio in quei mesi nelle bozze di progetto dei decreti attuativi della legge del 2007 con le quali si proponeva addirittura l’inaccettabile possibilità di reiterare il segreto di Stato anche trascorsi i 30 anni.
Per rendere realizzabile la proposta contenuta nell’appello al Presidente della Repubblica, se si preferisse non rendere immediatamen­te pubblica tale documentazione senza limitazioni, basterebbe poco.
Sarebbe sufficiente che il Ministero della Cultura, che potrebbe essere individuato simbolicamente come luogo di verità, potesse nominare una Commissione formata da storici, studiosi ed esperti di ricerche d’archivio, autorevoli ed indipendenti. Una Commissione incaricata del compito di controllare la catalogazione di tali archivi, ed esaminare in modo sistematico le carte che si riferiscono, direttamente o indirettamente o per il loro contesto politico, a piazza Fontana a tutti quegli eventi tragici che hanno condizionato e inquinato la vita del nostro Paese e che tanti cittadini non hanno dimenticato.
Sarebbe uno strumento semplice, con ogni garanzia e poca spesa e un passo importante nella ricerca di “più verità”.
Ma anche l’Autorità giudiziaria, preposta ad indagare, non ha concluso il suo compito anche se vi è chi ritiene, credo sbagliando, che ta­le compito sia terminato dopo la sentenza della Cassazione del 2005.
È trascorso ormai un anno e mezzo da quando, nell’autunno del 2009, i famigliari delle vittime di piazza Fontana hanno diretto alla Procura di Milano una motivata richiesta di riapertura delle indagini.
Nuovi documenti e nuovi testimoni erano infatti apparsi e altri, anche in modo spontaneo, sono emersi anche più di recente. Nuo­ve piste investigative percorribili si sono delineate, che non possono sfuggire a chi ha esperienza di queste cose.
Eppure la Procura di Milano non ha in alcun modo risposto alla ri­chiesta dei famigliari, è rimasta muta, non ha mandato alcun segnale di impegno anche se sarebbe costato poco.
Purtroppo questa scelta sembra la continuazione di quanto avvenuto negli anni ’90, quando le nuove indagini su piazza Fontana furono considerate meritevoli di poca attenzione, senza profondere quindi le energie migliori che, volendo, non sarebbero mancate. Un magistrato pur di grande valore come il Procuratore capo Borrelli finì ad affidarle a sostituti appena arrivati in Procura e privi di qualsiasi esperienza in materia di eversione politica.
Una sottovalutazione dell’impegno richiesto che ha inciso non poco sull’esito finale come incise allora la volontà della Procura di aprire un incomprensibile conflitto con chi scrive, allora Giudice Istruttore, a colpi di esposti e di azioni disciplinari al CSM. Azioni che si risolsero nel nulla ma pregiudicarono lo sviluppo delle indagini e giovarono invece e solo agli ordinovisti imputati.
Non di tutto ciò che di nuovo giunge, per vie diverse, su piazza Fontana sarebbe prudente parlare per non pregiudicarne i possibili sviluppi.
Ma una vicenda centrale – in parte già narrata nel testo teatrale “Segreto di Stato” di Fortunato Zinni e del regista Silvio Da Rù che accompagna questo volume – testimonia la poca cura di ieri e di oggi nel coltivare il lavoro sulla strage.
Il collaboratore Carlo Digilio, nell’indagine del Giudice Istruttore, aveva a lungo parlato di un casolare isolato nelle campagne di Paese, una località vicino a Treviso, utilizzato come “santabarbara” dagli or­dinovisti veneti, tra cui Ventura, Freda e Zorzi, per custodirvi armi ed esplosivi e in cui, con l’aiuto dello stesso Digilio, erano stati appronta­ti molti degli ordigni usati per la campagna di attentati del 1969.
Il casolare era però ormai scomparso ed essendo noto solo ad una  ristretta cerchia di militanti nessuno oltre a Digilio ne aveva parlato.
La mancanza di specifici riscontri a questa parte decisiva del suo racconto era stata giudicata dalla Corte di Assise di Appello, in modo peraltro discutibile poiché si trattava di un racconto molto dettagliato, uno dei motivi centrali per pervenire all’assoluzione degli imputati.

La Procura di Milano, in vista del dibattimento, aveva raccolto a Catanzaro gli atti del vecchio processo che potevano essere di riscontro alle nuove dichiarazioni. Ma aveva lasciato a Catanzaro proprio l’agenda di Ventura del 1969, l’agenda acquisita negli anni ’70 proprio dal dr. D’Ambrosio, ancora in servizio a Milano, e ora infelicemente dimenticata.

Infelicemente perché in quei fogli vi erano scritti più volte con la mano di Ventura il nome di Digilio e il nome di Paese, un riscon­tro importante e risalente a tempi non sospetti che così era andato perduto.

Ma era andato perduto anche più di quanto non si immaginasse.

Anni dopo un altro ufficio, la Procura di Brescia che stava indagando con impegno sulla strage di Piazza della Loggia e aveva dissodato anch’essa gli atti di Catanzaro, ha trovato invece l’agenda e ha notato un nome nuovo che portava direttamente a quel casolare e al racconto di Digilio. L’agenda e il dato erano così arrivati a Milano.

I famigliari delle vittime di piazza Fontana nella richiesta di riapertura delle indagini hanno segnalato questo elemento nuovo ma nemmeno ciò ha spinto la Procura di Milano, nel 2009, a cercare.

Eppure, e questa è storia di oggi, la strada indicata da Brescia, un  grande passo in avanti nella ricerca della verità di cui un giorno si potrà parlare, sembra davvero quella giusta. Qui ci fermiamo.

Altre indagini sono state riaperte in questi anni, da ultimo a Roma quella sull’omicidio irrisolto del giovane di sinistra Valerio Verbano ucciso nel 1980. Piazza Fontana no, o non ancora, se non per la giustizia nemmeno per avere una verità più completa.

La convinzione che nulla si possa fare non sempre protegge dall’ostinazione ma ne è talvolta il suo specchio, diventa ostinazione a non fare, che non è più una virtù. Allontana allora dalla perseveranza che è la volontà razionale nel cercare il giusto.

Quella perseveranza cui ci ha richiamato il Presidente della Repubblica, ricordando che la strage di piazza Fontana è imprescritti­bile non solo per il codice penale ma per la storia del nostro Paese ricordando che abbiamo il dovere, come magistrati, di continuare a cercare ogni “frammento di verità”.

Dovremmo, davvero, a Milano, ascoltarlo.

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