2. L’informatore Pisetta[1]
L’attentato alla pista di prova della Pirelli di Lainate aveva rappresentato il vero battesimo di fuoco delle Brigate Rosse, in quel periodo già abbondantemente infiltrate dai servizi di sicurezza. Un’azione alla quale ne seguirono altre, che suscitarono ancora maggiore clamore, come il sequestro di poche ore del direttore dello stabilimento Sit-Siemens, Idalgo Macchiarini, rapito il 3 marzo 1972, trasportato in una prigione del popolo ricavata nel retro di un furgone, legato, minacciato con una pistola e fotografato con appeso al collo un cartello con scritto: «Brigate rosse. Mordi e fuggi. Niente resterà impunito. Colpiscine uno per educarne cento. Tutto il potere al popolo armato»[2]. Era il primo di una serie di minisequestri che sarebbero culminati, due anni dopo, nell’operazione Sossi. Di Macchiarini prigioniero, le Br inviarono all’Ansa una foto tagliata perché i volti dei terroristi non comparissero e affidarono a Mario Moretti i negativi da custodire nella base di via Delfico. Ma il leader del dopo Curcio si dimostrerà quantomeno incauto, tanto da lasciare in un luogo facilmente accessibile un negativo in cui era chiaramente visibile il volto di Giacomo Cattaneo, il «lupo» che aveva partecipato all’azione. Così, quando la polizia arriverà su indicazione di Marco Pisetta nel covo, il «lupo» sarà immediatamente identificato.
Buon conoscente di Renato Curcio fin dai tempi di Trento, Marco Pisetta era entrato nell’organizzazione tramite Italo Saugo «garantito» dallo stesso Curcio. Quando entrò nell’organizzazione terrorista, Pisetta era già in contatto da un paio d’anni con il Sid, che probabilmente si era dato da fare perché fosse scarcerato il 30 maggio 1970, dopo pochi mesi di prigione per alcuni attentati commessi l’anno precedente contro il palazzo della Regione e la sede dell’Inps a Trento. La stessa cosa avvenne il 2 maggio 1972, quando l’ex componente dello strano Gap di Trento verrà catturato davanti al covo di via Boiardo; in tre giorni sarà «ufficialmente» rilasciato dopo aver offerto tutta la collaborazione. Secondo i brigatisti, al momento della sua cattura, Pisetta aveva già aiutato gli inquirenti, indicando quali fossero le basi dell’organizzazione. Si sarebbe trattato dunque di un arresto «di facciata». Racconterà due anni dopo l’uomo del Sid: «Quando la notte del 7 maggio mi lasciarono uscire dal carcere di San Vittore, mi dissero di andare all’estero e di non mettere più piede in Italia[3]». Il confidente del Sid infatti se ne andò ad Innsbruck, dove venne nuovamente cercato dai carabinieri del tenente colonnello Santoro e convinto a «collaborare» ancora. Le sue poco spontanee dichiarazioni non convinceranno il giudice istruttore milanese Ciro De Vincenzo, convocato a Trento per ascoltarlo. Saranno ritenute sufficienti, invece, dal sostituto procuratore di Genova, Mario Sossi, per firmare quattro ordini di cattura contro Vittorio Togliatti, nipote del segretario del Pci, Aristo Ciruzzi, Marisa Calimodio e Giovanni Battista Lazagna. Una pista che si rivelerà fasulla.
Quanto sia stato necessario convincere Pisetta a collaborare non è chiaro, visto che il gappista era da tempo un uomo del colonnello Santoro, a sua volta conoscente di Italo Saugo e indicato come uno dei protettori del Mar di Fumagalli. Racconterà il capo di Stato maggiore della divisione dei carabinieri Pastrengo, Gastone Cetola: «All’epoca [Santoro, nda] stava lavorando sulle Br ancora in embrione e aveva un confidente che successivamente ho saputo essere Marco Pisetta»[4]. E il confidente verrà nuovamente utilizzato dal Sid alcuni mesi più tardi, dopo essere stato costretto a trasferirsi a Pochi di Salorno, in provincia di Bolzano, in una villa affittata dal fratello di un carabiniere. Lì scrisse sotto dettatura un lungo memoriale con notizie parzialmente vere unite ad altre totalmente false, secondo il miglior stile dei depistaggi. Il documento, autenticato da un notaio di Monaco di Baviera, venne inviato al sostituto procuratore milanese Guido Viola. Scriverà il giudice istruttore Antonio Amati: «Fu subito chiaro che il Pisetta era stato strumentalizzato per coinvolgere in una dura caccia alle streghe alcuni esponenti della sinistra extraparlamentare più in vista. Pisetta un bel giorno sconfessò pubblicamente il suo memoriale affermando che l’aveva scritto sotto la direzione e la costrizione di uomini del Sid. Non abbiamo motivo di dubitare che quanto detto dal Pisetta possa rispondere a verità. Si tratta di un episodio di inaudita gravità[5]». Una volta autenticata la firma, il 29 settembre 1972, il Sid lascerà libero il suo collaboratore che si trasferirà in Germania, a Friburgo.
Una fuga di notizie farà poi in modo che, nel gennaio 1973, Il Borghese di Mario Tedeschi, il Giornale d’Italia, il Secolo d’Italia, l’Adige diretto da Flaminio Piccoli e lo Specchio pubblicheranno il contenuto del memoriale. Un’operazione propagandistica e depistante. Il racconto di Pisetta, infatti, verrà usato strumentalmente dai referenti atlantici per indicare con forza il pericolo rosso, mentre la sostanziale inattendibilità delle confessioni finirà con il mascherare anche i pochi elementi di verità contenuti nel racconto, con il risultato di coprire alcune piste che, probabilmente, si sarebbero dimostrate assai utili per comprendere la vera entità del fenomeno brigatista. Una di queste portava ai terroristi di Superclan che in seguito avrebbero fatto riferimento alla scuola di lingue Hyperion [foto] di Parigi.
A differenza di quanto era accaduto per «Raffaele», le Br quando scoprirono il doppio gioco di Pisetta decisero di ucciderlo. La spia era stata localizzata a Friburgo. Per poter entrare in azione i brigatisti avevano anche chiesto all’Autonomia operaia di mettere a loro disposizione punti di appoggio in Svizzera, soprattutto vicino al confine con la Germania. Carlo Fioroni raccontò di un incontro a Basilea tra lui, lo svizzero Gerard de la Loy, Alberto Franceschini e Roberto Ognibene[6]. L’inchiesta per scoprire la spia era stata affidata dalle Br ad Aldo Bonomi, un altro degli inquilini della «casa comune» dell’eversione. Anche i servizi segreti israeliani si daranno da fare per fornire interessate informazioni ai terroristi. Marco Pisetta però non sarà ucciso, ma solo perché le Br fallirono l’operazione a Friburgo. Dopo molti anni di latitanza il «pentito» si costituirà nell’ottobre 1982 ai carabinieri di Domodossola. Ma anche questa volta in cella non rimarrà a lungo. Dopo essere stato trasferito nel carcere bresciano di Canton Mombello e aver ottenuto il permesso per lavorare all’esterno, nel 1986 sarà graziato da Francesco Cossiga. Una delle prime domande di grazia accolte dal presidente della Repubblica.
Il processo Amerio
Le Brigate rosse torneranno in azione solo nel febbraio 1973, dopo un lungo periodo di silenzio, sequestrando a Torino il sindacalista della Cisnal Bruno Labate. L’uomo verrà picchiato, incappucciato e «processato» per cinque ore. Dopo l’interrogatorio Labate sarà raso a zero, come si usava nell’immediato dopoguerra con i collaborazionisti, e verrà fotografato. I terroristi lo incateneranno poi senza pantaloni al cancello numero uno della Fiat Mirafiori con appeso al collo un cartello: «Questo è Bruno Labate, segretario provinciale della Cisnal, pseudosindacalista fascista che i padroni mantengono nelle fabbriche per dividere la classe operaia, per organizzare il crumiraggio, per mettere a segno aggressioni e provocazioni, per infiltrare ogni genere di spie nei reparti[7]». Tre giorni dopo la polizia scoprirà attraverso un’impronta digitale rilevata sull’automobile del rapimento che del commando aveva fatto parte Paolo Maurizio Ferrari, modenese, ex operaio alla Pirelli-Bicocca.
Dopo un’irruzione nella sede dell’Unione cristiana imprenditori di Milano (Ucid), la strategia dei minisequestri continuerà con il rapimento di Michele Mincuzzi, dirigente dell’Alfa Romeo di Arese, specialista in organizzazione del lavoro, catturato il 28 giugno 1973 mentre rientra in casa. Anche in questo caso il sequestrato verrà sottoposto a processo e rilasciato la notte stessa dopo essere stato incatenato vicino alla fabbrica con un cartello appeso al collo. Ma è con il cavaliere Ettore Amerio, capo del personale della Fiat settore auto, che le Br danno il via alle operazioni di lunga durata. Amerio era stato rapito il 10 dicembre 1973 e portato in una prigione del popolo per essere sottoposto a processo. Per il suo rilascio le Br porranno il giorno stesso tre condizioni: il ritiro della minaccia di cassa integrazione avanzata dalla Fiat durante le trattative per il rinnovo dei contratti; la disponibilità del prigioniero a collaborare e che la vicenda fosse seguita con obbiettività dai giornali italiani, soprattutto dalla Stampa degli Agnelli.
L’operazione Amerio durerà otto giorni e il 13 dicembre i terroristi manderanno una foto del dirigente Fiat appoggiato allo stendardo brigatista insieme con i comunicati per rendere note le varie fasi del processo. «Negli otto giorni di detenzione Amerio è stato sottoposto a precisi interrogatori sulle questioni dello spionaggio Fiat, dei licenziamenti, del controllo delle assunzioni, delle assunzioni selezionate di fascisti[8]». Poi Amerio verrà rilasciato all’alba del 18 dicembre davanti all’ospedale delle Molinette e mostrerà di non nutrire rancore verso i suoi rapitori: «Anche questa è stata un’esperienza di vita, che serve a far maturare e ri[f]lettere profondamente[9]». Il capo del personale della Fiat, poi, non sembrerà nemmeno troppo convinto di dover aiutare gli inquirenti tanto da essere messo sotto accusa e finire in un elenco di presunti brigatisti stilato dal Sid. Un altro depistaggio del servizio segreto, che in quel periodo era in grado di controllare dall’interno le Br. Amerio, poi, al processo deciderà di non costituirsi parte civile, né accetterà di voler riconoscere i suoi rapitori.
Era giunto il tempo della prima grande operazione in grado di portare l’attacco al «cuore dello stato». Per i teorici della guerra non ortodossa era ormai necessario un cambiamento di rotta: i brigatisti si erano già rifiutati in passato di uccidere Junio Valerio Borghese, la loro azione di «propaganda armata» ricalcavano troppo lo schema del guerrigliero benvoluto dal popolo sul modello sudamericano. Occorreva qualcosa di diverso: d’altra parte la strategia atlantica in tutti i manuali dottrinali prevedeva un terrorismo selettivo che uccidesse e seminasse terrore. Il sequestro del giudice Mario Sossi, prescelto come vittima sacrificale della normalità atlantica, avrebbe potuto costituire il primo vero cambiamento di strategia. Ma per tutti coloro che avevano previsto una sua cruenta conclusione l’operazione si dimostrarà un fallimento.
[1] Antonio Cipriani, Gianni Cipriani, SOVRANITÀ LIMITATA – Storia dell’eversione atlantica in Italia, capitolo 7, pp. 208-212. A partire dalla nota 2, le note sono quelle originali del libro. I grassetti sono miei.
[2] Tullio Barbato, Il terrorismo in Italia, cit., p. 58.
[3] L’Espresso, 10 gennaio 1974.
[4] La strategia delle stragi, cit., p. 49.
[5] Atti inchiesta giudice istruttore di Milano Antonio Amati.
[6] L’Unità, 18 febbraio 1980.
[7] Tullio Barbato, Il terrorismo in Italia, cit., p. 66.
[8] Romano Cantore, Carlo Rossella, Chiara Valentini, Dall’interno della guerriglia, Mondadori, Milano, 1978, p. 73.
[9] Ibid.
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