SOLGENITSIN, LA RUSSIA DI PUTIN E LA MINACCIA DELL’OCCIDENTE[1]
Di William Pfaff
Parigi, 2 Maggio 2006 – La difesa fatta la settimana scorsa da Alexander Solgenitsin dell’indipendenza nazionale russa e della politica nazionalista di Putin è fondata, anche se rabbiosa. Quello che un tempo fu un prigioniero del Gulag e un nemico del dispotismo sovietico, l’autore di Una giornata di Ivan Denisovich, di Arcipelago Gulag, e di Agosto 1914 – tra le altre opere – venne accusato di tradimento dalle autorità sovietiche ed espulso nel 1974. Quando tornò, dopo vent’anni di esilio e di volontario isolamento nel Vermont, condannò aspramente la caotica Russia degli oligarchi e del capitalismo mafioso. Ora considera il governo di Putin come il tentativo responsabile di risollevare la Russia dal declino, in un’epoca in cui “le democrazie occidentali attraversano una grave crisi”.
In un’intervista, scritta, con il giornale Moskovski Novosti, ha attaccato gli Stati Uniti e la NATO per quello che ha descritto come “il tentativo di circondare completamente la Russia e di distruggere la sua sovranità”.
Il Premio Nobel per la letteratura del 1970, è sempre stato un critico della modernità che, a suo giudizio, ha prodotto in Occidente un’alienazione devastante, come pure nel suo stesso paese sotto Lenin, Stalin e i loro successori.
Nel suo esilio americano, mise in chiaro che la Russia che sperava di veder subentrare alla Russia sovietica non doveva essere lo stato capitalista liberale che gli americani auspicavano (e che cercarono di installare dopo la liquidazione dell’Unione Sovietica, con sciagurate conseguenze), ma una Russia che dispiegasse la solidarietà cristiana e conservatrice che aveva visto nella Russia del passato.
Oggi, ritiene che l’Occidente sconfitto dalla secolarizzazione e dal materialismo stia minacciando la Russia. “Sebbene sia chiaro che la Russia, in quanto esiste, non costituisce una minaccia per la NATO, quest’ultima sta allargando sistematicamente il proprio dispositivo militare nell’Europa dell’est e sul fianco meridionale della Russia”. La sua intervista ha coinciso con una riunione della NATO tenuta in Bulgaria, dove il ministro della difesa ucraino ha dichiarato l’”irreversibile ambizione” del suo paese di diventare membro della NATO[2].
L’espansione nel 2004 della NATO negli stati baltici venne giustamente considerata dai russi come un tradimento delle assicurazioni date a Mosca, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, che la NATO non avrebbe spinto il perimetro dell’alleanza fino alle frontiere russe. La decisione di agire in tal senso ha contribuito alla creazione di un nuovo clima – di quella che può essere definita una guerra fredda con l’Occidente – ulteriormente perseguito con il finanziamento americano delle “rivoluzioni colorate” in paesi, come la Georgia, che facevano parte dell’impero di Mosca all’epoca degli zar, o come l’Ucraina e la Bielorussia, ad esso strettamente collegati dal punto di vista culturale, e che occupano una zona storicamente ambivalente di mutevoli identità politiche: tra la Russia e la Polonia, dove inizia l’Occidente, alla frontiera tra il cristianesimo ortodosso e quello romano. Washington sta simultaneamente coltivando la propria influenza politica ed ampliando la propria rete di basi militari negli stati già sovietici dell’Asia centrale (come pure, ad ovest, in Romania e in Bulgaria).
La giustificazione è superficialmente ragionevole, e le nazioni coinvolte (o, nell’Asia centrale, i despoti locali) sono contentissime di avere come rifugio, contro le pressioni russe, gli Stati Uniti e la NATO, o almeno (nel caso dell’Asia centrale) di ritrovarsi a mettere Washington contro Mosca.
Ma la domanda cui a Washington deve essere ancora data risposta è se il gioco valga i rischi non solo per gli Stati Uniti e per la Russia, ma anche per il resto del mondo. I rischi erano evidenti anche prima che l’intervista di Solgenitsin esprimesse lo sdegno provato dai russi.
Il governo di Vladimir Putin è stato finora straordinariamente tollerante verso le organizzazioni non governative occidentali – solitamente americane – all’opera nella stessa Mosca, le cui lodevoli intenzioni erano di rafforzare la democrazia, ma le cui azioni e la cui influenza hanno minato un governo, come quello di Putin, sempre più autoritario. È impensabile che un qualunque governo americano (o un qualunque Congresso statunitense) sarebbe ugualmente tollerante verso gruppi di pressione e organizzazioni non governative, finanziati da un governo straniero, che lavorassero negli Stati Uniti per portare la “democrazia reale”, e istruissero i giovani americani nei metodi delle proteste e delle agitazioni politiche che promuovano, anche indirettamente, gli interessi nazionali russi.
Il sostegno della Russia all’Iran rispetto al programma nucleare di questo paese, la sua diversificazione delle vendite energetiche in Asia, il suo tentativo di investire nel settore energetico dell’Europa occidentale, e le sue lagnanze per i “comportamenti sleali” dell’Occidente nei confronti della Russia, sono reazioni a ciò che viene percepita come una minaccia. Naturalmente, tale reazione ha l’effetto di suscitare analoga paura, in Europa e negli Stati Uniti, per l’influenza russa sulle forniture di energia nei paesi occidentali.
Il vice-Presidente americano Dick Cheney questa settimana si trova in Asia centrale per esortare il Kazakistan e il Turkmenistan a sostenere i progetti di quei gasdotti che ridurrebbero l’influenza dell’energia russa. Condoleeza Rice sta giusto cercando di convincere la Turchia e la Grecia ad unirsi ai progetti dei gasdotti che favorirebbero l’Azerbaigian contro la Russia.
Questa è rivalità commerciale, naturalmente, con implicazioni economiche strategiche. Ma quando questa coincide con l’espansione militare americana in Asia centrale e con l’espansione della NATO ai confini europei della Russia, essa quadra graziosamente con l’interpretazione paranoica delle intenzioni americane e occidentali verso la Russia.
Unite tutto ciò alle affermazioni globalmente imperialistiche espresse nella dichiarazione diffusa in Marzo sulla Strategia per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, che propone di cambiare l’intero sistema delle relazioni internazionali a vantaggio dell’America, e non è difficile capire perché Solgenitsin ha detto quello che ha detto.
La reazione delle elite occidentali, alla sua affermazione che gli Stati Uniti “occupano” già la Bosnia, il Kosovo, l’Afghanistan e l’Iraq come parte di una campagna diretta in ultima analisi contro la Russia, è stata solitamente che l’ottantasettenne scrittore esagera. Tuttavia, come molti hanno osservato, anche i paranoici hanno nemici reali.
[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://www.williampfaff.com/modules/news/article.php?storyid=123
[2] Opzione poi accantonata con la vittoria dell’attuale presidente ucraino Yanukovich: http://www.denaro.it/VisArticolo.aspx?IdArt=588915&KeyW=infranse (nota del traduttore).
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