Ho letto sui giornali (non avendo visto la trasmissione) del roboante peana mazziniano pronunciato in tv da Roberto Saviano[1]. Mi perdonino i lettori se confesso un peccato imperdonabile: non ho letto Gomorra. Pur con questo handicap, una certa idea sul personaggio me la sono fatta. Sorvoliamo in questa sede sulla sua contraddizione di fondo (parlare contro i poteri criminali della propria terra e poi schierarsi con i poteri criminali del pianeta Terra[2]) che una certa indignazione l’ha purtuttavia suscitata[3]. Sorvoliamo sull’oleografia risorgimentale propinata domenica dal detto personaggio – “L’Italia nel sogno di Mazzini era un’unica patria indivisibile libera dallo straniero e repubblicana” (patetica, da parte di uno scrittore meridionale, rispetto ad una revisione storiografica ormai di dominio pubblico) – e concentriamoci su un punto specifico: è sicuro Saviano, esaltando quel Sud da cui “è partita la spinta risorgimentale”, di non darsi la zappa sui piedi proprio rispetto a ciò che ritiene di conoscere meglio, e cioè la camorra?
Eh sì, perché uno scrittore importante come Saviano dovrebbe sapere che la camorra, pur presente in Campania da tempo immemorabile, è proprio nel 1860 – durante la transizione tra l’uscita di scena di Francesco II e l’arrivo a Napoli di Garibaldi – che fa il salto di qualità e diventa uno degli innegabili protagonisti del “Risorgimento” partenopeo. Fu infatti l’allora ministro dell’Interno del Regno, Liborio Romano, il mazziniano Liborio Romano che, per sbarazzarsi dei poliziotti di Napoli – rimasti fedeli alla vecchia monarchia – penso bene di sostituirli direttamente con i guappi!
Questa storia incredibile è raccontata da Giuseppe Buttà[4] nel suo UN VIAGGIO DA BOCCADIFALCO A GAETA – memorie della rivoluzione dal 1860 al 1861. Prima di passargli la parola mi sembra opportuno un ragguaglio su Liborio Romano. Padre Buttà lo definisce a ragione, oltre che mazziniano, anche massone. La prova certa della sua appartenenza l’ho trovata nello studio di Luigi Polo Friz LA MASSONERIA ITALIANA NEL DECENNIO POSTUNITARIO – Ludovico Frapolli[5]. A p. 137 del volume in questione troviamo il seguente riferimento:
“Nel 1867 morì Liborio, Ministro dell’Interno e della Polizia generale nell’ultimo governo borbonico. Su di lui esiste una non trascurabile letteratura. Amico di due grandi patrioti, Libertini e Stasi, della Mario Pagano, «divise con loro l’amore per i valori liberal-democratici». Il Bollettino[6] dedicò a Romano due pagine. L’Umanitario gli concesse uno spazio assai più modesto, sebbene il necrologio fosse dovuto: nell’agosto del ’66 lo scomparso era stato nominato «Presidente interino della Sezione Concistoriale all’Oriente di Napoli» ed aveva ringraziato con entusiasmo sia Dominici che Bozzoni”.
L’edizione da me utilizzata dell’opera di Buttà è quella Bompiani del 1985, prefata da Leonardo Sciascia (il brano in questione si trova alle pagine 117-122). Ecco cosa scrive lo storico siciliano:
In Napoli è la setta così chiamata de’ camorristi; e per quelli che non la conoscono è necessario che ne abbiano un’idea; imperocché di questa setta se ne servirono i liberali per far popolo, rumore, dimostrazioni e detronizzare Re Francesco II.
La setta de’ camorristi è molto antica in Napoli; ma alcuni sostengono che sia comparsa con la dominazione spagnuola. Difatti l’origine del nome Camorrista è da Camorra, che in ispagnuolo vuol dire querela. Altri poi dicono che Camorrista viene da Morra ch’è un giuoco ove si commettono soprusi e giunterie. Ed invero i camorristi traggono de’ guadagni sopra i giuochi leciti ed illeciti. Camorrista in Napoli suona ladro, giuntatore, galeotto, accoltellatore, usuraio guappo o sia spacconaccio.
I camorristi generalmente vestono giacca di velluto, calzoni stretti a’ ginocchi, larghi sul piede. Per cravatta usano un fazzoletto a diversi colori, annodato al collo, molto largo con lunghe punte; gilè aperto, berretto o cappello pendente sempre da un lato della testa, capelli lisci, canna d’India in mano e ben lunga, e sigaro in bocca, che chiamano siquario. Quando parlano e si vogliono atteggiare a guappi, o appoggiano un fianco sopra la canna d’India, o aprono e chiudono le gambe abbassando il corpo.
Per essere ammesso tra’ camorristi, è necessario, come essi dicono, essere onorato. Prima fanno il noviziato, ed imparano a maneggiare bene il bastone, il coltello, ed usar bene il linguaggio furbesco. Quando sono giudicati idonei dal Caposquadra, passano al grado di Sgarra, indi a quello di Contaruolo, ch’è una specie di contabile e di cassiere. Per essere Caposquadra un Contaruolo dovrà battersi col coltello con dieci persone separatamente, ferirne almeno tre e non aver mai rifiutata alcuna sfida.
Quando rubano si dividono il bottino secondo i gradi che occupano. Vi sono quelli destinati a fabbricare chiavi false, quelli a fare i borsaioli, i rapinatori, i manutengoli, e gli accoltellatori. Vi sono poi quelli destinati a fare il palo, cioè la spia per avvertire i ladri nell’atto che rubano, se mai occorresse pericolo di essere veduti o arrestati. Vi sono i pedinatori, i quali seguono colui che esce di casa o dal proprio negozio e che dovrà essere derubato: il pedinatore è destinato ad avvertire i colleghi che rubano, che già ritorna il padrone che si sta rubando, per farli scappare via con quello che han potuto sgranfignare.
I camorristi puniscono le trasgressioni, sfregiando col rasoio il trasgressore. Chiamano infame chi fa testimonianza contro qualunque ladro o assassino. Del resto tra loro si proteggono a maraviglia: soccorrono con particolarità i loro compagni carcerati e pagano l’avvocato per difenderli. Qualche volta i camorristi difendono i deboli contro i forti, e fanno da pacieri in qualche diverbio o rissa tra persone a loro non appartenenti.
La gente onesta teme i camorristi, non li accusa alle autorità, e per lo più si sottomette alle loro giunterie, per non essere accoltellata da coloro che restano in libertà.
Vi sono pure in Napoli e dapertutto de’ camorristi in frak e guanti gialli, che spesso si applicano qualche qualità e sono questi i più pericolosi, specialmente per la borsa; perché fanno debiti per non pagarli mai, vivono con lusso, facendo i cavalieri d’industria. Guai se loro domandate il vostro credito, vi dicono male parole, e vi minacciano. I liberali si servirono di questi camorristi aristocratici per creare la classe pensante, come essi dicono.
Questa esiziale piaga del camorrismo è stata e sarà sempre il terrore della città di Napoli. Tutte le dominazioni, che si sono succedute, hanno accusate le precedenti, perché non hanno distrutto la setta dei camorristi, e poi esse medesime han finito per tollerarla, e qualche volta se l’han fatta alleata.
Proclamata la Costituzione, il Ministero liberale fece Prefetto di Polizia Don Liborio Romano, nativo delle Puglie. Era costui un avvocatuccio infelice, o come suol dirsi, avvocato storcileggi: fu carbonaro, massone, mazziniano, e nel 1850 fu messo in carcere, ed in ultimo esiliato. Il 22 aprile del 1854, D. Liborio mandò da Parigi, ove si trovava allora, un’umile supplica al Re Ferdinando II, nella quale protestava: «Devozione e attaccamento alla sacra « persona del Re: e se mai l’avesse offesa inconsapevolmente, pro-« mettea in avvenire una condotta irreprensibile ». Re Ferdinando lo fece tornare nel Regno.
D. Liborio Romano, divenuto prefetto di polizia liberale, si circondò di tutta la Camorra napoletana, ed altra ne fece venire poi dal Regno, e dal resto d’Italia. Di alcuni di quei camorristi non so che novelli poliziotti ne abbia fatto; ad altri diede l’onorevole mandato di far la spia alla gente onesta, designata sotto il nome di borbonica, altri infine, ed erano i più facinorosi, destinò a soffiare nel fuoco della rivoluzione, in mezzo al popolaccio napoletano. Le prime prodezze dei camorristi – sempre diretti da D. Liborio, prefetto di polizia – furono gli assalti dati agli ufficii della vecchia polizia, essendo stata questa troppo curiosa di conoscere i fatti della gente poco onesta, e come intorbidatrice della pace de’ camorristi e de’ settari.
A dì 27 e 28 giugno, dopo tre giorni che si era proclamata la Costituzione, vi furono due assembramenti di camorristi, di lenoni, di monelli e di cattive donne, tra le altre la De Crescenzo e la celebre ostessa detta la Sangiovannara: tutti pieni di fasce e nastri tricolori, con pistole e coltelli, gridavano libertà ed indipendenza, a chi non gridasse in quel modo parolacce e busse.
Il 27 assalirono i due Commissariati di polizia, quello dell’Avvocata e l’altro di Montecalvario. Un certo Mele, capo di quelle masnade, che giravano in armi in cerca della vecchia polizia, ferì a Toledo l’ispettore Perrelli. Costui fu messo in una carrozzella per essere condotto all’ospedale: potea vivere, ma il Mele lo finì nella stessa carrozzella a colpi di pugnale. In compenso di quella prodezza, il Mele fu ispettore di polizia sotto la Dittatura di Garibaldi. Giustizia di Dio…! L’anno appresso il Mele fu accoltellato da un certo Reale, altrimenti detto bello guaglione; svenne, fu messo pure in carrozzella, ma prima di giungere all’ospedale morì.
Il prefetto Don Liborio, vedendo che tutto potea osare impunemente, il 28 riunì un grande assembramento di que’ suoi accoliti, e loro impose di assaltare gli altri Commissariati della vecchia polizia.
Le scene ributtanti e i baccanali di questa seconda giornata oltrepassarono di gran lunga quelli operati nella precedente. Quella accozzaglia assalì i Commissariati al grido di muora la polizia! Viva Carlibardi! – così alteravasene il nome dalla plebaglia – La truppa, che tutto vedeva e sentiva, fremea di rabbia, ed era obbligata da’ suoi duci a starsene spettatrice indifferente.
Gli assalitori de’ Commissariati gittarono da’ balconi tutte le carte, il mobilio, le porte interne, e ne fecero un falò in mezzo alla strada. Un povero poliziotto del Commissariato di S. Lorenzo si era occultato in un credenzone, e così, com’era, fu gittato da un balcone in mezzo alla strada. Intorno a quel falò si ballava, si bestemmiava, si cantavano canzoni le più oscene.
Il solo Commissariato della Stella non fu invaso e distrutto per quella giornata, perché i vecchi poliziotti di guardia si atteggiarono a risoluta difesa, e tennero lontani i camorristi e compagnia bella. Ma que’ difensori del Commissariato, vedendo che il Governo volea la loro distruzione, la sera abbandonarono il posto, che fu l’ultimo a essere distrutto.
Dopo che i camorristi fecero quelle prodezze, andavano attorno con piatti nelle mani a domandare l’obolo per la buona opera che avevano fatta. E i liberali, trovarono giustissimo quanto aveano operato i camorristi; poiché secondo la loro logica, la Costituzione proclamata importava uccidere i cittadini, che aveano servito l’ordine pubblico ed il Re.
Sarebbero state sufficienti queste prime scene inqualificabili, perpetrate da’ camorristi, capitanati da D. Liborio, prefetto di polizia liberale, per far conoscere anche agli sciocchi, e principalmente a chi potea e dovea salvare la Dinastia e il Regno, che la proclamata Costituzione serviva come mezzo sicurissimo per abbattere Re e trono. Ma si proseguì sulla medesima via de’ cominciati disordini, i quali si accrescevano giorno per giorno, ora per ora con selvaggia energia, ed a nulla si dava riparo. Ciò dimostra la tristizia e l’infamia degli uomini che allora aveano afferrato il potere, e la dabbenaggine di coloro che si dicevano, ed erano realmente, pel Re e per l’autonomia del Regno.
(…)
Il ministro della guerra, Leopoldo del Re, devoto e fedele al Sovrano, in vista dell’anarchia sempre crescente a causa de’ camorristi, diretti e sostenuti da D. Liborio, prefetto di polizia liberale, tolse dal comando della Piazza il generale Polizzy, il quale non avea fatto impedire da’ soldati quei baccanali e quegli eccessi perpetrati da’ camorristi, e dal resto della brunzaglia napoletana. In cambio nominò il duca S. Vito, il quale proclamò lo stato d’assedio. Si proibì ogni assembramento maggiore di dieci persone, e la esportazione d’armi e di grossi bastoni. S. Vito uomo risoluto, a norma dell’Ordinanze di Piazza, volea procedere al disarmo. D. Liborio però si oppose energicamente, conciosiaché disarmando i camorristi, egli, prefetto di polizia liberale, rimaneva senza armata e senza prestigio; e, sostenuto come era dalla setta e dai traditori che circondavano il Re, la vinse; ed i camorristi rimasero padroni di Napoli, cioè erano essi la sola autorità dominante.
D. Liborio non contento ancora di avere a sé i camorristi, volle pure che i medesimi fossero riconosciuti e pagati dal Governo; di fatti ottenne un decreto, in data del 7 luglio, col quale si aboliva l’antica polizia, e se ne creava una nuova di camorristi, con nuove uniforme e nuovi principii, già s’intende.
Fu uno spettacolo buffonesco quando si videro in Napoli i camorristi dalla giacca di velluto, vestiti da birri, o sia da guardie di pubblica sicurezza, e i loro caporioni da Ispettori. Quei custodi dell’ordine pubblico faceano paura agli stessi liberali, e molti di costoro si dolsero con D. Liborio; il quale rispose di aver fatto benissimo; dappoiché i camorristi doveano essere compensati e protetti a preferenza, per grande ragione de’ servizii che aveano resi, e di quelli che doveano rendere ancora: diversamente, si sarebbero messi dal lato dei reazionari. Disse pure, ch’egli si augurava di fare di loro tanti onesti impiegati governativi; essi, che fino allora erano stati negletti e perseguitati (che peccato!); e che era suo divisamento cavare l’ordine dal disordine[7]. – Queste massime antipolitiche e antisociali, specialmente pel modo come l’applicava D. Liborio, erano imitate dallo stesso Ministero negli altri rami amministrativi, cacciando via gli impiegati antichi ed onesti, e surrogandoli con gente o ignorante, o dubbia o disonesta.
[1] http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/11/09/saviano-il-tricolore-contro-la-macchina-del-fango/75912/
[2] http://www.fiammanirenstein.com/articoli.asp?Categoria=11&Id=2438
[3] http://guerrillaradio.iobloggo.com/1989/roberto-saviano-vieni-via-con-me
[4] http://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Butt%C3%A0 . Una sommaria conferma del racconto di Padre Buttà la si trova anche su Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Camorra
[5] FrancoAngeli, Milano, 1998
[6] Si tratta del Bollettino massonico
[7] Si ricordi al riguardo il celeberrimo motto massonico ORDO AB CHAO.
Grazie per questo ottimo contributo che, con permesso del carissimo autore, sarà pubblicato sull'uscente numero 34-35 de "Il Cinghiale corazzato", foglio di informazione e cultura della Comunità Antagonista Padana dell'Università Cattolica del Sacro Cuore.
Onorato dell'attenzione 🙂
Grande Carancini! Rubo il tuo "pezzo" per il mio blog e ti segnalo questi miei due datatissimi contributi alla Causa Meridionale:
http://www.vocedimegaride.it/html/Articoli/CamorraTammorra.htm
http://www.vocedimegaride.it/html/Articoli/Sodomaecamorra.htm
marina salvadore
Ottima analisi, fa chiarezza sulla verità storica del meridione ma soprattutto smaschera chi ancora una volta strumentalizza la verità per profitto
Grazie e se mi è consentito prendo in prestito l'articolo per inserirlo su:http://www.tradizione.biz/forum/posting.php?mode=post&f=3
BlaisePascal
Quei camorristi gia da anni erano una polizia parallela che per conto del Governo spiavano i liberali. Liborio Romano non ha fatto altro che applicare una consuetudine ben consolidata
Una cosa e’ certa ; fino al 1860 nessuno sapeva cosa era la camorra , e nemmeno si conosceva la sua esistenza , al di fuori di Napoli e pochi altri centri .