Il rapporto America-Israele secondo Emmanuel Todd

Il rapporto America-Israele secondo Emmanuel Todd

Dal libro di Emmanuel Todd, DOPO L’IMPEROLa dissoluzione del sistema americano[1], riproduco a seguire, stante il particolare interesse, il paragrafo Il ripiegamento dell’universalismo esterno: la scelta di Israele (pp. 106-110):

Per gli specialisti di analisi strategica, la fedeltà dell’America a Israele costituisce un autentico mistero. La lettura dei classici recenti non porta alcun chiarimento. Kissinger tratta la questione israelo-palestinese in dettaglio, ma con l’esasperazione di un seguace del “realismo” costretto a negoziare con popoli irrazionali che lottano per il possesso di una terra promessa. Huntington colloca Israele all’esterno della sfera della civiltà occidentale concepita come blocco strategico. Brzezinski non ne parla. Fukuyama neppure. Il che è molto strano se si considera l’importanza del legame con Israele nell’istituzione di un rapporto antagonista generalizzato degli Stati Uniti con il mondo arabo o, più ampiamente, musulmano.

La razionalità e l’utilità di quel legame sono difficili da dimostrare. L’ipotesi di una cooperazione necessaria tra democrazie non regge. L’ingiustizia commessa giorno dopo giorno dalla colonizzazione israeliana su quel che resta delle terre dei palestinesi è in se stessa una negazione del principio di uguaglianza, fondamento della democrazia. D’altronde, le altre nazioni democratiche, in particolar modo quelle europee, non provano per Israele la simpatia dichiarata che contraddistingue gli Stati Uniti.

L’utilità militare di Tsahal, l’esercito israeliano, sarebbe quasi un argomento più serio. La debolezza dell’esercito di terra americano, così lento e per di più incapace di accettare perdite, implica per le operazioni sul territorio l’uso crescente e sistematico di contingenti alleati o, addirittura, mercenari. I dirigenti americani, ossessionati dal controllo della rendita petrolifera, forse non osano fare a meno del sostegno locale del primo esercito del Medio Oriente, quello di Israele, paese la cui piccola dimensione, la forma e l’ipermilitarizzazione evocano sempre più l’immagine di una portaerei fissa. Dal punto di vista del realista strategico americano militare o civile, poter contare su una forza militare capace di eliminare qualunque esercito arabo in pochi giorni o in poche settimane sembra più importante dell’amicizia o della considerazione del mondo musulmano. Ma allora, se il calcolo è questo, perché gli strateghi realisti non ne parlano? E si può prendere in seria considerazione un esercito israeliano che controlla i pozzi di petrolio dell’Arabia Saudita, del Kuwait e degli Emirati, quando non è mai stato capace di mantenere senza grosse perdite il sud del Libano un tempo e la Cisgiordania oggi?

Le interpretazioni che insistono sul ruolo della comunità ebraica americana e sulla sua capacità di influire sul meccanismo elettorale contengono una piccola parte di verità. È la teoria della “lobby ebraica” e, d’altronde, si potrebbe completare con una teoria della non-lobby araba. In assenza di una comunità araba sufficientemente importante per fare da contrappeso, per qualunque politicante con problemi di rielezione il costo politico del sostegno a Israele può apparire nullo. Perché perdere i voti degli elettori ebrei se non ce ne sono altrettanti da guadagnare tra gli arabi? Tuttavia, non è il caso d’ingigantire la massa della comunità ebraica che, con 6,5 milioni di individui, costituisce soltanto il 2,2% della popolazione statunitense. Inoltre, l’America non è priva di tradizioni antisemite e si potrebbe immaginare che numerosi elettori, nel 97,8% di americani non ebrei, puniscano i politici favorevoli a Israele. Ma gli antisemiti, ormai, non sono più anti-israeliani. Ci stiamo avvicinando al cuore del mistero.

I gruppi considerati antisemiti dagli stessi ebrei americani, ossia i fondamentalisti cristiani, sono politicamente allineati alla destra repubblicana. Ora, il sostegno a Israele è massimo nell’elettorato repubblicano e la destra religiosa americana, che sostiene Bush, sta scoprendo una passione per lo Stato d’Israele, contropartita positiva del suo odio verso l’islam e il mondo arabo. Se si aggiunge che i tre quarti degli ebrei americani continuano a essere orientati verso il centrosinistra, votano per il partito democratico e temono i fondamentalisti cristiani, arriviamo a un paradosso cruciale: esiste una relazione antagonista fra gli ebrei americani e la frazione di elettorato americano che sostiene maggiormente Israele. Quindi, non si può capire l’appoggio sempre più determinato all’Israele di Ariel Sharon senza fare l’ipotesi che esistano due tipi di sostegno, di natura differente, la cui combinazione e le cui motivazioni contraddittorie spiegano la continuità e insieme le incoerenze della politica americana nei confronti di Israele.

Da una parte c’è l’appoggio tradizionale degli ebrei americani che, quando il partito democratico è al potere, conduce a dei tentativi per proteggere Israele pur rispettando nella misura del possibile i diritti dei palestinesi. L’azione di Clinton per ottenere un accordo di pace a Camp David corrispondeva a quel tipo di motivazione.

Un altro sostegno a Israele, più nuovo e originale, è quello della destra repubblicana, che proietta nel campo del Medio Oriente la preferenza per la disuguaglianza che contraddistingue l’America attuale. Infatti, la preferenza per la disuguaglianza e per l’ingiustizia esiste.

Le ideologie universaliste proclamano l’equivalenza dei popoli. Quest’attitudine “giusta” ci fa credere che il principio di uguaglianza sia necessario alla costituzione dell’alleanza tra i popoli. Invece, ci si può identificare con l’altro indipendentemente dalla nozione di uguaglianza. Durante la guerra del Peloponneso, Atene, campione delle democrazie, sosteneva ovviamente i democratici dello spazio greco ogni volta che poteva. Ma Sparta, campione delle oligarchie, quando assumeva il controllo di una città vi istituiva un regime oligarchico. Alla fine del XVII secolo, i diversi regimi monarchici d’Europa erano riusciti senza troppa difficoltà a coalizzarsi contro il principio di uguaglianza propugnato dalla Rivoluzione francese. Ma l’esempio più spettacolare di un’identificazione a distanza tra due regimi non soltanto ostili al principio di uguaglianza, ma anche legati dall’idea di gerarchia dei popoli, è quello della Germania e del Giappone durante la Seconda guerra mondiale. Dopo Pearl Harbor, Hitler dichiarò la guerra agli Stati Uniti per solidarietà con il Giappone. E così, nelle relazioni internazionali come in quelle interpersonali, può esistere una preferenza per il male o, più modestamente, per l’ingiustizia se si è malvagi o ingiusti. Il principio fondamentale dell’identificazione con l’altro non è il riconoscimento del bene, ma il riconoscimento di sé nell’altro.

Si potrebbe anche sostenere che la consapevolezza di comportarsi male intensifichi il bisogno di trovare degli altri che agiscano allo stesso modo per trovare altrettante giustificazioni. Credo che il legame nuovo e rinsaldato dell’America con Israele vada spiegato in questi termini. Visto che Israele si sta comportando male proprio quando lo sta facendo anche l’America, quest’ultima ne approva l’atteggiamento sempre più feroce nei confronti dei palestinesi. L’America è sempre più convinta della disuguaglianza degli uomini e crede sempre meno nell’unità del genere umano[2]. Tutte queste constatazioni possono essere applicate tali e quali allo Stato di Israele, la cui politica nei confronti degli arabi si accompagna a una frammentazione interna causata dalla disuguaglianza economica e dalle opinioni religiose. Per chi segue le informazioni della stampa o della televisione, l’incapacità sempre più grande degli israeliani di considerare gli arabi come esseri umani in generale è un’evidenza, mentre il processo di frammentazione interna della società israeliana, trascinata dalla febbre della disuguaglianza come la società americana, risulta meno evidente. Ma le differenze di reddito sono ormai tra le più importanti del mondo sviluppato e democratico. I diversi gruppi – laici, ashkenaziti, sefarditi, ultraortodossi – si separano, un fenomeno che può essere misurato dai divari di fecondità tra i gruppi che vanno da meno di 2 figli per donna per i laici a 7 per gli ultraortodossi.

All’inizio della relazione tra Israele e gli Stati Uniti c’era l’appartenenza alla sfera comune delle democrazie liberali. C’era anche il legame concreto costituito dalla presenza in America della più importante comunità ebraica della diaspora, senza dimenticare il legame biblico tra calvinismo e giudaismo. Quando un protestante leggeva la Bibbia con uno spirito un po’ letterale, s’identificava con il popolo di Israele. Nel caso specifico dei puritani americani del XVII secolo, immigrati in una nuova terra promessa, l’orrore a priori provato nei confronti dei popoli idolatri – il differenzialismo biblico – poteva concentrarsi sugli indiani o sui neri. Probabilmente, la fissazione globale e recente degli Stati Uniti su Israele non ha più molto a che vedere con q uella parentela religiosa originaria, con l’amore per la Bibbia, con un’identificazione positiva e ottimista con il popolo eletto di Israele. Sono convinto che se la Francia, repubblicana o cattolica, fosse ancora impegnata nella guerra d’Algeria reprimendo, imprigionando e uccidendo gli arabi come lo Stato di Israele fa in Palestina, l’America attuale – differenzialista, non egualitaria, travagliata dalla cattiva coscienza – si identificherebbe con una Francia colonialista decaduta dal suo universalismo. Quando si abbandona il campo della giustizia, non c’è niente di più rassicurante che osservare gli altri che compiono il male. In questi giorni, quello che Israele fa di ingiusto non sconvolge la potenza dominante dell’Occidente.

La cosa più importante per un’analisi strategica planetaria è cogliere bene la logica profonda del comportamento americano: l’incapacità degli Stati Uniti di considerare gli arabi come esseri umani in senso generale s’inscrive nella dinamica di riflusso dall’universalismo endogena alla società americana.
[1] Gruppo editoriale Il Saggiatore, Milano, 2005.
[2] N. d. R.: Quell’unità che, ci ricorda Donoso Cortés, è anche un dogma cattolico: “Dal dogma della concentrazione in Adamo della natura umana, e da quello della trasmissione di questa medesima natura a tutti gli uomini, deriva, come conseguenza, il dogma dell’unità sostanziale del genere umano”. Donoso Cortés, Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo, Rusconi, Milano, 1972, p. 309 e seguenti.

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