Il secondo brano particolarmente degno di nota nel primo capitolo di SCINTILLE di Gad Lerner è quello in cui si descrive il concetto di gilgul che – come recita la terza di copertina – “è il frenetico movimento delle anime vagabonde che ruotano intorno a noi quando la separazione dal corpo è dovuta a circostanze ingiuste o dolorose”:
Ma l’intuito non sarebbe bastato. E i maestri della Qabbalah sono giunti in soccorso, tramandandomi come le anime strappate troppo bruscamente ai corpi e ai luoghi sprigionino un’energia disperata di cui va riconosciuta con intento amorevole l’alterazione.
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Quando la separazione dal corpo avviene in circostanze ingiuste o dolorose, non sempre le anime raggiungono l’aldilà. Vere e proprie battaglie si scatenano talvolta sulla terra, dando luogo a inseguimenti e scontri. Nel descriverne le conseguenze i cabalisti di Safed e i loro seguaci delle scuole chassidiche sorte nell’Est europeo hanno immaginato addirittura la frantumazione di nizozot ha-neshamot, cioè di scintille d’anime: tanto violenti possono essere questi conflitti degli spiriti sulla terra.
Non saprei esprimere meglio il tormento misterioso di nonna Teta e di mio padre Moshé: bisogna turbare l’ordine del tempo e delle generazioni per dare un senso all’oggi. L’averlo riconosciuto mi aiuta pure a comprendere perché nella Diaspora ebraica fu tanto diffusa la credenza popolare nei fenomeni di possessione: spaventosi imprevisti nella trasmigrazione degli spiriti dai corpi.
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Nulla a che vedere con l’ostilità per gli indemoniati che caratterizza la tradizione popolare cristiana. La spiegazione di tale differenza di trattamento, pur nella comune superstizione dell’esorcismo, è ovvia: il vagabondaggio delle anime rappresenta la condizione più diffusa del mondo ebraico, che a differenza di quello cristiano non può permettersi di demonizzarlo.
Nella Qabbalah il vagabondaggio delle anime viene dunque riconosciuto come una legge cosmica, definita con il termine onomatopeico di gilgul, che allude a un vorticoso movimento rotatorio. Mi consola constatare come il gilgul sdrammatizza la morte: trattiene accanto a noi lo spirito delle vittime, rinviandone il commiato definitivo” (pp. 26-28).
Queste considerazioni mi hanno dato un senso di déjà vu: ho pensato subito a Ghost, il celeberrimo film del ’90, con Patrick Swayze, Demi Moore e Whoopi Goldberg[1]; le parole di Lerner me ne hanno finalmente svelato l’impalcatura concettuale. Il film in questione ebbe due Oscar, di cui uno per la migliore sceneggiatura (guarda caso, dello sceneggiatore ebreo Bruce Joel Rubin). Ricordo un punto cruciale in cui la medium interpretata da Whoopi Goldberg parla al fantasma Patrick Swayze della sua condizione di morto non ancora definitivamente defunto, incastrato tra l’al di qua e l’al di là…
Un film quindi che dà, a questa dottrina cabalista, lo stesso significato accattivante che gli attribuisce Lerner: una forma estrema di pietas, un po’ folle forse ma lodevole. Ma davvero la cultura ebraica ha con i morti un rapporto, in fondo, così sdrammatizzante? Il dubbio viene perchè, a parte l’ostilità per gli indemoniati, il timore universalmente associato ai fantasmi non appare così ingiustificato: pensiamo a cosa è capace di fare, nell’Amleto, un fantasma…
Quello che voglio dire è che la Cabala è una dottrina esoterica e, personalmente, tendo a pensare che nell’esoterismo le cose non sono mai come si presentano: se anche Hollywood ce le presenta così, abbiamo un motivo in più per essere guardinghi (con tutto il rispetto per il percorso esistenziale di Gad Lerner).
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