UNA LETTERA “SBALORDITIVA” DA TREBLINKA
Di Thomas Kues, Maggio 2010[1]
Nel 2005, gli storici Eric Johnson e Karl-Heinz Reuband pubblicarono un volume intitolato: What We Knew: Terror, Mass Murder and Everyday Life in Nazi Germany[2] (John Murray, London). Il libro contiene un certo numero di interviste recenti con tedeschi come pure con ebrei di nazionalità tedesca deportati nei ghetti e nei “campi della morte”. Uno di questi ultimi è Ernst Levin, nato a Breslavia nel 1925. Nel Gennaio del 1943 venne deportato ad Auschwitz, dove lavorò nella fabbrica Buna-Werke di Monowitz (Auschwitz III). La parte più interessante dell’intervista a Levin, tuttavia, non riguarda lo stesso Levin, ma un suo amico di Breslavia (pp. 74-75).
“Circa quattro settimane prima di salire sul mio trasporto, ci fu un trasporto prima del mio e un mio amico di nome Helmut salì su quel trasporto. Quel trasporto finì a Treblinka. In un posto vicino Treblinka, c’era anche un contingente di lavoratori tedeschi, uno dei quali era un nostro conoscente. Helmut scrisse una lettera e la diede a quest’uomo dicendo: “Mandala a Ernst”. Ricevetti questa lettera. Non ho mai saputo chi la mandò o come riuscirono a farla uscire. Lui mi disse in questa lettera che stava vicino Treblinka e ‘hier ist ein Lager, wo die Menschen chemisch behandelt warden’ [qui c’è un campo dove le persone vengono trattate con sostanze chimiche]. È sbalorditivo che anche allora lui non disse che venivano gasate. Non è sbalorditivo? Pensai: “che cavolo vuol dire?”. Penso che alla fine sia stato gasato. Sicuramente non sopravvisse”.
È sbalorditivo davvero! Ciò che soprattutto colpisce sul contenuto riferito di questa lettera è l’espressione “chemisch behandelt” (“trattate con sostanze chimiche”). Secondo la storiografia ufficiale, i presunti stermini di Treblinka venivano attuati usando gas di scarico. Ovviamente, nessun profano collegherebbe il gas di scarico a delle sostanze chimiche. Le prime dicerie – sia del tempo di guerra che postbelliche – sulle uccisioni mediante vapore e mediante sottovuoto, d’altro lato, sono impossibili da collegare al concetto di “trattamento chimico”. Dall’affermazione di Levin è chiaro che il suo amico Helmut non scrisse che i deportati morivano per “trattamento chimico” – altrimenti Levin avrebbe facilmente tratto la conclusione che la frase attinente agli stermini si riferiva a qualche agente chimico!
Poiché il messaggio riferito dell’ebreo di Breslavia Helmut è solo frammentario, è di fatto impossibile trarre da esso delle conclusioni. È possibile, però, che l’espressione “chemisch behandelt” si riferisca ad un procedimento di disinfestazione. La Ostarbeiter (donna dell’Europa orientale deportata in Germania per lavorare) Galina K., che lavorò in un campo di transito vicino Hannover durante la guerra, ha testimoniato che lei e gli altri lavoratori forzati “spalmavamo le teste, le ascelle e i genitali [dei deportati Ostarbeiter] con una soluzione chimica” (Janet Anschutz, Irmtraud Heike, “Medizinische Versorgung von Zwangsarbeitern in Hannover: Forschung und Zeitzeugenberichte zum Gesundheitswesen”, in: Gunter Siedburger, Andreas Frewer, Zwangsarbeit und Gesundheitswesen im Zweiten Weltkrieg. Einsatz und Versorgung in Norddeutschland, Georg Olms Verlag, Hildesheim, Zürich, New York 2006, p. 52). Va notato, in questo contesto, che una squadra archeologica israelo-polacca durante un’indagine sul sito dell’ex “campo di sterminio” di Sobibór, e più precisamente sul sito del “campo della morte vero e proprio” o Lager III, ha scoperto – oltre alla totale mancanza di resti delle presunte camere a gas omicide – “barattoli più grandi, alcuni (…) prodotti in Olanda, [che] potevano contenere disinfettanti” (Gilead et al. [e altri], “Excavating Nazi Extermination Centres”, in: Present Pasts, Vol. 1, 2009, p. 30).
Che Helmut riuscisse a consegnare la lettera al conoscente tedesco che lavorava “vicino Treblinka” non sembra una mera curiosità alla luce della narrazione ortodossa su Treblinka. Strano a dirsi, Levin sembra contraddirsi quando afferma che “Non ho mai saputo chi la mandò o come riuscirono a farla uscire”. Non ha appena detto che Helmut diede la lettera a quel tale tedesco dall’identità non precisata? Dalla testimonianza di Israel Cymlich sappiamo, tuttavia, che certi distaccamenti di prigionieri di Treblinka II lavoravano frequentemente fuori del campo (Israel Cymlich & Oscar Strawczynski, Escaping Hell in Treblinka, Yad Vashem, New York/Jerusalem 2007, pp. 45-46). È perciò sicuramente possibile che Helmut e l’uomo tedesco si siano incontrati in un comune luogo di lavoro.
Partite di calcio tra guardie e detenuti (a Belzec, vedi la testimonianza di W. Dubois), fotografie scattate all’interno del campo e sviluppate all’esterno del campo da civili polacchi, paesani locali impiegati vicino le “camere a gas” (vedi quanto scritto da Michael Tregenza su Belzec), film girati su “finti” matrimoni (a Sobibór, vedi la testimonianza di K. Wewryck), prgionieri che tornavano volontariamente dopo una fuga di massa (a Sobibór, vedi le testimonianze di E. Wullbrandt e di F. Suchomel), cartoline inviate da prigionieri (“Helmut” a Treblinka)…più si scava sui “campi di sterminio” dell’Aktion Reinhardt, più si trovano dettagli sbalorditivi, dettagli che rivelano che il personale delle SS di stanza lì non aveva molto da nascondere. Dopo tutto, perché angustiarsi con misure di sicurezza quando c’era solo un programma di sterminio top secret da portare avanti!
[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://www.codoh.com/newsite/sr/online/sr_172.pdf
[2] “Quello che sapevamo: il terrore, gli stermini e la vita quotidiana nella Germania nazista”.
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