BELZEC – LA TESTIMONIANZA DI CHAIM HIRSZMAN
Di Thomas Kues, Febbraio 2010[1]
Si dice spesso che Rudolf Reder (che in seguito prese il nome di Roman Robak) fu il solo ebreo a essere sopravvissuto al “campo di puro sterminio” di Belzec. Questo, però, è sbagliato anche da un punto di vista sterminazionista, perché secondo la storiografia ortodossa vi furono in tutto sette sopravvissuti: Reder, Chaim Hirszman, Sara Beer, Hirsz Birder, Mordechai Bracht, Samuel Velser e “Szpilke”. Quest’ultimo compare solo nel resoconto di Reder. Sebbene Reder affermi di aver incontrato “Szpilke” a Lemberg dopo la guerra, e asserisca che costui visse in seguito in Ungheria, questo misterioso testimone degli ultimi giorni del campo non ha lasciato nessuna traccia storica.
Mentre per Sara Beer, l’esperto di Belzec Michael Tregenza ci informa (“Belzec – Das vergessene Lager des Holocaust”, in: I. Wojak e P. Hayes (curatori), “Arisierung” im Nationalsozialismus, Volksgemeinschaft, Raub und Gedächtnis, Campus Verlag, Francoforte/New York 2000, p. 260) che venne trasferita insieme ad altre 20-25 “ebree” non nominate dal “campo della morte” a Trawmiki, e che sopravvisse anche ad Auschwitz e a Bergen Belsen per essere quindi liberata dalle truppe inglesi nell’Aprile del 1945; sembra che non abbia lasciato nessuna testimonianza sulla sua permanenza a Belzec. Birder, Bracht e Velser sono fondamentalmente degli sconosciuti.
Inoltre, secondo quanto è stato riferito, due donne chiamate Mina Astman e Malka Talenfeld sarebbero fuggite dopo aver trascorso solo qualche ora al campo, e sembra che le loro brevi impressioni siano solo di seconda mano (vedi Y. Arad, Belzec, Sobibor, Treblinka…, p. 264). Solo due dei sopravvissuti, Reder e Hirszman, hanno lasciato dei resoconti testimoniali. Il primo pubblicò, nel 1946, il pamphlet Belzec di 74 pagine, in collaborazione con Nella Rost, e testimoniò anche davanti ad una commissione di indagine polacca e in coincidenza con il processo Belzec di Monaco del 1965. Mentre per il secondo, Carlo Mattogno ci informa (Belzec in Propaganda, Testimonies, Archeological Research and History, p. 51) che:
“Il 19 Marzo del 1946, Chaim Hirszman comparve davanti alla commissione storica regionale di Lublino, ma venne ucciso il giorno stesso dopo che il suo interrogatorio era stato aggiornato. Perciò, abbiamo da parte sua solo una testimonianza molto breve (Zydowski Instytut Historiczny [Istituto Storico Ebraico] Varsavia, Rapporto n°1476). Per quanto riguarda il suo contenuto, è talmente irrilevante che non compare neppure nell’estratto delle testimonianze su Belzec presentato da Marian Muszkat nel rapporto ufficiale del governo polacco sui crimini tedeschi contro la Polonia”.
Tuttavia, nonostante la sua estrema brevità, è ovviamente di una certa importanza essendo il solo resoconto testimoniale, oltre a quello di Reder, lasciato da un ex prigioniero di Belzec. Il fatto che non venga praticamente mai menzionato né citato dagli storici dell’Olocausto è dovuto probabilmente alla sua predetta brevità e oscurità, ma non può essere totalmente escluso che abbia a che fare con il suo contenuto, e cioè con le dichiarazioni di Hirszman sui presunti stermini di Belzec.
Ytzhak Arad ci informa che Hirszman e altri due prigionieri non nominati fuggirono dal treno che li portava, nel Luglio del 1943, dallo smantellato campo di Belzec a Sobibor, presuntamente per essere uccisi lì (Belzec, Sobibor, Treblinka…, p. 265). La tesi ortodossa, secondo cui i detenuti superstiti di Belzec vennero portati a Sobibor per essere uccisi lì non quadra esattamente con il fatto suddetto che Sara Beer e altre detenute vennero inviate al campo di lavoro di Trawniki.
Mentre per il destino conclusivo di Hirszman, lo storico Martin Gilbert scrive (The Holocaust. The Jewish Tragedy, Fontana Press, Londra, 1987, p. 817) che:
“…Il 9 Marzo, uno dei due soli sopravvissuti del campo della morte di Belzec, Chaim Hirszman, fornì le prove a Lublino di quello che aveva visto nel campo della morte. Gli venne chiesto di tornare il giorno seguente per completare la deposizione. Ma mentre tornava nel proprio alloggio venne ucciso perché era un ebreo”.
Lo storico polacco Henryk Pajak afferma, tuttavia, che Hirszman venne ucciso non perché ebreo ma perché era un “funzionario attivo e pericoloso” del nuovo regime comunista (Konspiracja mlodziezy szkolnej 1945-1955, Lublino 1994, pp. 130-131, citato in Tadeusz Piotrowski, Poland’s Holocaust, McFarland 1998, p. 341, nota 306).
La testimonianza di Chaim Hirszman
Secondo la sua testimonianza, Hirszman venne deportato da Zaklikow, che stava nel distretto di Lublino, contea di Janow (Gilbert, The Holocaust, p. 304). Arad ci informa che un trasporto di 2.000 deportati ebrei partì da Zaklikow il 3 Novembre 1942 (Belzec, Sobibor, Treblinka…, p. 383). Gilbert riproduce la parte a quanto pare più rilevante della testimonianza di Hirszman come segue:
“Venimmo fatti salire sul treno e portati a Belzec. Il treno entrò in una piccola foresta. Poi, tutto il personale del treno venne sostituito. Gli uomini delle SS dei campi della morte sostituirono i ferrovieri. Sul momento, non ce ne accorgemmo. Il treno entrò nel campo. Altri uomini delle SS ci fecero uscire dal treno. Ci portarono tutti insieme – uomini, donne, bambini – in una baracca. Ci venne detto di spogliarci prima di essere condotti al bagno. Capii immediatamente cosa ciò significava. Una volta spogliati, ci venne detto di formare due gruppi, uno di uomini e l’altro di donne e bambini. Un uomo delle SS, a colpi di frustino, mandava gli uomini a sinistra o a destra: alla morte, o al lavoro. Io venni selezionato per essere ucciso, allora non lo sapevo. Comunque, pensavo che entrambe le direzioni volessero dire la stessa cosa: la morte. Ma quando mi volsi verso la direzione indicata, un uomo delle SS mi chiamò e disse: ‘Du bist ein Militarmensch, dich konnen wir brauchen’ [‘Tu hai un portamento militare, potremmo usarti’]. A noi che eravamo stati selezionati per il lavoro, ci venne detto di rivestirci. Io e qualche altro uomo venimmo incaricati di portare la gente al forno. Mi vennero assegnate le donne. L’ucraino Schmidt, un tedesco etnico, stava all’ingresso della camera a gas e colpiva con un knut [una frusta nodosa] tutte le donne che entravano. Prima che la porta venisse chiusa, sparò pochi colpi col suo revolver e poi la porta si chiuse automaticamente e quaranta minuti dopo entrammo e trasportammo i corpi in una rampa speciale. Ai corpi tagliammo i capelli, che vennero stipati in sacchi e portati via dai tedeschi. I bambini vennero gettati nella camera semplicemente sulla testa delle donne. Trovai il corpo di mia moglie e dovetti tagliarle i capelli. I corpi non vennero seppelliti immediatamente, i tedeschi aspettarono fino a quando ne vennero radunati di più. Così, quel giorno non seppellimmo…”. (Gilbert, The Holocaust, p. 304).
Notiamo innanzituttoche Hirszman parla di “camera a gas” al singolare. In molte testimonianze oculari, “camera a gas” sta confusamente a significare un edificio contenente una o più camere a gas, ma a giudicare dalla descrizione molto breve di Hirszman abbiamo a che fare solo con una camera: i bambini vengono gettati dentro “la camera” e “la porta” si chiude automaticamente una volta che le vittime stanno dentro.
Secondo la storiografia ortodossa, l’edificio contenente le camere a gas usato a Belzec all’epoca consisteva di sei camere disposte a specchio su ognuno dei lati di un corridoio centrale. Non c’è ragione perché la porta di ingresso dell’edificio, rispetto alle porte delle singole camere, venisse “chiusa automaticamente” prima della gasazione. È anche rimarchevole che Hirszman usi il termine “kiln” (forno) come sinonimo di “camera a gas” mentre, nello stesso tempo, sostiene che l’edificio era camuffato da bagno.
La diceria sui capelli delle vittime tagliati dopo la loro morte va contro tutte le altre testimonianze disponibili. Potremmo confrontarla qui con la dichiarazione di Gerstein che alle donne i capelli venivano tagliati e stipati in sacchi di patate prima di entrare nelle camere a gas (vedi Henri Roques, The “Confessions” of Kurt Gerstein, IHR, Costa Mesa 1989, p. 30) o con l’analoga affermazione di Reder (vedi Rudolf Reder, “Belzec” in: Polin: Studies in Polish Jewry, volume 13, (2000), p. 274).
L’asserzione che il giorno dell’arrivo di Hirszman “i corpi non vennero seppelliti immediatamente” ma invece lasciati sul terreno e seppelliti solo quando “ne vennero radunati di più” è falsa per due ragioni. Primo, nessun altro testimone ha attestato questa procedura; la maggior parte sottintendono o affermano che i cadaveri venivano interrati subito dopo la gasazione nella fossa comune scavata per la circostanza, e quindi coperti con uno strato di sabbia. Secondo, è contraddetta dalle prove archeologiche fornite da Andrzej Kola. Dato un massimo teorico di 8 cadaveri per metro cubo, le circa 2.000 vittime (se dobbiamo fidarci della cifra di Arad) avrebbero occupato 250 metri cubi. Delle 33 fosse comuni identificate da Kola a Belzec, 10 (allo stato attuale) hanno un volume pari o minore di 250 metri cubi.
Non c’è perciò ragione di credere che le SS avrebbero aspettato un numero maggiore di cadaveri da smaltire prima di seppellirli. Inoltre, l’idea di lasciare all’aperto 2.000 cadaveri per un giorno o più sembra bizzarra. D’altro lato, la procedura descritta da Hirszman potrebbe essere realistica se le sole vittime del trasporto fossero state quelle poche morte durante il tragitto.
La testimonianza di seconda mano di Pola Hirszman
Il giorno dopo che Chaim era stato ucciso, il 20 Marzo del 1946, Pola, la moglie di Chaim, testimoniò su quello che suo marito aveva presuntamente visto a Belzec. Anche la sua testimonianza è conservata nell’archivio dell’Istituto Storico Ebraico di Varsavia. Gilbert scrive che “Le esperienze a Belzec di Chaim Hirszman vennero parimenti fissate nel 1946 dalla sua seconda moglie, Pola, alla quale le aveva spesso raccontate dopo la guerra (ibid., p. 305). Ovviamente, i resoconti di seconda mano sono più o meno irrilevanti come prova, ma daremo comunque uno sguardo a qualcuna delle sue dichiarazioni.
La testimonianza della signora Hirszman inizia con una tipica storia di atrocità su un trasporto che consisteva solo di bambini piccoli – fino ai tre anni di età – uccisi in un modo assolutamente improbabile:
Ai braccianti venne detto di scavare una grande buca in cui i bambini venivano gettati e sepolti vivi (ibid., p. 305).
Qui, davvero, non c’è molto da commentare. Lo stesso va detto per la storia successiva, su un prigioniero impiccato per un fallito tentativo di fuga; sul patibolo, il condannato profetizza la caduta di Hitler e del suo Reich. Ci viene anche detto che al campo era molto diffuso il tifo, e che anche Chaim contrasse il morbo ma riuscì a non essere “ucciso immediatamente” nascondendo il proprio stato ai tedeschi. Pola racconta anche una storia, che si trova con delle varianti anche nella tradizione di Treblinka e di Sobibor, su un ariano (in questo caso una donna ucraina) che arriva al campo per sbaglio e che viene poi gasato con gli ebrei, nonostante avesse mostrato agli uomini delle SS la propria vera identità. Poi, riguardo al campo, apprendiamo che:
“Quando avevi varcato il cancello del campo, non c’era possibilità di uscirne vivo. Nemmeno i tedeschi, tranne il personale del campo, aveva accesso al campo” (ibid., p. 305).
Questa affermazione è contraddetta da diverse testimonianze oculari. L’ex membro del personale del campo Heinrich Gley dichiarò nel 1961 che un piccolo distaccamento di detenuti ebrei svolgeva i propri compiti molto lontano dal campo, e la testimone polacca Maria D. affermò nell’Ottobre del 1945 che alcuni ebrei al campo “avevano il diritto di lasciare il perimetro del campo” (Mattogno, Belzec…, p. 44). Secondo l’esperto ortodosso di Belzec Michael Tregenza, quattro paesani polacchi vennero impiegati nel campo vero e proprio, mentre – fatto assolutamente sbalorditivo – ad altri paesani venne permesso di entrare dentro il campo per scattare fotografie (ibid., p. 43).
Una delle storie raccontate da Pola riguarda gli ebrei impiegati all’esterno del campo:
“Due ebree cecoslovacche lavoravano nell’ufficio del campo [ubicato all’esterno del campo]. Anch’esse non erano mai entrate nel campo. Godevano persino di una certa libertà di movimento. Spesso si recavano in città con gli uomini delle SS per sistemare diverse questioni. Un giorno venne detto loro che avrebbero visitato il campo. Gli uomini delle SS le accompagnarono per il campo e a un certo punto condussero le donne nella camera a gas e quando furono entrate la porta si chiuse dietro di loro. La fecero finita con loro, nonostante la promessa che sarebbero rimaste vive. (Gilbert, The Holocaust, pp. 305-306).
Questa storia chiaramente non ha molto senso. Da un lato, ci viene detto che alle due ebree era stato promesso che sarebbero rimaste vive, e perciò dovevano essere a conoscenza che a Belzec gli ebrei venivano sterminati – e lavorando nell’ufficio del campo non potevano di certo non capire la “vera natura” del campo (specialmente poiché questa era presuntamente ben conosciuta nella comunità di Belzec sin dall’inizio, vedi Mattogno, Belzec…, p. 43). Ma perché allora le donne sarebbero entrate stupidamente nella “camera a gas”? Inoltre, notiamo ancora il singolare attribuito alla “porta” usata nella descrizione della “camera a gas”.
Quando non erano impegnati a compiere uno sterminio indiscriminato, a seppellire vivi dei bambini piccoli o a far entrare con l’inganno delle segretarie nelle camere a gas, gli uomini delle SS del campo passavano il tempo rilassandosi con le proprie vittime:
I tedeschi ordinarono ai prigionieri di costruire un campo di calcio e la domenica si giocavano le partite. Gli ebrei giocavano con gli uomini delle SS, gli stessi che li torturavano e uccidevano. Gli uomini delle SS consideravano la partita un fatto di sport e quando perdevano non si lamentavano. (Gilbert, The Holocaust, p. 306).
Su questo punto, finalmente, abbiamo motivo di credere che Pola abbia raccontato la verità. L’uomo delle SS Werner Dubois disse nel 1961 durante un interrogatorio: “Accadde anche di organizzare una partita di calcio con 22 ebrei sul terreno di gioco” (citato in Mattogno, Belzec, p. 66). Le partite di calcio vennero confermate anche dal testimone polacco Tadeusz M., che osservò inoltre che i tedeschi avevano organizzato un’orchestra d’archi tra i detenuti (ibid., p. 44).
Conclusione
La testimonianza su Belzec di Chaim Hirszman è, certo, decisamente irrilevante a causa della sua brevità e della mancanza di dettagli ma è nondimeno illuminante. Nello spazio di poche righe il nostro testimone riesce a inserire diverse affermazioni che contraddicono l’immagine ortodossa del “campo della morte”. Inoltre, i ricordi di seconda mano di sua moglie non contribuiscono esattamente alla sua attendibilità. È un peccato che Hirszman non sia sopravvissuto per fornire una testimonianza più completa, poiché sarebbe sicuramente stata un’altra zappa sui piedi della storia di Belzec. Tuttavia, la scheggia impazzita della sua dichiarazione dovrebbe essere sufficiente motivo di imbarazzo per i difensori della fede nella pura Shoah.
[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://www.codoh.com/newsite/sr/online/sr_169.pdf
Leave a comment