TEOLOGIA E IDEOLOGIA DELLA SHOAH
Di Carlo Mattogno, 26 Gennaio 2010
L’encomiabile opera di Yakov M. Rabkin, professore di storia ebraica all’Università di Montreal, A Threat from Within: A History of Jewish Opposition to Zionism, che ho in edizione francese (Au nom de la Torah. Une histoire de l’opposition juive au sionisme. Éditions Tarik, Casablanca, 2004), ma di cui è disponibile anche una traduzione italiana (Una minaccia interna. Storia dell’opposizione ebraica al sionismo. Ombre Corte, 2005), espone nel sesto capitolo le posizioni del giudaismo ortodosso e del sionismo sulla Shoah. Si tratta di interpretazioni di un evento – la persecuzione nazista degli Ebrei – cui, in senso lato, ossia prescindendo dalle sue modalità e dalla sua entità, non c’è nulla da eccepire, e che valgono a maggior ragione per tutti coloro per i quali esso si configura come Shoah.
La prima si pone in una prospettiva teologica :
«Secondo la tradizione, nulla può sfuggire alla volontà divina, tranne il timor di Dio, che resta fermamente nelle mani di ogni Ebreo. Il libero arbitrio sarebbe dunque quel dono il cui cattivo uso rischia di provocare la collera di Dio. Si opera spesso una distinzione cruciale tra una tragedia inflitta da Dio (ad esempio la distruzione di Sodoma e Gomorra) e una tragedia che deriva dal ritirarsi della Provvidenza divina. In quest’ottica, Dio punisce soltanto i colpevoli; ora, quando Dio si ritira (“nasconde il suo volto”) e la punizione viene dall’uomo, soffrono anche gli innocenti»(p. 192).
Il rabbino Moshé Dov Beck spiega questa teodicea con una parabola: Un re aveva un figlio gravemente ammalato, senza speranza di guarigione. Un uomo promette di guarirlo a condizione di operarlo senza anestesia. Il re accetta e il figlio viene operato tra sofferenze indicibili, mentre egli attende fuori dietro una porta vetrata, afflitto, ma anche gioioso, perché sa che il figlio guarirà; questi invece, non vedendolo, pensa che il padre l’abbia abbandonato, mentre il padre ha soltanto “nascosto il suo volto”.
L’insegnamente che ne trae è questo:
«La Shoah ha causato gravi sofferenze, ma Dio non ci ha mai abbandonati, non ha neppure nascosto il suo volto. La malattia che ci aveva colpiti si chiama secolarizzazione».
Ma «i sionisti rifiutano di vedere la mano di Dio dietro la Shoah»(pp. 192-193).
In questa teodicea,
«la tragedia chiama ad un esame del proprio comportamento, a un pentimento individuale e collettivo. Essa non è un’occasione per accusare il carnefice, ancor meno un tentativo di spiegare il suo comportamento mediante fattori politici, ideologici o sociali. Il carnefice, si tratti del faraone, di Amalek o di Hitler, sarebbe soltanto un agente della punizione divina, un mezzo indubbiamente crudele per indurre gli Ebrei a pentirsi»(p. 193).
Il rabbino Elhanan Wasserman considerava le persecuzioni naziste, di cui egli stesso fu vittima, «come una conseguenza diretta del sionismo», rivolgendosi in particolare contro il «nazionalismo ebraico in quanto movimento che ha condotto una guerra tra il popolo ebraico e il Regno celeste»(p. 193). Egli era persuaso che la Shoah non fosse altro che «un castigo per l’abbandono della Torah incoraggiato e praticato dai sionisti», e
«secondo questa logica, finché l’impresa sionista andrà avanti, il popolo ebraico continuerà a pagare caro in vite umane per le trasgressioni inerenti al sionismo. […]. La violenza di cui soffre la popolazione israeliana da più di un secolo sarebbe, secondo questa logica, un castigo continuo per la fondazione e il mantenimento dello Stato d’Israele»(p. 194).
La conclusione di Wasserman è che «la nostra calamità presente, che non ha precedenti nella storia ebraica, è l’abbandono dello studio della Torah».
«La letteratura giudaica che presenta questa visione della Shoah – commenta Rabkin – è abbondante, si fonda su fonti classiche e comincia prima di Auschwitz. Il tradimento dell’esilio da parte dei sionisti avrebbe provocato la catastrofe e come la trasgressione del sionismo è collettiva, così anche la punizione sarebbe collettiva».
Il rabbino Amram Blau, il fondatore del movimento Neture Karta, dichiara che
«la Shoah è arrivata come una risposta ai peccati dei sionisti. Essi avevano trasgredito i tre giuramenti menzionati dal Talmud come ordini divini contro l’istituzione di uno Stato ebraico»(p. 198).
I tre giuramenti talmudici (Ketuboth, 111a) sono questi:
«non acquisire un’autonomia nazionale, non rientrare in massa e in modo organizzato nella Terra d’Israele, neppure col permesso dei Gentili, non ribellarsi contro i Gentili» (p. 80).
L’acquisizione della Terra d’Israele non può essere il risultato di un’attività umana (la forza militare o l’azione diplomatica), ma rientra nel progetto messianico e non può essere realizzata che da Dio (p. 75). Il precetto biblico di abitare la Terra d’Israele entra dunque in vigore solo all’arrivo del Messia. Perciò «il sionismo rappresenta una negazione della tradizione ebraica» (pp. XII-XIII). Il suo scopo, secondo il rabbino Haim Soloveitchik, non è di creare uno Stato, «ma di allontanare gli Ebrei dalla Torah». Esso è «un’opera satanica, perché sostituisce il soprannaturale col naturale, il religioso con il laico, la pazienza e la fede in Dio con l’attivismo politico e militare». Esso è assimilabile a Satana, come dichiara esplicitamente il Rebbe di Munkacz (p. 96).
Secondo gli Ebrei pii, «la Shoah, provocata dai nostri peccati, ci richiama al pentimento»(p. 215); essi condannano anche «la glorificazione della forza inerente a queste commemorazioni che pongono l’accento sulla resistenza [ebraica], la quale, dopo tutto, fu molto rara»(p. 214), come quella, tanto celebrata, del ghetto di Varsavia:
«Morire armi alla mano rappresenta certo un atto di eroismo nella cultura occidentale. Provocare l’annientamento del ghetto di Varsavia a causa di una ribellione che non aveva alcuna possibilità di riuscita davanti alla macchina da guerra nazista costituisce dunque un atto eroico per gli uni, ma un crimine per gli altri»(p. 214).
Quando Dio “nasconde il suo volto”, attua la sua «manifestazione attiva nella storia» attraverso i suoi agenti della punizione divina, tra cui Hitler stesso. Perciò
«la Shoah rientrerebbe in tutta quella serie di tragedie che la tradizione ebraica ha saputo interpretare nel quadro morale di ricompensa e di castigo, di merito e di trasgressione, di umiltà e di arroganza verso Dio. La Shoah sarebbe dunque un avvenimento simile alla storia biblica del vitello d’oro, alla rivolta di Core contro Mosè e Aronne, alla distruzione dei due templi».
Perciò non c’è «alcun bisogno di commemorare la Shoah in modo diverso da tutte le altre tragedie»; anzi, il rabbino Yoel Teitelbaum e altri haredim (Ebrei tradizionalisti) sostengono che
«la Shoah e lo Stato d’Israele non costituiscono affatto eventi antitetici – distruzione e ricostruzione –, ma piuttosto un processo continuo: l’eruzione finale delle forze del male come preludio della redenzione»(p. 216).
L’interpretazione sionista della Shoah è invece di carattere ideologico:
«In effetti, i fondatori [dello Stato d’] Israele convincono la maggioranza delle Nazioni unite che l’unica riparazione e, nello stesso tempo, l’unica soluzione del “problema ebraico” consiste nella creazione di uno Stato per gli Ebrei. Per loro, la presenza degli Ebrei nella diaspora sarebbe pericolosa e solo uno Stato indipendente potrebbe proteggerli. I sionisti stabiliscono un legame diretto tra la Shoah, evento di distruzione estrema, e lo Stato d’Israele, che è presentato come la rinascita dopo la distruzione della Shoah. Il modo di commemorare la Shoah riflette le lezioni che si vogliono trarre da essa. […].
Il messaggio principale della commemorazione è diretto: non ci sarà più Shoah, perché il nostro Stato saprà proteggerci. I Sionisti proclamano apertamente che, se lo Stato di Israele fosse esistito prima della seconda guerra mondiale, la Shoah non sarebbe mai avvenuta» (p. 210).
La Shoah costituisce dunque la ragion d’essere dello Stato israeliano, sia perché esso vuole proteggere tutti gli Ebrei della diaspora dalle minacce dell’ “antisemitismo”, sicché «la Shoah serve da giustificazione ultima per la necessità di avere uno Stato d’Israele»; sia perché esso «costituisce una riparazione in rapporto alla Shoah» (p. 212).
Al riguardo Rabkin scrive:
«La Shoah ha permesso allo Stato d’Israele di ricevere riparazioni sostanziali dalla Germania, e, più tardi, da altri paesi trovati colpevoli di aver collaborato nell’attuazione della Shoah o di averne profittato. Nello spirito collettivo del mondo, lo Stato d’Israele sarebbe l’erede legittimo dei milioni di Ebrei sterminati. Ora, molti critici, haredim e liberali, recriminano che lo Stato d’Israele avrebbe profittato delle riparazioni tedesche in modo illegittimo, perché le vittime non avrebbero mai designato lo Stato d’Israele come loro successore. Le critiche giudaiche mettono parimenti in guardia contro coloro che organizzano campagne miranti a ottenere l’indennizzo delle banche svizzere o di altre terze parti. L’aggressività degli avvocati ebrei che conducono queste campagne preoccupano gli haredim, che rifiutano ogni manifestazione di orgoglio e di combattività e temono che questa affermazione collettiva e pubblica degli “interessi ebraici” provochi un cambiamento di atteggiamento contro gli Ebrei»(p. 217).
All’idea di riparazione è strettamente legata quella di ricatto: poiché, come dichiarò un parlamentare israeliano, perfino gli amici degli Ebrei si astennero dal dare alle future vittime dei campi della morte un aiuto sostanziale, «tutto il mondo libero, soprattutto ai nostri giorni, deve dimostrare il suo pentimento […] procurando a Israele un aiuto diplomatico, difensivo ed economico»(p. 213).
Rabkin spiega:
«Questa citazione, tratta da un’analisi politica effettuata dai sionisti nazional-religiosi in Israele piuttosto che da un’opera polemica, come quella di Norman Finkelstein, indica che l’uso ideologico e politico della Shoah è abituale e consueto e implica una manipolazione del senso di colpa su scala collettiva.
Gli usi della Shoah da parte dello Stato d’Israele sono molteplici. La Shoah serve da decenni da strumento persuasivo della politica estera di Israele che arriva persino a soffocare le critiche contro di esso e a suscitare una simpatia per lo Stato, presentato come l’erede collettivo di sei milioni di vittime»(p. 213) .
Lo scrittore israeliano Amos Oz si oppone a quest’uso ideologico della Shoah descrivendolo sarcasticamente così:
«Le nostre sofferenze ci hanno procurato indulgenze, una sorta di carta bianca morale. Dopo tutto quello che questi sporchi gojim (non-Ebrei) ci hanno fatto, nessuno di essi ha il diritto di insegnarci la morale. Noi, d’altra parte, abbiamo carta bianca, perché siamo stati vittime e abbiamo sofferto tanto. Una volta vittima, [si resta] sempre vittima, e questo stato di vittima fornisce a colui che lo detiene una esenzione morale» (p. 213).
In tale contesto anche l’accusa di “antisemitismo” ha una sua precisa funzione:
«I sionisti affermano che ogni critica al sionismo e ogni tentativo di delegittimare lo Stato d’Israele costituiscono in sé un atto di antisemitismo. Così, essi danno ragione a coloro che, primi tra i critici del sionismo, avvertivano, sin dalla fine del XIX secolo, che l’istituzione di uno Stato per gli Ebrei non avrebbe eliminato l’antisemitismo, ma, al contrario, avrebbe messo gli Ebrei in pericolo, intensificando e concentrando l’odio verso l’Ebreo»(p. 217).
Nella prospettiva degli haredim, «la fondazione d’Israele costituisce una violazione dell’ordine universale e meriterebbe dunque una punizione», una punizione apocalittica: «una distruzione totale, assoluta e repentina aspetterebbe lo Stato d’Israele», operata direttamente da Dio, e tale che, alla venuta del Messia, resterebbero solo settemila Ebrei in Terra d’Israele (p. 218).
La terza interpretazione della Shoah, quella della storiografia olocaustica, è invece ideologico-propagandistica. Come ho rilevato altrove, essa nacque nelle aule dei tribunali dei Vincitori come strumento bellico contro i Vinti. Al processo di Norimberga, che ne fissò i cardini, il procuratore generale degli Stati Uniti J. R. H. Jackson, nel corso dell’udienza del 26 luglio 1946, dichiarò candidamente:
«Gli Alleati si trovano tecnicamente ancora in stato di guerra con la Germania, sebbene le istituzioni politiche e militari del nemico siano infrante. In quanto Corte di Giustizia Militare, questa Corte di Giustizia costituisce una continuazione degli sforzi bellici delle Nazioni Unite»([1]).
La ricostruzione storica proposta dal Tribunale, che divenne poi la storiografia olocaustica, costituiva dunque «una continuazione degli sforzi bellici delle Nazioni Unite» per infrangere le istituzioni ideologiche e culturali della Germania, cosa poi attuata praticamente con la cosiddetta «rieducazione» (Umerziehung).
Fin dall’inizio, dunque, gli obiettivi e le finalità della nascente storiografia olocaustica furono pertanto completamente estranei all’accertamento della verità: essa non si può definire storiografia, ma, al più, un tentativo di “storicizzazione” della propaganda di guerra.
Resta infine un’ultima interpretazione, quella revisionistica, che non si cura né di teologia, né di ideologia, né di propaganda, ma di storia e di metodologia storiografica.
Un colpa gravissima e inammissibile, in questo contesto.
Carlo Mattogno
([1]) Protocolli delle udienze del processo di Norimberga, edizione tedesca, vol. XIX, p. 440.
Citaz:"Al processo di Norimberga, che ne fissò i cardini, il procuratore generale degli Stati Uniti J. R. H. Jackson, nel corso dell’udienza del 26 luglio 1946, dichiarò candidamente:
«Gli Alleati si trovano tecnicamente ancora in stato di guerra con la Germania, sebbene le istituzioni politiche e militari del nemico siano infrante. In quanto Corte di Giustizia Militare, questa Corte di Giustizia costituisce una continuazione degli sforzi bellici delle Nazioni Unite»
Forse è significativo ricordare che il giudice J. R. H. Jackson era di stirpe ebraica.Solo una coincidenza?