Di Leon Goldensohn
A cura di Robert Gellately (Vintage House, 2004)[1]
Recensito da Thomas Kues, Maggio 2009[2]
Leon Goldensohn (1901-1961) fu un medico e psichiatra ebreo americano che si arruolò nell’esercito degli Stati Uniti nel 1943. Nel 1946, divenne lo psichiatra della prigione di Norimberga e il responsabile della salute mentale degli ex leader tedeschi che erano all’epoca imputati all’IMT[3] di Norimberga. Tale compito comprendeva la conduzione di ampie e formali interviste con la maggior parte dei prigionieri, come pure con un certo numero di testimoni della difesa e dell’accusa. Uno degli intervistati fu l’ex comandante di Auschwitz-Birkenau, Rudolf Höß. Poiché ho già esaminato diffusamente in un precedente articolo le dichiarazioni rese da Höß a Goldensohn su Treblinka (“Sulla presunta visita di Rudolf Höß a Treblinka”) e poiché esaminerò la sua descrizione di Auschwitz in un prossimo lavoro, non parlerò ulteriormente dell’intervista di Höß in questa breve recensione.
Prima di tutto, bisogna esaminare la natura testuale delle interviste pubblicate. Nell’introduzione del curatore (p. XXI) leggiamo che “Goldensohn volle prendere delle note dettagliate” mentre intervistava, e che egli trascrisse queste note poco dopo, poiché intendeva pubblicarle un giorno in forma di libro. Tutto ciò non fu possibile, a causa della sua morte prematura. Il materiale di Goldensohn venne invece raccolto e dattilografato da suo fratello Eli. I testi delle interviste presentati in questo volume consistono di “un’edizione rivista e ridotta di alcune delle interviste di Goldensohn”. Poiché non vennero effettuate delle trascrizioni letterali, e poiché vi fu un’ampia possibilità – da parte dello stesso Leon, di suo fratello Eli e infine di Gellately – di rivedere le interviste a proprio piacimento, il valore probatorio di tali interviste deve essere considerato basso (nonostante Gellately sostenga di non aver “cercato di correggere tutti gli errori o le ovvie inesattezze che Goldensohn involontariamente registrò”). A parte questo, il volume è molto interessante per chiunque sia interessato al processo di Norimberga e ai leader del Terzo Reich, in particolare perché fornisce molti dettagli biografici.
Benché, dal punto di vista medico, egli registri le sue osservazioni in modo generalmente esatto, in diverse occasioni Goldensohn getta la maschera dell’obbiettività rivelando un pregiudizio filo-sovietico, come pure delle opinioni marcatamente intenzionaliste sull’origine della guerra. L’esempio più chiaro arriva quando Goldensohn afferma che l’Unione Sovietica “non commise nessuna atrocità o violazione delle norme internazionali” (p. 147). Egli rimprovera anche ripetutamente gli intervistati quando menzionano le atrocità sovietiche nelle zone orientali della Germania sconfitta, chiedendo loro le prove.
Gellately scrive nella sua introduzione che alcuni degli imputati intervistati si impegolarono in “falsità, negazioni, e invenzioni o sulla ripetizione di miti e dicerie infondati” (p. XXV), riferendosi alle affermazioni dei prigionieri di non aver mai saputo delle uccisioni degli ebrei durante la guerra, o alla negazione della responsabilità di certi presunti crimini contro la popolazione ebraica. Ad esempio, il capo dell’intelligence Walter Schellenberg affermò (p. 422) che fino alla fine della guerra “pensava che gli ebrei fossero sostanzialmente ancora vivi” e alloggiati nei campi. Il formale successore di Hitler come capo di stato, il Grande Ammiraglio Karl Dönitz, afferma di non aver saputo nulla dello sterminio fino al suo arresto (pp. 4, 11) e se “respinge le atrocità” è “ancora dubbioso” sul presunto sterminio nei campi. Goldensohn gli chiede se il film propagandistico degli Alleati sui cittadini di Weimar che mostrano cadaveri emaciati – in realtà vittime del tifo – a Buchenwald “non fosse una prova sufficiente dei crimini di guerra e delle atrocità del regime nazista”, a cui Dönitz ribattè che egli non dubitava di questo film ma che rimaneva dubbioso sulle altre presunte atrocità (pp. 7-8). Dönitz osservò di aver avuto alle sue dipendenze degli alti ufficiali ebrei e che “se qualcuno di questi quattro ufficiali ebrei avesse saputo cosa stava succedendo agli ebrei all’interno della Germania o altrove (…) sicuramente me lo avrebbero detto” (p. 13). Dönitz non credeva neppure che Hitler avesse ordinato lo sterminio degli erbei (p. 9), un’opinione echeggiata nelle dichiarazioni di Hermann Göring che, se faceva affermazioni come quella che “Himmler l’ha fatta franca per le atrocità che ha ordinato”, manifestò anche un netto scetticismo (p. 127):
“C’era l’anello di ferro interno costituito da Bormann, Himmler e Ribbentrop. Penso che le atrocità, se vi sono state – e attenzione, non credo che fossero tecnicamente possibili o , se vi furono, non credo che Hitler le avesse ordinate – deve essere stato Goebbels o Himmler”.
E’ meritevole di attenzione non solo che Göring dubitasse dell’accusa di sterminio in sé, ma anche della possibilità tecnica di un tale sterminio. L’ex Governatore Generale della Polonia, Hans Frank, che emerge come uno degli intervistati mentalmente meno stabili, affermò che lo sterminio “fu un’idea personale di Hitler. Stava nel testamento di Hitler. In esso egli disse di aver sterminato gli ebrei perché avevano iniziato la guerra” (p. 22). Anche Streicher affermò che nel suo testamento Hitler aveva “detto molto chiaramente di aver ordinato questi stermini” (p. 261). Eppure, ecco cosa dice davvero il passo in questione di tale testo (Documento 3569-PS):
“Ho anche detto chiaramente che se le nazioni europee venissero nuovamente considerate come delle semplici azioni da comprare e da vendere, da parte di questi cospiratori internazionali del denaro e della finanza, allora questa razza, gli ebrei, che sono il vero criminale di questa lotta mortale, se ne dovrà assumere la responsabilità. Stavolta non lascierò che qualcuno dubiti che non saranno solo milioni di bambini europei di razza ariana a morire di fame, che non saranno solo milioni di uomini adulti a patire la morte, e che non saranno solo centinaia di migliaia di donne e bambini a rimanere bruciati e bombardati a morte nelle città, senza che il vero criminale debba espiare la propria colpa, anche se con mezzi più umani”.
Quella suddetta non può certo essere definita l’ammissione di un programma di sterminio!
Il sottoposto di Goebbels, Hans Fritzsche affermò di non credere nella soppressione “dei 5 milioni di vittime dei campi di sterminio” durante la guerra e di aver realizzato “che quello che queste stazioni-radio alleate dicevano era letteralmente vero” solo in seguito (p. 60). D’altro canto, egli asserì che Göring e Frank dovettero essere pienamente consapevoli dello sterminio e che su questo punto mentivano (p. 63). Ribbentrop affermò che “la prima volta che ho sentito parlare degli stermini è stato alla fine del 1944, quando i russi riconquistarono la regione in cui si trovava il campo di Majdanek. Essi diffusero la storia dello sterminio degli ebrei dopo che ebbero catturato Majdanek. Andai da Hitler e lo interpellai. Disse che si trattava di propaganda nemica” (pp. 193-194). Sepp Dietrich ricorda un analogo episodio riguardante Himmler (pp. 284-285). Le loro storie sono tipiche. Norimberga fu una parte fondamentale della Umerziehung, della rieducazione tedesca.
Mentre per l’accusa che la Banca del Reich avesse fatto incetta dei denti d’oro degli ebrei gasati, l’ex Ministro dell’Economia Walther Funk affermò di non avere “idea di dove questo denaro delle SS provenisse. (…) Non pensai neppure ai campi di sterminio” (p. 91). Funk riconobbe di aver ispezionato i caveau della banca, ma Goldensohn osserva: “Ripeteva di non aver mai visto i denti d’oro, gli orologi, le montature degli occhiali e così via”.
Generalmente, gli imputati tendevano a incolpare, del “programma di sterminio”, o Hitler o il trio Himmler, Bormann e Goebbels. Ad esempio, mentre Kaltenbrunner (p. 149) afferma di credere che lo sterminio ebbe luogo “a causa dell’obbedienza da schiavo di Himmler al Führer”, Göring e Pohl suggerirono (pp. 127, 407) che fu tutto un complotto segreto di Himmler. Curiosamente, Goldensohn non affrontò l’argomento del “programma di sterminio” con Alfred Rosenberg, ex Ministro dei Territori Orientali Occupati.
Vi sono diversi ulteriori esempi in cui appaiono delle increspature nella neonata narrazione dell’Olocausto. Il Generale delle SS Erich von dem Bach-Zelewski osserva, a proposito delle esecuzioni sul fronte dell’est (p. 270): “Sì, ho visto delle esecuzioni, ma non solo di ebrei, anche di altri”, indicando lo scopo vero, quello della lotta anti-partigiana, degli Einsatzgruppen. Sepp Dietrich critica aspramente la ridotta libertà di espressione nella Germania post-bellica e, in realtà, ecco cosa significava questo clima per lui e per gli altri accusati (p. 284): “Non c’era la Convenzione di Ginevra [al fronte orientale]. Ma non fucilammo neppure i russi. Dove potevamo trovare 3 milioni di prigionieri se avessimo fucilato tutti i russi? Propaganda! Non puoi aprire bocca, nemmeno nella più grande democrazia!”.
Il feldmaresciallo Ewald von Kleist fu a Norimberga uno dei numerosi tedeschi che criticarono la qualità e le risorse della squadra di difensori loro assegnata (p. 338): “Laternser (…) era così ignorante di questioni militari. All’iniziò annaspò e quasi annegò in tutto il materiale che Manstein e noialtri presentammo a Norimberga. Laternser non sapeva la differenza tra l’alto comando e un sergente. Era strano come se io avessi dovuto tenere una conferenza sulla bomba atomica”. Il dr. Hans Laternser proseguì la propria carriera come avvocato difensore al Processo Auschwitz di Francoforte, e in seguito scrisse un libro prudentemente critico su questo processo, Die andere Seite im Auschwitz Prozess (1966).
Kleist “non sapeva nulla” del presunto sterminio e, mentre sospettava che i polacchi e i rumeni avessero ucciso gli ebrei in massa, non seppe mai di “fatti attendibili riguardanti le responsabilità dei tedeschi” per le atrocità (p. 349). “Nel Gennaio del 1943”, racconta Kleist, “sentii che gli ebrei dovevano essere uccisi nel mio territoriorio.Mi appellai immediatamente al superiore delle SS e capo della polizia, il cui nome era Gerret Korsemann (…). Gli dissi che non avrei tollerato nessuna azione contro gli ebrei. Mi assicurò di non aver fatto dei passi contro gli ebrei, né di aver dato degli ordini in tal senso. (…) Ora, nei documenti russi viene detto che gli ebrei vennero uccisi in una zona sotto Korsemann, e nel mio territorio. Ma questi documenti sono senza data. Non penso che, da allora, siano stati uccisi degli ebrei nella mia zona” (p. 349). Manstein osserva di “non aver mai visto personalmente o di aver sentito notizie attendibili sulle fucilazioni di massa degli ebrei da parte di questi Einsatzkommandos” (p. 357).
Il merito di questi Taccuini di Norimberga sta principalmente nella chiave di lettura complementare che fornisce sul Processo di Norimberga e sulla situazione legale degli accusati. In molti casi, è anche interessante confrontare queste interviste con le dichiarazioni rese dagli stessi imputati e testimoni sotto giuramento in tribunale, o durante gli interrogatori preliminari. Quanto gli intervistati credessero davvero alle proprie dichiarazioni, e quanto semplicemente mostrassero di credere, come mezzo di autodifesa, rimarrà un mistero.
[1] Edito in Italia da Il Saggiatore Tascabili, 2008. I numeri di pagina citati in questa recensione si riferiscono all’edizione originale del libro.
[2] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://www.codoh.com/newsite/sr/online/sr_161.pdf
[3] International Military Tribunal.
Leave a comment