INDAGARE L’”AKTION REINHARDT” – QUALCHE NOTA E RIFLESSIONE
Di Thomas Kues (2009)[1]
Ho scritto finora più di venti articoli riguardanti i “campi della morte” dell’Aktion Reinhardt – Bełżec, Sobibór e Treblinka – e ancora non penso di avere esaurito l’argomento. In realtà, sto preparando un certo numero di testi più lunghi, la maggior parte dei quali riguarda Sobibór e Treblinka. Qualcuno potrebbe chiedersi perché ho scelto di studiare questi tre campi in particolare, a cui viene concessa poca attenzione sia dagli storici che dai media, e che non sono assolutamente centrali per la storia dell’Olocausto come, indubbiamente, il complesso dei campi di Auschwitz.
Sembra però che l’anno che sta per venire porterà molta più attenzione per i campi Reinhardt. La ragione più immediata è il nuovo processo contro John Demjanjuk – accusato adesso di essere stato una guardia di Sobibór e complice dell’uccisione di 29.000 ebrei olandesi e tedeschi – il cui inizio è previsto per Ottobre. C’è stato anche un recente aumento delle pubblicazioni che affrontano l’argomento. A partire dalla metà degli anni 2000 sono state pubblicate due biografie del capo dell’Aktion Reinhardt, Odilo Globocnik (Creator of Nazi Death Camps: The Life of Odilo Globocnik, di Berndt Rieger, e Odilo Globocnik, Hitler’s Man in the East [Odilo Globocnik, l’uomo di Hitler all’est], di Joseph Poprzeczny) come pure una breve biografia del primo comandante di Treblinka, il dr. Irmfried Eberl, di Michael Grabher (che ho recensito per il blog “Inconvenient History”). C’è inoltre in preparazione una monografia ufficiale su Sobibór, da parte del Museo di Włodawa (che è responsabile del museo nel sito dell’ex campo), come pure uno studio sugli ausiliari ucraini che prestarono servizio nei campi Reinhardt. Il museo e l’archivio dello Yad Vashem hanno anche pubblicato due libri di ex detenuti di Treblinka: Quenched Steel: The Story of an Escape from Treblinka [Acciaio raffreddato: la storia di una fuga da Treblinka] di Edi Weinstein (2002) e Escaping Hell in Treblinka [Sfuggire all’inferno a Treblinka] (2008) che contiene due testimonianze oculari, “My War Experiences”, di Israel Cymlich e “Ten Months in Treblinka” [Dieci mesi a Treblinka] di Oskar Strawczynski. Nel Novembre di quest’anno, il mondo vedrà la pubblicazione simultanea in otto lingue di un ulteriore resoconto su Treblinka, I Am the Last Jew: Treblinka 1942-1943 [Sono l’ultimo ebreo: Treblinka 1942-1943] un memoriale di Chil Rajchmann (alias Yechiel Reichmann, alias Henryk Ruminowsky), che morì circa dieci anni fa in Uruguay. Prometto che scriverò un’approfondita recensione di questo “importante documento storico” non appena arriverà nelle librerie.
Perché sono interessato ai campi Reinhardt? Come ho già detto, sono avvolti nell’oscurità, e chi non apprezza il mistero? Su questi campi esistono scarse e preziose prove documentarie e l’immagine storiografica che si ha di essi è basata, in modo più o meno esclusivo, sulle testimonianze oculari, la maggior parte delle quali prodotte decenni dopo la fine della guerra in relazione a una serie di processi, in Germania ovest, contro il personale degli ex campi (i più importanti sono i processi Bełżec di Monaco degli anni 1964-65, il processo Treblinka di Düsseldorf degli anni 1964-65, e il processo Sobibór di Hagen degli anni 1965-66).
Poiché la mia competenza principale riguarda l’analisi dei testi e dei documenti, considero l’indagine delle prove testimoniali il mio campo d’azione – confrontare le dichiarazioni contraddittorie, delineare le relazioni intertestuali, accertare l’origine delle varie dicerie. Il fatto che non rimangano praticamente tracce fisiche tangibili dei campi Reinhardt li ha resi un terreno ideale per le illusioni e le affabulazioni della pseudo-storiografia (o per dirla in breve, la mitografia) dell’Olocausto. Come è stato osservato da Jürgen Graf alla conclusione dello studio da lui dedicato, insieme a Carlo Mattogno, a Treblinka:
“Treblinka, in realtà, è la pietra miliare più comoda dell’”Olocausto”, il miraggio di un immane genocidio nelle camere a gas, di cui non esiste la minima traccia documentaria o materiale e sul quale non sapremmo nulla senza i racconti di una manciata di “testimoni oculari” – in totale contrasto con le sofferenze, reali e irrefutabili, del popolo ebreo durante la seconda guerra mondiale”.
Ovviamente, la stessa cosa è vera per Bełżec e Sobibór, come pure per Chełmno (Kulmhof), dove la situazione documentaria è analoga.
Naturalmente, l’obbiettivo principale delle ricerche revisioniste deve essere quello di mettere a confronto le accuse di sterminio con la realtà. Nel caso dei campi Reinhardt, questo consiste nell’esaminare la tesi che centinaia di migliaia di vittime furono gasate con esalazioni diesel, interrate in fosse comuni, e poi riesumate e incenerite in pire all’aperto, con le ceneri nuovamente sepolte nelle medesime fosse. L’accusa che i resti dei corpi inceneriti vennero sepolti dentro zone circoscritte di campi già piccoli è di particolare importanza, poiché questo rende possibile accertare se la quantità di ceneri presente nel terreno corrisponde davvero alle pretese cifre delle vittime cremate.
Le considerazioni suddette, insieme alla nozione dei campi Reinhardt quali “campi di puro sterminio”, dove praticamente tutti i nuovi arrivati venivano uccisi nel giro di poche ore, e l’esistenza del telegramma Höfle, che fornisce le cifre dei deportati dell’anno 1942, limitano le conclusioni possibili sulla vera natura dei campi ad un aut-aut. Come Graf puntualizza (su Treblinka, ma la stessa considerazione si applica anche a Bełżec e a Sobibór), questi campi erano “troppo piccoli per ospitare il gran numero di ebrei deportati lì ogni volta, [e così] la tesi del campo di transito è in realtà la sola alternativa plausibile all’immagine convenzionale del campo di sterminio. Tertium non datur – non c’è nessun’altra possibilità”.
Non deve perciò sorprendere che nessuna delle difettose indagini, archeologiche e forensi, compiute dagli agenti dell’ortodossia olocaustica, abbia espresso il minimo sforzo per accertare la quantità totale effettiva dei resti umani presenti nelle fosse comuni dei siti in questione. Per costoro, c’è solo una conclusione possibile – quella del dogma sanzionato ufficialmente delle camere a gas. I risultati pubblicati delle indagini, tuttavia, si sono dimostrati sufficientemente fatali per la leggenda.
Paragonata allo studio dei presunti stermini di Auschwitz e Majdanek, dove lo studio delle caratteristiche dell’acido cianidrico e dell’efficienza dei forni crematori sono indispensabili, l’indagine critica delle accuse riguardanti i campi Reinhardt non richiede la stessa mole di conoscenze scientifiche altamente specialistiche, anche se è doverosa un’infarinatura almeno elementare di fisica (in modo tale da capire perché le dicerie di Rachel Auerbach, secondo la quale a Treblinka il sangue veniva usato come “materiale combustibile di primordine”, o l’asserzione di Jankiel Wiernik e di altri testimoni “oculari”, secondo cui i cadaveri potevano essere inceneriti senza l’uso di combustibile, sono a dir poco dubbie), e una certa familiarità con gli studi forensi è di grande aiuto (qui mi permetto di raccomandare un’eccellente antologia attinente all’argomento, e cioè Forensic Archaeology: Advances in Theory and Practice [Archeologia forense: progressi nella teoria e nella pratica], curata da John Hunter e Margaret Cox, Routledge, 2005, che ha molto da dire sulla questione delle fosse comuni).
L’instancabile ricercatore revisionista Carlo Mattogno ha inoltre accumulato una grande quantità di dati sulla portata e sui limiti delle cremazioni all’aperto e sul processo di decomposizione del corpo umano, che sono di grande aiuto nel vagliare la tesi che i demoniaci nazisti riuscirono a cremare i cadaveri di milioni di ebrei come fossero foglie morte. Quando vengono messi di fronte al fatto che le accuse riguardanti i campi Reinhardt possono essere confrontate con i dati forniti dall’esperienza della vita reale, come i casi documentati di fosse comuni o le tecniche primitive di cremazione utilizzate in India, i difensori dell’Innegabile e Auto-evidente Verità della Shoah o fanno orecchie da mercante alle critiche blasfeme, o prendono in giro sé stessi dichiarando che la realtà è irrilevante (come esempio eloquente di quest’ultimo caso, il lettore può consultare l’articolo di Mattogno “Bełżec e le controversie olocaustiche di Roberto Muehlenkamp”, disponibile nella sezione italiana del sito Vho[2]).
Sono anche molto interessato alla “microstoria” dei campi Reinhardt. I relativi approfondimenti sono apparentemente trascurabili, ma in realtà vi sono frammenti di prova altamente illuminanti, tralasciati da giudici e storici, che mi intrigano. Per fare un esempio, un documento tedesco dell’Agosto del 1942 (ZStL Slg. Polen, Bd. 353, p. 168) mostra che gli ebrei del ghetto di Varsavia condannati a morte rimanevano esenti dalla deportazione a Treblinka dove, ci dicono gli storici dell’Olocausto, essi sarebbero stati uccisi comunque! Sono convinto che l’indagine dei piccoli dettagli conduce non infrequentemente a rivelazioni importanti, grazie alle sorprese riservate dalla serendipità. Vi sono anche centinaia di testimoni oculari ebrei e polacchi, come pure di “perpetratori” tedeschi e ucraini che rimangono avvolti dall’oscurità e da informazioni biografiche contraddittorie. Sono molto interessanti anche le persone coinvolte nella produzione dei primi scritti propagandistici sui campi. Provo a elencare solo qualcuno degli “uomini del mistero” connessi alla storia di Treblinka:
· Il dr. Adolf Berman, direttore di CENTOS, ufficialmente un’organizzazione ebraica caritatevole dedita all’assistenza dei bambini, ma anche una copertura dell’attività di Berman come leader della propaganda ebraica clandestina. Suo fratello Jakub, un importante politico comunista, era considerato il braccio destro di Stalin nella Polonia degli anni tra il 1944 e il 1953. Al processo Eichmann, Berman parlò di una visita all’ex campo di Treblinka fatta nel 1944 o nel 1945. Come Rachel Auerbach, una delle prime propagandiste di Treblinka, egli aveva contatti nel ghetto di Varsavia con il gruppo Oneg Shabbat di Emanuel Ringleblum e con il suo archivio di (false) testimonianze contenporanee. Berman era anche strettamente associato al dr. Isaac Schwarzbart, uno dei principali fornitori della prima propaganda olocaustica, con le pubblicazioni del governo polacco in esilio a Londra.
· Le persone in gran parte sconosciute che orchestravano le campagne propagandistiche compiute nel ghetto di Varsavia, durante l’estate del 1942, da movimenti clandestini come il ZOB (Zydowska Organizacja Bojowa), che affiggevano manifesti annuncianti che i trasporti dal ghetto finivano “in un campo della morte vicino Treblinka” (Mietek Grocher, Jag överlevde! [Sono sopravvissuto!], Inova, Johanneshov, 2001, p. 113.
· Il ruolo esercitato, all’inizio del mito di Treblinka, dal Comitato Nazionale Ebraico e dall’organizzazione Konrad Żegota, che nel 1944 (con il nome ufficiale di “Comitato per l’Assistenza agli Ebrei”) pubblicò l’opuscolo Rok w Treblince, del testimone chiave Jankiel Wiernik (tradotto in inglese in quello stesso anno come A Year in Treblinka [Un anno a Treblinka]). Come emerge dal libro di Alexander Donat Death Camp Treblinka [Il campo della morte di Treblinka] Wiernik era anche in contatto con il dr. Berman prima di scrivere il suo opuscolo (p. 147), e furono Berman e Leon Feiner, autore della Lettera dal Bund del Maggio del 1942, che consegnarono personalmente il manoscritto allo stampatore clandestino del gruppo Żegota Ferdynand Arczynsky, come riferito dal politico polacco – ed ex membro del gruppo – Władisław Bartoszewski in un articolo del 1964, poi tradotto nel 2003 in un’edizione bilingue di A Year in Treblinka.
· Un altro membro chiave della cricca Żegota, lo scrittore e commediografo Stefan Krzywoszewski, che fu il primo a nascondere il fuggitivo Wiernik, e che può essere stato il “ghostwriter” dell’opuscolo del medesimo. E’ probabile che le sue memorie (Długie Życie, “Una lunga vita”) che non ho avuto ancora la possibilità di leggere, contengano ulteriori informazioni interessanti.
· Un agente del Bund ebraico chiamato Zelman Frydrych (Zalman Frydrych), in seguito ucciso nella rivolta del ghetto di Varsavia, che nella tarda estate del 1942 fu inviato a Treblinka per indagare sulle voci concernenti questo campo, e che fornì un approfondito rapporto per il numero del Settembre del 1942 del giornale clandestino di Varsavia Oyf der Wache. Sfortunatamente, tutti i miei sforzi per rintracciare una copia di questo rapporto sono falliti. Chiunque voglia fornire informazioni utili al riguardo può contattarmi tramite CODOH. Cerco anche informazioni su Dawid Nowodworski e su Azriel Wallach, che si dice fuggirono da Treblinka nell’Agosto del 1942.
Come mai, qualcuno si chiederà, sta crescendo l’attenzione per i campi Reinhardt? Oltre al già menzionato processo Demjanjuk, la ragione di fondo è la lenta ma sicura fine del mito di Auschwitz, come è stato osservato da Jürgen Graf:
“Dall’inizio della propaganda dell’”Olocausto”, Auschwitz ha avuto il primo posto e Treblinka il secondo; degli altri quattro “campi di sterminio” si è sempre parlato molto meno. Dalla fine degli anni sessanta lo stendardo dell’Armata dell’Olocausto, Auschwitz, ha subìto il fuoco di fila ininterrotto dei ricercatori revisionisti. A causa della pressione dei revisionisti – invisibile per l’opinione pubblica ma enorme – i sostenitori della versione ortodossa della storia si sono visti costretti a ridurre il numero delle vittime di questo campo”.
Se Auschwitz indietreggia, in una sorta di ritirata tattica, altre parti dell’”Olocausto” devono essere portate sotto i riflettori dei media per tenere desta l’attenzione del pubblico. Se la maggior parte delle persone conoscono il nome Auschwitz, sono davvero in pochi a conoscere qualcosa su Bełżec, Sobibór o su Treblinka. E’ una scommessa sicura che la maggior parte delle persone che riconoscono questi nomi, come feci io stesso a suo tempo, presuma che essi siano semplicemente delle copie carbone di Auschwitz. Poiché le assurdità belle e buone delle accuse riguardanti tali campi sono sufficienti a risvegliare le facoltà critiche in più di uno spettatore casuale, l’accresciuta consapevolezza – presso l’opinione pubblica – della storia dell’Aktion Reinhardt può dimostrarsi un’arma a doppio taglio per gli sterminazionisti.
Infine, è stata una semplice curiosità insaziabile – e la sete dell’avventura intellettuale – a spronarmi nella mia ricerca. Il revisionista Germar Rudolf, recentemente uscito di galera, parla di questo aspetto dell’istinto faustiano come dell’Eros della Conoscenza:
“Chiunque si consideri uno scienziato e non ha sperimentato tutto questo non è, secondo me, un vero scienziato. L’eccitazione di far parte di una ricerca scientifica e di scoperte decisive, portare avanti delle conoscenze con la consapevolezza che sono nuove e persino rivoluzionarie, sapere di trovarsi in prima linea e di aiutare a guidare “la nave della scoperta dove deve andare” – sono cose che bisogna provare di persona, per capire che cos’è l’Eros della Conoscenza”.
In questi giorni e in quest’epoca, la nave non sempre condurrà i suoi passeggeri ad una destinazione confortevole. Alla fine, l’esploratore eretico è costretto a finire in una terra avvolta da vapori velenosi, piena di spine, quasi impenetrabile. Ed è in questa oscurità fatta di menzogne e di tenebre, portando con me la luce della ragione, che devo andare.
[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://www.codoh.com/newsite/sr/online/sr_165.pdf
[2] http://ita.vho.org/BELZEC_RISPOSTA_A_MUEHLENKAMP.pdf
Un ottimo lavoro, professore,la materia è motivo di sicuro interesse, nonn solo per me.