di Pierre Panet, venerdì 10 Aprile 2009[1]
Non prendo spesso in mano la penna. Non è per pigrizia intellettuale. Ma due casi giudiziari recenti (un’indagine preliminare e una procedura per direttissima, a carico di due giornalisti di Le Monde) mi portano ad uscire dalla mia riservatezza e a scrivere.
Avrei voluto comunque mettere a disposizione di più siti internet i documenti pubblici sul caso dei due giornalisti di Le Monde. Ma questi ultimi hanno rifiutato la mia richiesta, ottenendo comunque la condanna dell’associazione (non più attiva dalla fine del 2005), LES OGRES UTOPISTES CONCRETS [Gli Orchi Utopisti Concreti] per degli articoli che li coinvolgevano. Quanto all’indagine preliminare, si trattava di niente di meno che di “contestazione di crimini contro l’Umanità” e di “istigazione all’odio razziale”. Non siamo arrivati fino all’apertura di un’istruttoria, secondo quanto mi è stato riferito; la denuncia veniva da parte del MRAP.
Ritorniamo a Robert FAURISSON, l’umanista che sta per compiere le sue 80 primavere. Lo so che è molto criticato e che lo spazio pubblico che Dieudonné gli ha offerto allo Zénith lo scorso 26 Dicembre ha suscitato, da parte dei suoi detrattori, una valanga di insulti, un odio feroce malcelato.
Ben inteso, io sono fondamentalmente un “dieudonnista” dalla campagna elettorale per le europee del 2004. Dieudonné non è soltanto un grande artista e un umorista, ma ci presenta delle opinioni che ci portano ad interrogarci, senza la paura di sollevare, tra l’altro, dei tabù storici. Tabù storici come la questione della Shoah, che è servita da trampolino di lancio per la creazione, nel 1948, di uno Stato quasi-teocratico, colonialista e razzista: lo Stato di Israele. Sia chiaro che, se io denuncio l’essenza giuridica di questo Stato, e se spero nella sua dissoluzione giuridica, spero anche nell’avvento di una Palestina laica, democratica e sociale, nella quale possano coabitare tutte le comunità religiose e le tre grandi Rivelazioni (il giudaismo, il cristianesimo e l’islam).
Non dimentichiamo che per quattro secoli, in Andalusia, le religioni del libro hanno potuto coesistere pacificamente, in contatto con la grande scuola d’Alessandria e con Filone, filosofo di origine ebraica del primo secolo della nostra era. La Palestina, prima della colonizzazione sionista, era una regione tranquilla, senza odio tra gli ebrei e gli arabi. Chissà se gli ebrei, che stavano lì da secoli, vedevano di buon occhio la venuta dei coloni nel ventesimo secolo?
La testimonianza dei fratelli Tharaud nel libro “Il prossimo anno a Gerusalemme” (1924), ci fornisce qualche chiarimento. So bene che essi hanno la fama di essere stati antisemiti. Ma prima della seconda guerra mondiale, non si poteva rivendicare il proprio antisemitismo, come si poteva essere filo-semiti? A Parigi, in epoca elettorale, non c’erano liste dichiaratamente antisemite? Questo oggi sarebbe inconcepibile e giuridicamente perseguibile.
Io non concepisco l’antisemitismo, espressione di un razzismo primitivo e generico, che si affida al fatto che per secoli gli ebrei sono stati considerati come dei paria e degli stranieri. Non c’è nulla di sbalorditivo nel fatto che, esclusi dalle cariche pubbliche e dalle corporazioni dell’Ancien Régime, si siano specializzati nella finanza, a partire dalle operazioni di prestito ad interesse, vietate dalla Chiesa. È il risultato di un comunitarismo identitario esasperato.
Ma torniamo ai fratelli Tharaud e al loro scritto: “Il prossimo anno a Gerusalemme”. Dicono che, di fronte alla colonizzazione sionista, gli arabi, i cristiani, e gli ebrei protestarono. Concentriamoci sulla protesta di questi ultimi: “Di tutte queste proteste la più sorprendente è, senza dubbio, quella che viene dal Muro del Pianto. Ieri mi domandavo: ‘Cosa ci può essere in comune con questi nuovi ebrei che incontro dappertutto nella Gerusalemme alta, con quell’aria di conquista e con i loro vestiti bizzarri, e i poveri mendicanti d’Israele venuti fin qui per morire’ ”?
Il rabbino Sonnenfeld è sgomento: “Vicino a lui, che è lontano da questi profeti con la giacca di cui si vedono le fotografie nei giornali sionisti, e che provano a conciliare dei vaghi sentimenti ebraici con delle idee prese a prestito dalle civiltà occidentali”.
E il rabbino spiega: “Ed ecco che dei folli cercano di sostituire l’Eterno e di ricostruire con le loro mani Gerusalemme! Il loro Messia è BALFOUR […] Credono di aver fatto chissà che cosa perché si è permesso a degli ebrei di stabilirsi in Palestina! Le persone di fede hanno aspettato il loro permesso per venire qui? […] Sia benedetto l’Eterno! Ci ha liberati dai Faraoni, ci ha riportati a casa da Babilonia e dalla cattività, ci ha mantenuti intatti in mezzo ai gentili, ci salverà adesso da questi ebrei pieni di orgoglio che non ascoltano più le promesse del Signore e che non vengono più fra noi con il Talmud e la Torà, ma con il vangelo di Karl Marx…”.
Queste citazioni mostrano come, dall’origine, il sionismo sia un’ideologia che non gode dell’unanimità tra gli ebrei e che è combattuta da molti di loro. La confusione antisionista-antisemita praticata oggi da certi magistrati è di bassa lega, sia nella 17° camera del tribunale penale che alla 10° camera della Corte d’Appello di Parigi.
Per ritornare all’umanesimo di Robert Faurisson, bisogna capire e ricordarsi di quello che lui provava a 16 anni all’epoca della Liberazione (so bene che Rimbaud ha scritto che non si è seri che a 17 anni).
Il giovane Robert non applaudiva l’occupazione del suolo francese da parte dei Tedeschi. Non aveva forse scritto che se la Germania fosse stata la vincitrice, avrebbe avuto delle difficoltà a stare da quella parte, con il suo spirito critico, caustico, e sottile? Ma alla domanda che gli pose suo padre il giorno del suo sedicesimo compleanno: “Sei contento che la Francia sia stata liberata?” egli pensa ed esprime un dubbio sulla sorte del popolo tedesco vinto, tanto vede un’arroganza vendicativa da parte delle potenze vincitrici.
Chi potrebbe veramente rimproverare ad un adolescente tale slancio di compassione, slancio che guiderà il corso della sua vita, al punto che Robert Faurisson trova oggi ingiusto che la terza generazione dei tedeschi debba pagare ad Israele il torto che i loro bisnonni hanno subito nel corso della seconda guerra mondiale? Non tutti hanno la magnanimità dell’imperatore Tito che nella penultima opera di Mozart perdona gli sconfitti. Meglio non immaginare cosa sarebbe successo se Hitler avesse vinto. La libertà intellettuale sarebbe morta.
Difendere Robert Faurisson non significa dunque approvare il III Reich e sostenere il regime nazista. Ma domandiamoci nel nostro foro interno: cosa avremmo fatto noi nel 1933 se fossimo stati tedeschi? Hitler non appariva come il salvatore supremo di uno Stato umiliato dal Trattato di Versailles del 1918? E noi, che ci diciamo democratici, che giuriamo sulla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 27 agosto 1789, siamo così onesti e generosi nei confronti della libertà di pensiero e di parola?
Perché è vietato dalla legge Gayssot del 1990 di esprimere qualsiasi dubbio sulle camere a gas omicide del regime nazionalsocialista? Kémi Séba non è stato condannato con la condizionale, per aver fatto capire che la situazione disperata del popolo africano era peggiore di quanto subìto dai detenuti del campo di Auschwitz? Certo, il paragone non era certo giudizioso! Troppo rischioso giuridicamente. Ma lasciamo a Kémi Séba le sue opinioni, confutiamole senza ricorrere all’arsenale repressivo.
Chi era ad Auschwitz, a Mauthausen o a Ravensbruck?
Su questi due ultimi campi, Olga Vormser-Migot ha riconosciuto che c’era un “problema” (Tesi: “Le système concentrationnaire nazi 1933-1945”, PUF 1968). Sicuramente, come ha detto l’autrice in un articolo su Le Monde del 1978, lei non contestava gli obiettivi e i risultati dello sterminio in certi campi dell’Ovest, ma le modalità di questo sterminio. Inoltre la sig.ra Vormser-Migot critica fortemente gli scrittori revisionisti.
Ma il problema sollevato per il campo di Ravensbruck è interessante. Germaine Tillon, figura incontestata della resistenza francese, deportato in questo campo, ha mai detto di avervi visto una camera a gas? Ora, anche gli storici ortodossi sono d’accordo nel dire che a Ravensbruck non vi sono mai state camere a gas omicide. Occorre ammettere che prima dell’uscita del libro “La menzogna di Ulisse”, di Paul Rassinier, le testimonianze dei deportati divergevano sulle condizioni di detenzione e di sterminio nei campi di concentramento della Germania nazista.
Perché rifiutare il dibattito con gli storici revisionisti? Si possono capire gli affetti psico-emotivi delle vittime, e che bisogna rispettare la memoria dei deportati della seconda guerra mondiale. Ma bisognerà aspettare che tutti i sopravvissuti dei campi di concentramento ci abbiano lasciati perché gli storici revisionisti possano dibattere?
Se alcuni testimoni preferiscono il silenzio, altri vogliono parlare, e tutte le testimonianze devono essere ascoltate. Perché rifiutare quella di Paul Rassinier? Perché proibire l’esposizione e la critica delle argomentazioni negazioniste? Perché rifiutare il dibattito con Robert Faurisson? Perché congelare la storia con la quarantena dei volumi ufficiali del processo di Norimberga?
A quanto pare, non è stato detto di tutto sui campi di concentramento, dopo la tesi di Olga Vormser-Migot. Lei stessa riconosceva, nell’articolo di Le Monde già citato, i limiti del suo campo di indagine. Alcuni archivi sono tuttora inaccessibili, tra gli altri quelli del Vaticano e dell’Unione Sovietica.
Di fronte a tutte le domande che uno spirito aperto e disincantato può porsi in modo spassionato, non si può rischiare un’ipotesi?
Senza la Shoah, lo Stato di Israele non sarebbe mai nato. Discutere la Shoah, vorrebbe dire allora compromettere, forse rovinare il fondamento storico di questo Stato. All’età di 20 anni consideravo la creazione dello Stato di Israele come un atto internazionale di giustizia, in seguito alle persecuzioni che gli ebrei avevano subito nella Germania nazista. A quel tempo non avevo conoscenza dell’esistenza del popolo palestinese. Non se ne parlava nei manuali di storia contemporanea. Veniva ricordato appena nella conferenza di Bandung dei paesi emergenti del terzo mondo.
E’ ora di cominciare a discutere di tutti i problemi riguardanti la seconda guerra mondiale. In modo implicito, era una delle interpretazioni che si potevano dare della comparsa di Robert Faurisson sulla scena dello Zénith, in seguito all’invito di Dieudonné il 26 Dicembre 2008. E’ una provocazione “positiva”, un “attentato mediatico”, come ha detto Dieudonnè.
A questo riguardo si potrà rilevare che, se Robert Faurisson contesta la Shoah, contesta anche l’autenticità della Casa degli Schiavi dell’Isola di Gorée. Dieudonné l’ha tirata in ballo nello spettacolo “J’ai fait l’con” [Ho fatto lo stupido] del 31 Dicembre 2008. Allora le comunità africane avrebbero potuto sentirsi colpite nella loro identità spirituale e morale, visto che l’Isola di Gorée è un luogo di pellegrinaggio e di memoria, che ricorda quattro secoli di schiavitù dei neri e la tratta degli schiavi transfrontaliera. Su questo, i media sono rimasti muti. Perché questo silenzio? Dobbiamo dedurne che la schiavitù degli africani è meno importante della Shoah nella coscienza storica collettiva? Eppure, si può pensare che gli effetti di lungo termine della schiavitù, che hanno permesso poi la colonizzazione dell’Africa, sono ben tangibili nel ventunesimo secolo.
Rimettere in discussione le premesse storiche della creazione dello Stato di Israele solleva clamore. Denunciare il saccheggio economico, lo sfruttamento umano degli Africani è un flop e lascia di marmo l’opinione pubblica e quelli che la manipolano. In nome del popolo francese, Kémi Séba è condannato al carcere con la condizionale. Anche in Francia vi sono due pesi e due misure, a seconda che voi siate di pelle bianca o nera, a seconda che voi siate un nero o un potente detentore delle leve economiche e finanziarie.
[1] Traduzione a cura di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://www.plumenclume.net/textes/2009/revisos/panet-faurisson-100409.htm
se Robert Faurisson contesta la Shoah, contesta anche l’autenticità della Casa degli Schiavi dell’Isola di Gorée. Dieudonné l’ha tirata in ballo nello spettacolo “J’ai fait l’con” CITAZIONE DALL'ARTICOLO:[Ho fatto lo stupido] del 31 Dicembre 2008. Allora le comunità africane avrebbero potuto sentirsi colpite nella loro identità spirituale e morale, visto che l’Isola di Gorée è un luogo di pellegrinaggio e di memoria, che ricorda quattro secoli di schiavitù dei neri e la tratta degli schiavi transfrontaliera. Su questo, i media sono rimasti muti. Perché questo silenzio?".
Faccaiamo finta di non sapere che i grandi quotidiani e i media in genere, appartengono a personalità ebraiche; così possiamo domandarci :" Perchè quasto silenzio?"in tutta tranquillità.