ISRAELE: UN MOVIMENTO DELLA STORIA GIUNTO A UN PUNTO MORTO
Di Gabriel Kolko, 25 Agosto 2009[1]
Alla fine del 1949, lavoravo su una nave che portava ebrei da Marsiglia a Haifa, in Israele. Gli ebrei di origine araba stavano a prua, quelli europei a poppa. Ero visto da molti degli europei come una bestia rara, perché avevo un passaporto degli Stati Uniti e potevo stare nella terra del latte e del miele. Un uomo voleva che sposassi sua figlia – il che significava che anche lui avrebbe potuto vivere nella terra del latte e del miele. Il mio ebraico divenne abbastanza decoroso ma l’esperienza era di quelle radicalizzanti o, almeno, mi fece rimanere radicale, e sono rimasto in quel modo.
Più tardi venni a sapere da qualcuno che dirigeva un campo profughi in Germania che la grande maggioranza degli ebrei voleva andare dovunque tranne che in Palestina. Erano costretti a scegliere la Palestina o ad essere esposti al rischio di non ricevere nessun aiuto. Capii molto presto che c’era del marcio negli innumerevoli villaggi e case arabi che vidi distrutti, e che l’intero progetto sionista – a prescindere dalla natura spesso venale dell’opposizione araba ad esso – era una vergognosa impostura.
Il risultato della creazione di uno stato chiamato Israele fu pessimo. Gli ebrei polacchi non avevano nulla in comune con quelli tedeschi ed entrambi non avevano nulla in comune con quelli di origine araba. E’ la nazionalità, non la religione, che conta di più. In Israele, gli ebrei, specialmente quelli tedeschi, si autoghettizzarono in base alla loro origine durante la prima generazione, quando una cultura militarizzata produsse una nuova razza mista chiamata sabras – con un carattere essenzialmente anti-intellettuale molto diverso da quello che i primi sionisti, che erano in maggioranza socialisti che predicavano la nobiltà del lavoro, si aspettavano che sorgesse. La grande maggioranza degli israeliani non è affatto ebrea, in senso culturale, ed è scarsamente socialista in ogni senso, e la vita quotidiana e il modo in cui la gente vive non sono differenti, in Israele, rispetto a quelli di Chicago o di Amsterdam. Semplicemente non c’è alcun motivo razionale che giustifichi la creazione dello stato.
Il risultato è un piccolo stato con un ethos militare che pervade tutti gli aspetti della cultura d’Israele, della sua politica e, soprattutto, della sua risposta all’esistenza degli arabi al proprio interno e ai suoi confini. Fin dall’inizio, l’ideologia dei primi sionisti – del Sionismo Laburista come pure del Revisionismo di destra di Vladimir Jabotinsky – incarnò una dedizione alla violenza, chiamata erroneamente autodifesa, e un virtuale isterismo. In quanto idea trascendente, il sionismo non ha valore perché le differenze nazionali tra gli ebrei sono schiaccianti.
Quello che il sionismo ha confermato, ammesso che vi fosse bisogno di conferme, è che nel modellare la storia gli eventi accidentali sono più importanti di quanto di solito non si conceda. Ecco dunque il caffè intellettuale, che esisteva in città-chiave – Vienna, alla svolta del ventesimo secolo, o il Lower East Side di New York prima della prima guerra mondiale – pieni di personaggi enormemente creativi colmi di idee e desiderosi di una nuova età dell’oro. Le idee – buone, cattive, o neutre – fiorirono. Il sionismo nacque in questa atmosfera inebriante.
Ma il sionismo ha prodotto una Sparta che ha traumatizzato una regione già artificialmente divisa dopo che il crollo dell’Impero Ottomano durante la prima guerra mondiale portò al Trattato di Versailles e alla creazione del moderno Medio Oriente. Lo stato d’Israele si è già affidato alle soluzioni militari, per i problemi politici e sociali con gli arabi. Il risultato è la mobilitazione permanente.
Un fatto anche più compromettente per la pace e la stabilità del vasto Medio Oriente, è che il sionismo – per la sicurezza del suo progetto nazionale, realizzato con uno stato chiamato Israele – è sempre stato alleato con qualche grande potenza. Prima del 1939, con l’Inghilterra; durante gli anni ’50 con la Francia. Dalla fine degli anni ’60, Israele è sopravvissuta grazie al flusso delle armi e del denaro americani, e questo le ha permesso di assecondare le sue paure di annientamento – un destino che il suo possesso di armi nucleari rende del tutto improbabile. Ma Israele ha anche un’importanza che va molto al di là delle fantasie di qualche intelletuale confuso. Oggi, la sua importanza per la politica estera americana è molto più grande perché l’Unione Sovietica non esiste più e il Medio Oriente provoca una paura cruciale per mobilitare il Congresso e l’opinione pubblica americana. “Le migliori speranze e le peggiori paure del pianeta si concentrano sul quel pezzo di terra relativamente piccolo” – come George Tenet, l’ex capo della CIA, scrisse nelle sue memorie, e per questo capire come e perché quel pezzo di terra è nato, e i gravi limiti della china militare che ne è seguita, ha un’importanza così grande, persino eccezionale.
Nel Luglio del 2003, il Ministro degli Esteri Shalom pronosticò che l’Iran avrebbe realizzato la bomba atomica nel 2006. Nel 2006, esso non aveva armi nucleari, sebbene in realtà un bombardamento riuscito con missili convenzionali su Dimona, l’impianto nucleare d’Israele, renderebbe radioattiva gran parte d’Israele – e sia l’Iran che la Siria hanno tali missili. Il Ministro della Difesa Ehud Barak, durante la visita del Vice-Presidente [americano] Dick Cheney alla fine di Marzo del 2008, affermò che “Il programma di riarmo dell’Iran minaccia non solo la stabilità della regione, ma quella del mondo intero”. Nella primavera del 2008, Israele era anche molto preoccupata per la crescente influenza di Hezbollah in Libano e per la sua capacità di fuoco assai accresciuta – soprattutto sotto forma di razzi capaci di colpire la maggior parte del territorio israeliano. Considera Hezbollah come uno strumento dell’Iran, e la sua attenzione sull’Iran riguarda sia il suo controllo su Hezbollah che la sua capacità di sfidare il monopolio nucleare israeliano. Ma non c’è dubbio che la forza di Hezbollah sia soltanto cresciuta da quando Israele l’ha attaccata in Libano nell’estate del 2006. Israele ora ha un nemico che può infliggerle enormi danni, cosa che probabilmente provocherà una migrazione molto più rapida di ebrei specializzati di quanto già non avvenga ora – già adesso, è maggiore il numero degli ebrei che lasciano Israele di quelli che vi migrano.
L’esistenza di Israele è praticamente la sola ragione per cui la politica americana nella ragione è così pessima. Dopo tutto, non è stato il sionismo a incoraggiare Washington a cercare di eliminare l’influenza inglese nella regione, e oggi nessuno può dire quanto a lungo gli Stati Uniti rimarranno impantanati negli affari del Medio Oriente. Ma Israele ora è un fattore cruciale. Mentre si può discutere dell’entità del suo ruolo, senza di essa la politica dell’intero Medio Oriente sarebbe differente – complicata ma molto diversa.
Almeno altrettanto nefasta nel lungo periodo – l’esistenza d’Israele ha radicalizzato – ma in un senso negativo – il mondo arabo, distogliendolo dalle naturali differenze di classe che spesso superano i legami religiosi e tribali. Ha alimentato il nazionalismo arabo in modo abissale e gli ha fornito un’identità negativa straordinaria.
Sono molto realista – e pessimista – su un’eventuale soluzione negoziata della crisi che ha circondato la Palestina e Israele. Data la grandezza dei cambiamenti necessari, l’attuale situazione giustifica le previsioni più fosche. Dopo tutto, gli arabi che vivono sotto il controllo israeliano supereranno molto presto la popolazione ebraica, lasciando uno stato de facto ebraico in cui gli ebrei saranno una minoranza! Questo fatto sta diventando profondamente inquietante per l’odierna politica israeliana, portando gli ex espansionisti a ribaltare la propria posizione e provocando una polemica sempre più intestina. Né vi sarà mai a Washington un’amministrazione pronta a fare per via diplomatica quello che nessuno ha osato fare dal 1947, e cioè costringere Israele a fare una pace equa con gli arabi.
Non passerà né la soluzione di un unico stato né quella dei due stati. Ma è molto probabile che la popolazione ebraica diminuisca, e se ciò accadrà in modo sensibile, allora il fattore demografico potrebbe rivelarsi cruciale. La percentuale di ebrei e di arabi diventerebbe oltremodo significativa. Gli ebrei israeliani sono altamente specializzati, e molti sono andati via, migrando all’estero. L’esercito israeliano è il più potente della regione perché è stato sommerso di apparecchiature americane, che ha imparato a riparare. Ma le forze americane hanno bisogno di tecnici che riparino esattamente le stesse apparecchiature, ora più che mai perché il reclutamento nell’esercito americano è il più basso dell’ultimo quarto di secolo (per non parlare del tasso astronomico dei suoi suicidi) e degli israeliani specializzati possono assumere incarichi nelle forze armate americane per i quali sono eminentemente qualificati. Inoltre, l’Iran e gli altri stati islamici alla fine svilupperanno o acquisteranno armi nucleari, rendendo Israele incredibilmente insicura per la sua popolazione ebraica così mobile – che è sfinita dal servizio regolare in riserve obbligatorie. E come è già stato detto, distruggere Dimona con missili convenzionali o con mortai sarebbe un modo economico per rendere radiottiva gran parte d’Israele. Ancora peggio, Osama bin Laden, o qualcuno come lui, può acquistare un congegno nucleare, e una bomba nucleare esplosa dentro o nelle vicinanze d’Israele distruggerebbe in modo efficace quella che rimane un’area piccola. Chiunque distruggesse Israele verrebbe proclamato come eroe dal mondo arabo. Per quelli che hanno delle qualifiche, la risposta è chiara: andarsene. E se ne stanno andando.
In Israele vi sono anche ebrei ortodossi ma ora la cultura di massa israeliana è virtualmente indistinguibile dal consumismo onnipresente – per molti aspetti cruciali, c’è più giudaismo in certe zone di Brooklin o di Toronto che nella maggior parte d’Israele. Anche gli ortodossi potrebbero essere pronti a lasciarsi alle spalle l’insicurezza e i guai con cui si devono confrontare quelli che vivono in una nazione che è, dopo tutto, parte di una regione altamente instabile.
Israeliani assennati e razionali esistono, naturalmente, e li cito abbastanza spesso, ma la politica americana verrà decisa da fattori che non hanno nulla a che fare con loro. Sfortunatamente, gli israeliani razionali sono una minoranza fin troppo piccola.
Gabriel Kolko è lo storico principale della guerra moderna. E’ l’autore del classico Century of War: Politics, Conflicts and Society Since 1914[2], Another Century of War?[3], e The Age of War: the US Confronts the World[4]. Ha anche scritto la migliore storia della guerra del Vietnam: Anatomy of a War: Vietnam, the US and the Modern Historical Experience.[5] Il suo ultimo libro è: World in Crisis,[6] da cui questo saggio è stato tratto.
[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://www.counterpunch.org/kolko08252009.html
[2] http://www.amazon.com/Century-War-Politics-Conflicts-Society/dp/1565841921/ref=sr_1_2?ie=UTF8&s=books&qid=1251125092&sr=8-2
[3] http://www.amazon.com/exec/obidos/ASIN/156584758X/counterpunchmaga
[4] http://www.amazon.com/exec/obidos/ASIN/1588264394/counterpunchmaga
[5] http://www.amazon.com/exec/obidos/ASIN/1565842189/counterpunchmaga
[6] http://www.amazon.com/exec/obidos/ASIN/0745328652/counterpunchmaga
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